11 settembre. A 15 anni esatti dalla tragedia la verità comincia ad affiorare: tutta a base di mega complicità ai più alti vertici a stelle e strisce. Le Twin Towers dovevano crollare, doveva esserci una strage, per poter accusare non solo Al Qaeda, ma soprattutto Saddam Hussein e quindi preparare la seconda guerra all’Iraq: questione di petrolio, armi e leadership nel bollente Medio Oriente.
Ma i vertici Usa dovevano trovare un alleato sicuro, affidabile, sul quale in un eventuale futuro poter anche scaricare la colpa, tanto gli sceicchi passano e il potere Usa resta. Quell’amica era l’Arabia Saudita e l’uomo chiave di tutta la story si chiama Bandar bin Sultan Al Sa’ud, principe, diplomatico e politico saudita, membro della famiglia reale e, soprattutto, amico storico della “Bush family”.
Complici e perfettamente a conoscenza delle trame della “Bandar Bush” band, i vertici Usa. Non solo Cia e Fbi, ma il più stretto entourage presidenziale: in pole position Dick Cheney e Condoleeza Rice e anche i vari Rumsfed, Tenet, Wolfowitz, Powell. La crema yankee.
Pezzi di verità – come in un puzzle – arrivano dalla fresca desecretazione decisa da Obama in corner, quasi un ultimo atto prima dell’addio alla Casa Bianca: il 15 luglio – nel più perfetto silenzio mediatico, anche di casa nostra – si è infatti alzato il sipario sulle famose 28 pagine di un rapporto redatto a dicembre 2002 da una commissione del Senato incaricata di ricostruire lo scenario prima e subito dopo quell’11 settembre. Mezze verità, un antipasto di quello che verrà: comunque sufficienti a delineare lo scenario, secondo alcuni gruppi di attivisti americani che da 15 anni lottano per la verità sulla tragedia delle Torri Gemelle e la guerra totale scatenata poi dagli Usa in mezzo mondo, comprese primavere arabe taroccate e il vero ruolo giocato da Al Qaeda e – oggi – dall’Isis.
Partiamo da due istantanee per delineare le pedine sullo scacchiere e chiarire plasticamente lo scenario.
QUATTRO AMICI AL TRUMAN BALCONY
Ecco la prima: 11 settembre, quartier generale del gruppo Carlyle, uno dei colossi finanziari Usa. Si tiene una importante riunione del cda. Come festeggiarla meglio se non con una diretta? Ed ecco che due potenti soci si ritrovano fianco a fianco a godersi la scena del crollo dalla finestra panoramica sulle Twin Towers: sono George H.W. Bush (senior) e Shafiq bin Laden, uno dei fratellastri del più noto Osama bin Laden, il ricercato numero uno di tutte le intelligence mondiali, da quel giorno in poi. Va solo notato en passant che dopo l’11 settembre gli affari made in Carlyle crescono vertiginosamente.
Passiamo alla seconda, appena due giorni dopo. Undici settembre 2001, quattro amici si ritrovano sulla celebre “Truman Balcony” della Casa Bianca a gustare un sigaro, bere un whisky e prendere una tintarella settembrina. Si tratta di George W. Bush (junior), Dick Cheney, Condoleeza Rice e Bandar bin Sultan: che brindano a un patto di ferro, per mettere in campo la strategia della Global War, studiata come azione di difesa (“self-defense”) dopo l’attacco.
Andiamo adesso al dossier secretato fino a meno di due mesi fa. Il rapporto fa riferimento svariate volte alla famiglia bin Laden e ad alcuni fratellastri di Osama, tutti in stretto contatto con alcuni tra gli attentatori. Spicca, in particolare, il legame di Abdullah bin Laden con Mohamed Atta e Marwati al-Shehhi, capo commando, il primo, dell’attacco alle Torri Gemelle. In un documento sull’11 settembre preparato nel 2012 da Ferdinando Imposimato per la Corte dell’Aja sui crimini di guerra (e riportato in un’inchiesta della Voce titolata “Atta d’accusa”, che trovate nel link in basso), il nome di Atta è in prima fila: libero di andare e venire come un fringuello dall’Europa agli Usa, mai fermato agli aeroporti nei suoi continui viaggi e spostamenti, che si intensificano a ritmo serrato fin dai primi mesi del 2001, capace di prendere il brevetto di volo addirittura in una scuola avio americana, quella di Venice, in Florida (postazione chiave, secondo alcune fonti, per traffici di vario tipo, anche di armi e droga), super vigilato da Cia ed Fbi, che conoscevano benissimo le sue mosse e il suo ‘spessore’. Abdullah bin Laden, dal canto suo, si è rimboccato le maniche come presidente e direttore di una sigla acchiappafondi per finanziare il terrorismo internazionale, la “World Arab Muslim Association” (WAMA).
