Sono diventate francesi storiche catene di supermercati italiani come i Gs, ora Carrefour, che in questi giorni di europei di calcio propone al pubblico italiano uno spot pubblicitario menzognero. Eleganti uomini del gruppo osano dire che tifano per l’Italia. Detto da francesi, notoriamente nazionalisti, lo slogan suona come una vera beffa. Una gaffe da Pinocchio al cubo. AAA, Azienda italiana vendesi. Vendita o svendita, normale perché vicendevole transazione o esproprio per nulla proletario del nostro patrimonio industriale? Ecco il problema: se la crisi internazionale si è manifestata con maggiore virulenza dalle nostre parti o se è in atto un fenomeno paragonabile per dimensione e importanza all’esodo dei cervelli che le nostre università formano e le difficoltà di trasferire il sapere in lavoro spingono a emigrare. I numeri, come sempre, sono rivelatori inconfutabili della realtà. E allora diamo un’occhiata alla compravendita di aziende italiane. L’ultimo acquisto sul mercato italiano si deve al gigante americano Whirpool che ha inglobato la maggioranza di azioni dell’Indesit (60,4%) e si prepara a metterne in cassaforte il restante.
La statistica racconta che in quattro anni 437 aziende del nostro Paese sono state vendute all’estero, per la cifra impressionante di 55 miliardi di euro, finiti nelle mani dei proprietari, senza nessuna ricaduta positiva per la nostra economia. L’analisi del fenomeno, limitata al settore agroalimentare elenca i maggiori passaggi di proprietà. Il colosso Unilever ha comprato l’Algida, la sorbetteria Ranieri, il riso Flora e le confetture Santa Rosa. La mega americana Kraf, seconda multinazionale del mondo. ha fatto incetta di aziende del settore caseario, ha rivenduto l’Invernizzi alla francese, Lactalis, acquisito Negroni, Simmenthal, Gruppo Fini, Splendid e Saiwa. La Nestlé si pappa la Perugina, poi Vismara, Sasso, Pezzullo, Berni, Italgel, propietaria di Gelati Motta, Valle degli Orti, Surgela, La cremeria, Maxicono, Marefresco, Voglia di Pizza, Oggi in Tavola, Antica Gelateria del Corso, Gruppo Dolciario Italiano, Alemagna, San Pellegrino, Levissima, Panna, Pejo, San Bernardo, Si potrebbe continuare quasi all’infinito, per esempio con la campagna acquisti della Danone (Galbani, poi rivenduta), Agnesi, Sangemini e Ferrarelle, Fabia, Boario, Fonte di Nepi, poi passati a Italacqua. Solo per aggiungere un caso, l’esodo dell’italianissima Birra Peroni che finisce ai sudafricani. Non sono più italiane la Star, L’Eridania, la Norcineria Fiorucci., Sperlari. Vendute la Ducati e la Lamborghini alla Volkswagen. Nell’abbigliamento la Mila Schon, con dieci marchi famosi (compresi Valentino e Ferré) è della giapponese Itochu Corporation, il gruppo Kering compra Gucci, tra gli altri, Louis Vuitton acquisisce Pucci, Fendi, Bulgari. Non mancano le vendite nel settore arredamento (Ginori, altre note aziende di ceramica). La falcidia impoverisce l’essenziale ganglio italiano della produzione industriale, contribuisce vistosamente a frenare i tentativi di agire sulla disoccupazione e sul bilancio dello Stato, dissanguato dal salasso della cassa integrazione. Ma soprattutto svilisce l’immagine di Bel Paese, protagonista di eccellenze in settori vitali della nostra economia, qual è l’alimentare. Che dire, sono lungimiranti e bravi affaristi francesi, americani, indiani, giapponesi, tedeschi o siamo noi industrialmente esterofili e pavidi difensori dell’italianità?
Nella foto prodotti alimentari italiani
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