Sta meditando ancora il ministro della Salute sui moniti europei indirizzati all’Italia per l’eccesso di garantismo verso gli animali-cavie sottoposti a vivisezione? Ha approntato la risposta, Beatrice Lorenzin, o obbediamo senza se e senza ma? E’ genuflessione, come pareva chiaro a tutti dopo i primi rimproveri, a fine aprile, o c’è caso mai stato un sussulto d’orgoglio? Lo vedremo a brevissimo: perchè il tempo sta per scadere, a due mesi dalla forte tirata d’orecchie, come neanche a scuola.
E se il ministro ha ancora piccoli margini di riflessione, e vuol capirci qualcosa su quello che davvero significa vivisezione – pardon “sperimentazione animale”, come sentenzia un Vate in materia, la senatrice e farmacista a vita Elena Cattaneo – consigliamo la lettura di alcuni passaggi tratti dal volume “Le Piccole Persone”, fresco di Adelphi, che raccoglie saggi, scritti e pensieri di Anna Maria Ortese: che di “animali” ha scritto per una vita, raccontando con grande passione e intelligenza il dolore di chi soffre in silenzio, per volere dei cosiddetti “umani”.
E la vivisezione è uno degli argomenti clou affrontati da Ortese. Giorni fa abbiamo riportato ampi brani tratti da “Una sentenza della Corte di Cassazione”. Stavolta ecco alcuni passaggi da “Uno strazio senza grido”, dedicato proprio alle torture degli uomini, in camice bianco, nei confronti di creature indifese: si tratta di una risposta ad un lettore de “Il Giorno” (Ortese scriveva per alcuni quotidiani, tra cui anche “La Stampa”), pubblicata il 29 marzo 1973.
“Vivisezione è un’esperienza scientifica (e può anche essere non scientifica, ma di semplice curiosità) fatta sezionando animali vivi, con l’aiuto o no di anestetici. Nient’altro è la vivisezione”.
“Questa esperienza, per qualche medico dell’antichità, era consentita su soggetti umani, su condannati a morte, per esempio: si interveniva su di essi tranquillamente e senza preoccuparsi, dati i tempi – e anche l’infanzia della medicina – di ciò che essi potevano o no sopportare. Scomparsa, credo, dalla pratica medica, rispetto al soggetto uomo, la vivisezione è ricomparsa rispetto al soggetto animale. Qui, anzi, è così universalmente accettata e praticata, da essere diventata una normalissima e benemerita istituzione scientifica. Sugli animali è permesso tutto. Operazioni, per esempio, del genere: staccare la testa di un cane, ricucirla sul petto di un altro cane, viva! Questo portento fu ottenuto in Urss, recentemente – vidi la fotografia del cane – ma credo si riesca a riprodurlo ovunque”.
“Ogni giorno, in tutte le cliniche del mondo, accadono cose o tentativi di questo genere; ogni giorno che si leva sul mondo, per gli animali sottoposti al controllo e dominio scientifico, è un giorno di paura o di strazio, spesso spaventoso strazio, che bisogna sopportare senza grido, anche il grido dà fastidio, il grido attraverso cui il dolore esce a fiotti. In silenzio. E a causa di questo silenzio la cosa sembra morale, utile, lecita”.
“Gli orrori della vivisezione sono tali, che solo il silenzio intorno ad essi può renderli possibili. Oppure questa convenzione: che gli animali soffrono meno dell’uomo, o non soffrono affatto. Ma i medici scrupolosi, quando interrogati, abbassano la testa; altri non rispondono, o si limitano a dire che ‘è necessario’”.
“Capisco, a questo punto, la ‘vera pazzia’ di un altro lettore, che afferma di essere più sensibile al dolore animale che umano. Non la condivido, nel senso che il ‘più’ è ancora e sempre l’illecito, e in quanto a me lo sostituirei con un ‘ugualmente’. Infatti – parliamo del dolore fisico – davanti al dolore fisico tutti gli animali sono uguali. Anche l’uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso”. (…)
In un altro scritto, tra i più toccanti, intitolato “Ragazzo inglese” e dedicato ad un giovane che si ammazzò perchè sentiva dentro di sé l’enorme bagaglio di dolore per le torture inflitte dagli “uomini” agli “animali”, Ortese torna sul tema vivisezione. “Qui l’umanità ha toccato il colmo della sua amoralità naturale – di cui porta tanto vanto – bisognerebbe precisare: con la sua degradazione naturale. Guardate queste fotografie, lettrici e lettori, e dite se prima di tutte le vostre sofferenze non venga questa sofferenza. E se non lo capite, è certo che non siete né donne né uomini”. (…).
“Liberate tutti gli animali. Abbiatene cura. Medicateli, proteggeteli, se soffrono molto, senza rimedio, uccideteli. Ma scioglieteli, prima di tutto, togliete loro i chiodi e altri aggeggi, aprite le porte delle luride stanze in cui sono straziati: come le aprireste a vostro figlio, se fosse un cane”.
Anche per Anna Maria Ortese il maggior cruccio, la più forte pena provata negli anni, aveva un preciso motivo, una scaturigine ben identificabile. La chiarisce in modo esemplare in una lettera inviata da Rapallo, l’8 febbraio 1983, a Guido Ceronetti: “Il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri, e giudico perfino il ‘genio’ da quel rapporto: se c’è o non c’è, con l’indignazione”.
E aggiunge: “Non è che non abbia altri due o tre pensieri-base (compagni di ogni ora – compagni di tutti), ma mi sembra che all’inizio di ogni affanno o terrore bisognerebbe ricercare il peccato, che è l’assenza di innocenza, ma soprattutto di pietà per i più deboli”.
In apertura Anna Maria Ortese
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.