Ma eccoci all’uomo chiave dell’intrigo internazionale, Bandar bin Sultan. Al quale il rapporto fa riferimento solo in due, ma significative circostanze: una riguarda i rapporti con un’altra tessera strategica del puzzle, Osama Bassnam; l’altra concerne il ruolo giocato all’interno della sigla ASPCOL, “l’ombrello d’affari (letteralmente ‘the umbrella corporation’, ndr) creato in Colorado per gestire i tanti business del Principe Bandar”.
Sul primo versante, vengono documentati pagamenti, bonifici e assegni partiti da Bandar e diretti a Bassnam e alla sua consorte. In seguito, si dettaglia il ruolo svolto da Bassnam, tramite alcune sigle di copertura (come la “Saudi Arabian Education Mission”), sempre d’accordo con i vertici del governo saudita e spesso in combutta con un’altro pezzo da novanta, Omar Al-Bayouni. Sia Bassnan che Al-Bayouni vengono in diversi ambienti etichettati come “ufficiali dei servizi segreti sauditi”.
Strategico anche Aspcol, che sta per “Aspen Corporation”, acquartierato in Colorado. Collegato al ben noto “Aspen Strategic Group”, ASG per i fans, gruppo impegnato ad “esplorare – come descrivono gli esperti di politica internazionale – le principali sfide estere che gli Usa devono fronteggiare”. Nel super board di Asg si ritrovano i soliti Rice, Cheney, Paul Wolfowitz, Judith Miller nonché Bandar.
ALLA CORTE DEL PRINCIPE BANDAR BIN SULTAN
Ma vediamo, più da vicino, chi è questo misterioso – ma non poi tanto – principe e membro della Royal dinasty saudita, il cui nome compare per 17 volte nel dossier della commissione del Senato Usa.Viene definito “l’uomo strategico da sempre nei rapporti diplomatici e d’affari tra Usa e Arabia Saudita”, per ben 22 anni ambasciatore del suo paese negli Usa, fino al 2005, quando viene richiamato a Riyadh, grande amico di Bush senior prima e Bush junior poi, negli ambienti diplomatici il suo nickname, il soprannome, è “Bandar Bush”. Pensate forse che dopo il 2005 si sia un po’ eclissato, fatto da parte? Neanche per sogno: per un bel decennio, dal 2005 al 2015, è stato segretario generale del “Saudi National Security Council”, e nel biennio 2012-2014 ha addirittura raddoppiato, cumulando anche l’incarico di direttore generale della “Saudi Intelligence Agency”: un uomo, cioè, per tutti i Servizi.
Un pedigree fitto di esperienze, il suo. E di sorprese da novanta. A lui è toccato il delicato coordinamento della task force d’intelligence messa in campo per “inventare” prima e sostenere poi il movimento dei ribelli in Siria, che arriva a comprendere anche al Nusra, la al Qaeda in salsa siriana: un’idea, of course, a stelle e strisce, ma evidentemente appoggiata dagli amici sauditi in prima fila, e poi dalla Giordania. Obiettivo non troppo nascosto: minare alle fondamenta il regime di Assad, una “primavera” studiata accuratamente tavolino.
Commenta il senatore democratico Bob Graham: “Al Qaeda è stata una creatura dell’Arabia Saudita e adesso l’Isis è l’ultima creatura! L’Isis è il prodotto dell’ideologia saudita, dei soldi sauditi, dell’organizzazione saudita”. Del resto, non vanno dimenticati i legami tra la famiglia Bush e la dinasty dei bin Laden: non solo il fratellastro socio in Carlyle, ma anche i rapporti diretti – e super amichevoli – con Osama in persona, ospite d’onore in un pranzo a casa Bush d’inizio anni ’90, alla presenza della star del tennis Bijorn Borg e della allora sua compagna, Loredana Bertè (come dichiarò in un’intervista alla Voce l’avvocato della Bertè, Carlo Taormina). E del resto, dopo l’11 settembre a tutti i componenti della foltissima famiglia bin Laden (24 in tutto) fu permesso di lasciare in tutta calma gli Usa: anzi, per il vasto codazzo di amici sauditi vennero messi a disposizione sei jet privati e due dozzine di velivoli commerciali!
