Provare a dare un senso al senso smarrito delle cose e della vita. Ma il paradosso è che a restituire concretezza, nel tempo dello smarrimento totale negli oceani del web, possa essere quanto di più immateriale ed etereo finora l’uomo abbia mai concepito: la poesia, l’arte, la letteratura.
Sta forse racchiusa qui, in queste iper-realistica iperbole, la sfida che Silvio Perrella lancia nel suo ultimo libro “Addii, fischi nel buio, cenni” (Neri Pozza), presentato ieri alla grande nel cuore di Napoli, da Feltrinelli in piazza dei Martiri, con Francesco Durante e con un gigante del teatro come Toni Servillo al suo fianco. Non dunque, quella di Servillo, una semplice, seppur potente lettura di brani, bensì un richiamo forte alla nostra identità di uomini, a quel senso dell’esistenza declinato nella pagina di Primo Levi, tra gli autori più presenti in questo nuovo saggio di Perrella.
E poi i due Rea, Ermanno, ma più di tutti lui, Domenico Rea, il cantore di Ninfa Plebea, l’artefice di quei Gesù fate luce e Spaccanapoli che per Perrella hanno fatto dello scrittore di Nofi il narratore che sopra tutti, insieme a Italo Calvino, ha incarnato il Novecento italiano, rappresentando quella generazione di scrittori ai quali gli italiani devono tanto. Se non proprio tutto.
Perché – ha dichiarato Perrella – è stato proprio grazie a quel circolo invisibile, eppure così unito, di grandi intellettuali nati negli anni venti, che il nostro Paese ha saputo abbattere i muri del fascismo ed ha posto le basi per la libertà scritta nelle pagine della Costituzione.
Un tributo dovuto e necessario dunque, la cavalcata di Silvio Perrella lungo l’epopea dei grandi scrittori del Novecento, come ha ricordato Francesco Durante, amico, collega e – scopriamo – anche “rivale” nei corridoi della Mondadori, quando entrambi erano alle prese con la titanica edizione di un “Meridiano” (Durante per Domenico Rea, Perrella per La Capria), e gli editors li sollecitavano a turno per la consegna delle bozze.
Proprio un personaggio di Domenico Rea, quella “Segnorina” che conclude Spaccanapoli, ha aleggiato in qualche modo nel corso della serata, quando quella memorabile scena, ricordata da Perrella come emblema di una letteratura che sa farsi carne viva, ha fatto tornare alla memoria il ventennale dalla scomparsa di Rea, quando era stato proprio il grande Servillo a far risuonare quei brani dentro il foyer del San Carlo.
Su tutto, la «grande prosa terremotata di quegli scrittori, con strutture metriche capaci di formare per ragioni misteriose veri e propri endecasillabi» che, come ha detto Perrella, ha saputo risanare la coscienza e rifondare la dignità di un popolo uscito devastato dalla guerra, dagli orrori dei genocidi, dallo spettro della catastrofe nucleare. Un circolo letterario non solo virtuale, ma anche fisicamente coeso. Perché proprio in un tempo nel quale, come ha sottolineato Durante, la comunicazione era limitata ai mezzi tradizionali, loro, i protagonisti di quella straordinaria stagione della letteratura italiana, hanno continuato a scriversi, incontrarsi, pungolarsi dalle pagine delle riviste e a trovare punti anche materiali d’incontro, come dimostrano ad esempio le vacanze, che spesso trascorrevano insieme. Dando vita a straordinarie koinè intellettuali delle quali possiamo oggi solo evocare il ricordo. O trasmettere la lezione.
Rea, Calvino, Pomilio, Levi, Parise, Ginzburg… Sì, le loro menti sono state i pilastri per ricostruire il Paese. Il massaggio che affiora dalle pagine di “Addii, fischi nel buio, cenni” è perciò forte e chiaro. Una lezione da mandare a memoria, si sarebbe detto una volta. Un pungolo nella carne, diciamo noi, per imparare che proprio quando tutto sembra perduto, come oggi, quello è il tempo di ricominciare. E di farlo seguendo l’esempio dei maestri che lo hanno fatto prima e meglio di noi. Coraggio!…
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