Ma il ruolo di Bandar nella “diplomazia” statunitense risale ancora nel tempo, fino all’amministrazione Reagan. Uno dei primi incarichi fu quello di raccogliere fondi e armi per sostanziare l’appoggio ai mujahideen, impegnati contro i russi nella logorante guerra in Afghanistan; altra mission quella di supporto alle azioni dei Contras in Nicaragua, per fiancheggiare la Cia nelle “illegal operations”. Visti i precedenti e un così folto curriculum – racconta un reporter del Wall Street Journal, Adam Entous – “i veterani della Cia stanno ancora ridendo a crepapelle, vedendolo ora tornare alla ribalta”.
Ed è proprio sulle colonne del Wall Street Journal che è tornato alla ribalta un altro passato “scomodo”: quello del direttore della Cia John Brennan (nominato nel 2013 da Obama), il quale vent’anni fa ricopriva il ruolo di capocentro Cia in Arabia Saudita, incarico portano avanti fino al 1999: quando venne promosso capo staff dell’allora numero uno della Cia, George Tenet, l’uomo che ha chiuso gli occhi sul quel tragico 11 settembre 2001 e al quale, per primo, venne inviato il dossier del Senato poi super secretato fino allo scorso luglio…
Racconta un avvocato di New York attivista del Movimento ‘Truth Action Project’: “Fanno capolino, nel rapporto, molti altri nomi di fiancheggiatori di quel commando, praticamente tutti in qualche modo collegati ai vertici sauditi, a ministri del governo anche in veste di finanziatori, ai servizi segreti. Ci sono diversi omissis, parti cancellate in quel dossier di fine 2002. A questo punto occorre andare avanti, portare alla luce tutte le complicità e le collusioni tra vertici sauditi e americani, portare alla sbarra i veri responsabili di quelle colossali bugie che hanno condotto a tanti massacri e guerre inventate, come quella contro l’Iraq. Siamo ad un primo, fondamentale passo. Non bisogna fermarsi”.
Scrive il giornalista Barry Kissin: “Gli americani non possono e non devono aver paura di scoprire cosa c’è sotto quelle macerie dell’11 settembre. E dobbiamo capire che la nostra Guerra Globale al Terrore si sta trasformando in un Olocausto, provocato da quelle stesse forze che volevano farci credere in una battaglia autentica contro il terrore. La vera storia è che i crimini della famiglia Bush sono l’emblema di una parte dell’intero nostro sistema politico, economico, finanziario che ha dominato la scena come una macchina, un mostro che non sa far altro che ingoiare guerre e profitti. E in questo scenario, il prossimo futuro è nero. Perchè il candidato naturale di questo sistema si chiama Hillary Clinton, ancora più aggressiva di Obama”.
Il quale ha pensato bene di nascondere quelle tragiche verità sull’11 settembre: pur essendone perfettamente a conoscenza. Una sequenza “logica”: Bush, Clinton, Obama e con ogni probabilità ri-Clinton. Perchè ‘O sistema americano continui.
Ecco, a seguire, alcune righe scritte da Ferdinando Imposimato, che l’11 settembre terrà alla John Cooper Union di New York una relazione dal titolo “9/11 come Strategia della Tensione”, focalizzato in particolare sui nostri anni di piombo e soprattutto sul ruolo di Gladio. Nel link in basso potete trovare anche il programma del convegno.
Quindi, un significativo articolo scritto da Giulietto Chiesa per i 15 anni delle Torri Gemelle, su quello che dovrà ancora emergere per rendere finalmente giustizia e verità alle vittime di quell’Olocausto che continua nelle guerre di oggi, a partire dall’eccidio siriano; e soprattutto sui concreti rischi di un conflitto nucleare scatenato dagli Usa, oggi più imperialisti che mai.
FERDINANDO IMPOSIMATO ALLA JOHN COOPER UNION
Per me è un grande onore parlare alla John Cooper Union di NY, grazie ai gruppi Architects & Engineers for 9/11 Truth, Lawyers Committee for 9/11 Inquiry, NY State Legislative Action Project for 9/11 Justice, 9/11 Consensus Panel, 9/11 Truth Action Project. Parlerò della strategia della tensione nel mondo, seguendo l’insegnamento di Tucidide; anamnesi , diagnosi e prognosi, guardando al passato per capire il presente e prevedere il futuro. Al termine farò le mie osservazioni sulla necessità di attuare ovunque il due process of law (7 principi ) e di rispettare sempre i diritti umani. La politica deve tendere al bene comune , alla pace e alla eguaglianza, non alla conquista del potere, come insegnava Abramo Lincoln. Occorre ripudiare Niccolò Machiavelli, come guida spirituale della politica dell’Italia e di ogni altro Paese ,compresa l’America. L’insegnamento dello storico fiorentino, il fine giustifica i mezzi, è all’ origine dei mali passati e presenti nel mondo .Ed è ispiratore della strategia della tensione per cui lo Stato può compiere ogni delitto per conquistare e mantenere il potere. Invece nessuna ragion di Stato può legittimare la conquista e il mantenimento del potere attraverso la «licenza di uccidere» e di compiere stragi o attentati, ampiamente sperimentata da alcuni governanti nel mondo come strumento di lotta politica e di rafforzamento del potere. Mezzi ignobili, massacri e assassini ,rimasti spesso impuniti dovunque non sono compatibili con fini nobili, come la difesa della libertà , della democrazia e della eguaglianza. Mezzi sanguinosi portano al prevalere al potere politici criminali che governano con il terrore e la disinformazione. Occorre riprendere la via dell’incivilimento e uscire dall’abiezione, riconsiderando con occhi critici le nostre radici morali e i nostri vizi, riconoscendo che morale e politica vanno tenute distinte ma non contrapposte. Noi siamo convinti che morale e politica non confliggano ma possano e debbano coniugarsi. Così prevarranno giustizia e eguaglianza.
In primis hominis est propria veri inquisitio atque investigatio. E’ proprio di ogni uomo la ricerca e la investigazione della verità.
leggi l’articolo di Imposimato sulla Voce di Marzo 2012
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GIULIETTO CHIESA E I NUOVI RISCHI GLOBALI
Il prossimo 11 settembre coinciderà con il 15-esimo anniversario del più grande attentato terroristico della storia. Si sono spesi ettolitri d’inchiostro per argomentare sul tema: chi lo ha fatto? Quali erano gli obiettivi politici che i suoi organizzatori perseguivano?
È una disputa che non si può riproporre qui. Chi scrive ha sostenuto da sempre che i diciannove presunti “dirottatori”, guidati da Osama bin Laden, non avrebbero potuto, in ogni caso, realizzare un tale piano. Ci sono prove in abbondanza che nell’operazione intervennero forze potenti che avevano legami con diversi servizi segreti, a cominciare da settori della CIA e dell’FBI, per arrivare fino all’ISI pakistano, ai servizi segreti sauditi e a quelli, sicuramente coinvolti, del Mossad israeliano.
Il lavoro della “9/11 Commission” (cioè la “versione ufficiale”) non regge di fronte a una sterminata quantità di contestazioni, mosse da ricercatori e giornalisti indipendenti di tutto il mondo. Chi volesse sincerarsene può consultare il sito Consensus911.org, dove molte di queste contestazioni e incongruenze sono state esaminate in questi anni da un gruppo di specialisti di cui anch’io faccio parte. Quella Commissione – come adesso sappiamo ufficialmente dopo le rivelazioni dell’ex senatore democratico Bill Graham (che fu presidente della Commissione del Congresso che per prima indago sull’11/9) e di numerosi senatori e deputati americani – rifiutò di esaminare documenti e prove di quelle oscure manovre che precedettero l’attentato. Le 28 pagine del primo rapporto, recentemente desecretate, rivelano e documentano inequivocabilmente, che il governo saudita aiutò e finanziò i “capri espiatori” a installarsi negli Stati Uniti. E questo fatto, da solo (senza tenere conto che FBI e CIA erano – e tutto ciò è stato provato- al corrente della preparazione dell’attentato), dimostra che la 9/11 Commission fornì una versione falsa dell’intera vicenda, per coprire i veri responsabili.
A questa falsificazione – già provata – se ne possono aggiungere decine. Quanto basta per concludere che ci furono interessi potenti, all’interno dell’élite americana e dei circoli dirigenti occidentali, per coprire i veri protagonisti dell’attentato. Basti pensare che il presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, ha dichiarato, e scritto, in diverse interviste, che esistono ormai indizi più che sufficienti per incriminare, di concorso in strage, di fronte a un corte internazionale, l’Amministrazione americana di George W. Bush e Dick Cheney. Sfortunatamente una tale corte esiste, ma non è abilitata a processare l’Amministrazione americana.
Il fatto è che – altro indizio importante – tutto il mainstream mediatico occidentale ha coperto in tutti questi 15 anni una versione ufficiale totalmente falsa, fino al ridicolo, impedendo l’emergere della verità. Gli ideatori e organizzatori dell’attentato, i loro amici e sodali, avevano ed hanno il controllo quasi totale della comunicazione mondiale, e dunque hanno potuto giovarsi della completa ignoranza dei fatti in cui centinaia di milioni di persone sono state confinate.
Il problema è dunque, al tempo stesso politico e comunicativo. Ed è questione cruciale risolverlo prima che sia troppo tardi. Gli organizzatori dell’11/9 sono ancora non solo a “piede libero”, ma sono tuttora in grado di creare danni, irreparabili, alla pace mondiale. Si deve ricordare che essi sono dei vincitori: la potenza della loro azione ha modificato drammaticamente la storia del pianeta. Dopo l’11/9 ha preso inizio una serie di guerre sanguinose (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria) e di mutamenti del sistema delle regole internazionali: tutti motivati con la necessità di combattere il “nuovo nemico” dell’Occidente, l’Islam fondamentalista.
La guerra al terrorismo internazionale, che prese inizio fin da quella data, è in corso da quindici anni. Ma, paradossalmente, non solo non sembra produrre risultati tangibili, ma sta estendendo il caos e il disordine in tutte le direzioni. A prima vista la situazione attuale sembra dimostrare che l’Impero americano – il più potente e armato di tutto il mondo, coadiuvato dalle armate dell’Occidente inquadrate nella NATO – non sia in grado di fermare il nuovo nemico, artificialmente evocato mediante “il più grande spettacolo del mondo”, cui assistettero in diretta televisiva, live, circa 3 miliardi di persone.
Non credo che questa impressione di sconfitta sia giusta. Piuttosto gli sviluppi cui stiamo assistendo sembrano delineare una situazione di caos globale, che corrisponde agl’interessi degli stessi inventori della “guerra al terrorismo internazionale”. Si tratta di un “caos organizzato”, il cui scopo principale è quello di nascondere ai popoli dell’Occidente, ormai terrorizzati, che l’origine della crisi mondiale è tutta interna all’Occidente. Essa deriva direttamente dal fatto che il sistema bancario mondiale, creato dalla globalizzazione e che, a sua volta, ha sorretto la globalizzazione, non è più in condizione di resistere a lungo senza esplodere in una crisi mondiale di proporzioni cento volte superiori a quelle che portarono alla crisi del 1929.
Il “terrorismo islamico”, che si sta trasformando, giorno dopo giorno, in una “guerra irregolare” diffusa (secondo la definizione datane da Vladimir Putin) equivale a una grande “distrazione di massa”, per disorientare l’opinione pubblica mondiale, ma consente anche agli Stati Uniti di sfruttare terroristi e gruppi radicali estremisti per i propri scopi di parte. Lo prova a dismisura la teoria – inventata per l’occasione proprio dalle fonti ufficiali occidentali per mascherare il proprio sostegno al terrorismo nel corso della guerra contro la Siria – dei “terroristi moderati”, contrapposti ai “terroristi cattivi”. Teoria che si è spinta fino a far considerare come potenziali alleati, nel tentato abbattimento del regime di Bashar al-Assad, dei raggruppamenti affiliati ad Al-Qa’ida. Guarda caso, proprio la stessa Al Qa’ida cui 15 anni fa venne attribuita la paternità del grande attentato contro il World Trade Center e il Pentagono.
Dopo la crisi del 2008, innescata dal crollo di Lehman Brothers, nessuna ricetta dei centri del potere finanziario globale è stata in grado di rimettere in moto la macchina finanziaria mondiale. Il denaro è stato moltiplicato in forme vertiginose, attraverso il quantitative easing praticato da tutte le banche centrali dell’Occidente. Ma la macchina globale non riesce a ripartire. Al contrario, tutte le previsioni (che vengono tenute accuratamente nascoste al grande pubblico degl’investitori) dicono che, da qui al 2020-2025, la crescita del PIL globale si avvicinerà al punto zero, segnando la fine delle illusioni di crescita economica che sono state sparse a piene mani, contro l’evidenza dei fatti, negli ultimi dieci anni.
Il problema richiede una soluzione politica rapida, essendo quella economico-finanziaria al momento impossibile. L’esplosione sistemica avverrà in un periodo di tempo indeterminato, relativamente procrastinabile, ma non superiore al decennio. Questo spiega la fretta (e anche i segnali di panico) con cui l’Occidente sta cercando di mescolare le carte e di destabilizzare il mondo cancellando tutto il sistema di regole che aveva resistito durante la guerra fredda.
Si ripete così lo scenario che precedette l’11 Settembre del 2001. Qualche anno prima, nel 1998, il gruppo di neo-con guidato da Paul Wolfowitz, aveva predisposto il “Progetto per il Nuovo Secolo Americano” (PNAC, Project for the New American Century). Il titolo era già indicativo della follia dei suoi creatori: proporsi di imporre un altro secolo dominato dall’America, in un pianeta che si avviava a contare oltre 7 miliardi di esseri umani, nel quale esistono ormai giganti come la Cina e l’India, era equivalente a una dichiarazione di guerra contro il resto del mondo. Gli autori neo-con erano perfettamente consapevoli della violenza che un tale progetto avrebbe richiesto per essere realizzato. Sapevano – e lo scrissero – che la Cina, al 2017, sarebbe divenuta un concorrente oggettivo e non controllabile con il quale fare i conti. Rovesciando le parti, la definirono una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. E si prepararono a rafforzare un differenziale militare strategico che sarebbe dovuto essere incolmabile, per sempre, per ogni Stato o gruppo di Stati che avesse tentato anche soltanto di avvicinarsi alla potenza dell’Impero.
Essi, già allora, erano consapevoli della fragilità dell’immenso inganno finanziario su cui si reggeva il dollaro. E, infatti, i primi segni di recessione apparvero proprio nel 2001. Nello stesso tempo si trattava di imporre un cambio psicologico nella popolazione americana (e in quella di tutto l’Occidente, Europa inclusa) che, ignara di tutto e all’inseguimento della carota consumistica, mantenuta dal mainstream a poca distanza dal suo naso, non era disposta a farsi trascinare in nessuna avventura. Bisognava dunque creare qualche cosa di straordinario, di tremendo; qualcosa di “simile a una Nuova Pearl Harbor”, affinché le masse percepissero un pericolo smisurato e incombente, potenzialmente distruttore della loro sicurezza e del loro benessere.
Un tale pericolo esterno non esisteva alla fine del secolo XX. La Russia – così pensavano, e questo fu il loro errore più grande – era già stata tolta dal gioco, conquistata, colonizzata culturalmente e politicamente. Non c’era più il “nemico rosso” che aveva angosciato l’élite americana nel corso della guerra fredda. Dunque la Russia non poteva essere inclusa nel novero dei concorrenti. Il Muro di Berlino era caduto. Come scrisse sarcasticamente Gore Vidal, «quando i russi ci hanno colpiti alle spalle abbandonando il loro impero nel 1991, siamo rimasti con molte idee errate su di noi e, quel ch’è peggio, sul resto del mondo»[1]
Il pericolo bisognava dunque crearlo artificialmente. E così fecero. Potrà sembrare strano, ma lo dissero e lo scrissero apertamente. Basti ricordare cosa pensava, nel 1997, Zbignew Brzezinski: «Bisogna considerare che l’America sta diventando sempre di più una società multiculturale e, in quanto tale, può essere più difficile creare il consenso su questioni di politica estera, tranne che in presenza di una minaccia nemica enorme, direttamente percepita a livello di massa».
La previsione di una Cina al di fuori del loro controllo era giusta. Ma occorreva subito un “nuovo nemico”. L’Islam venne cucinato per le mense di tutto il mondo come “quel” nemico. George W. Bush e il suo ministro della Difesa, Donald Rumsfeld gridarono ai microfoni e alle telecamere del mainstream che «stava cominciando una guerra che sarebbe durata un’intera generazione» (Rumsfeld disse “cinquant’anni”).
I primi quindici di questi “cinquant’anni” li abbiamo già visti e vissuti. È evidente anche ai ciechi che la situazione mondiale sta degenerando. Ma l’Occidente si rifiuta di prendere atto del mutamento dei rapporti di forza planetari.
Soprattutto insopportabile, per i circoli dirigenti americani, è la constatazione che la Russia è riapparsa sulla scena come protagonista. Nella previsione dei neo-con sbagliata era l’idea che la Russia fosse stata messa definitivamente fuori gioco. E questo errore di calcolo rendeva problematico tutto il resto del loro piano. Pensavano che, tolta di mezzo la Russia, ci sarebbe stato abbastanza tempo per reinventarsi la Cina come nuovo impero del Male, al posto della Russia. Ma si rivelò sbagliata anche la previsione che, una volta inventata la “nuova Pearl Harbor”, i sette miliardi di abitanti della Terra si sarebbero messi in fila per comprare tutto il comprabile nei supermercati predisposti per loro. Sbagliata anche l’idea che sarebbe bastato creare denaro dal nulla per sistemare ogni cosa.
La sommatoria di questi errori e di questi successi consentì all’Impero di reggere – tra una nuova guerra e l’altra – per sei anni. Il settimo fu il 2008, e ci vollero dieci trilioni di dollari, inventati in tutta fretta dalla Federal Reserve di Alan Greenspan, per salvare dalla bancarotta tutte le banche dell’Occidente. E – come abbiamo già ricordato – gli ultimi otto anni sono stati il regno del caos.
Ecco perché l’Impero si trova di nuovo nella necessità di compattare il proprio sistema di alleanze, esattamente come fece attraverso l’attentato terroristico dell’11/9. Nel 2008 lo stratagemma fu la destabilizzazione dei “piccoli nemici”. Affidato a Barack Obama, che lo realizzò mediante una moltiplicazione di rivoluzioni colorate e, soprattutto con l’uso delle “primavere arabe” per fare piazza pulita di regimi ormai scomodi, o inutili, nel Medio Oriente. E si deve riconoscere che questa operazione strategica ha funzionato, ma solo nel senso di incrementare la destabilizzazione globale.
Ma la presenza della Russia, tornata ad essere potenza mondiale, ha costretto i neo-con a cambiare strategia, e a tornare sul luogo del delitto. Di nuovo la fretta ha fatto capolino.
La crisi incombe e, a est, ci sono ora due “nemici”, Russia e Cina. Non solo il grande, ma unico, “Paese del Centro”. Solo così si spiega il colpo di Stato in Ucraina, l’abbattimento di Janukovic con le squadre naziste e ultranazionaliste russofobe da lungo tempo preparate e istruite con l’aiuto della Polonia e delle Repubbliche baltiche.
La trappola, ben preparata, doveva costringere la Russia a un intervento diretto a sostegno dei russi di Ucraina, sottoposti a una vera e propria pulizia etnica di nuovo tipo. Vladimir Putin non è cascato nella trappola e i russi di Ucraina – non tutti ma una parte decisiva – hanno trovato la forza di difendersi. La Crimea ha scelto di “tornare in patria”.
Ma il risultato è stato in gran parte raggiunto dall’Impero. L’Europa si è schierata a fianco agli Stati Uniti, sono scattate le sanzioni, l’ondata russofobica ha investito tutto l’Occidente e lo ha compattato attorno a Washington. La Russia e Putin sono il vero “nemico da battere”.
Come? Hillary Clinton dovrà risolvere il problema.
Lo scontro diretto è in preparazione. Ma non tutti a Washington sono così suicidi da pensare di attuarlo. Si preparano alla guerra, ma pensano che anche la Russia di Putin potranno metterla in ginocchio, come fecero con l’URSS di Mikhail Gorbaciov. È una scommessa che potrebbero perdere. E l’Europa è in pieno subbuglio. Potrebbe rompersi prima l’Europa.
E anche l’Impero è diviso al suo interno. Donald Trump difficilmente vincerà le elezioni, ma è un segnale che la fiducia dello stesso popolo americano nelle sue élites è ormai logorata. Si può applicare all’America il detto latino: “omne regnum in se ipse divisum desolabitur” (ogni regno, quando è diviso al suo interno, finisce per crollare).
qui l’articolo originale di Giulietto Chiesa
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Un commento su “Quella connection Usa-Arabia Saudita per il petrolio e la Global War ”