Simpatia straripante, sorriso ammaliante, bellezza mediterranea da copertina di un ipotetico rotocalco “E’ qui il Sud”, coraggio raro per gente di spettacolo nel dichiararsi schierata a sinistra, prima con il Pci poi con il Pd: Sabrina Ferilli ha incantato gli italiani e stregato la tifoseria romana annunciando lo spogliarello nell’Olimpico in festa per Totti e compagni. Empatia di Sabrina Ferilli perfino nel ruolo pubblicitario di testimone di Poltrone & Sofà (“Gli artigiani della qualità”), sensualità latina, fascino coinvolgente. In vista delle prossime elezioni amministrative ci si sarebbe aspettato un empito politico a sostegno del centro sinistra di Renzi. Macché, la rigogliosa Sabrina, indispettita per la diluita identità del Pd, ammaina la bandiera che sventola al Nazareno e si avvolge in quella dei 5Stelle. Niente di cui scandalizzarsi, non fosse che per una sua inevitabile caduta dalla padella alla brace. Segnali inequivocabili di propensione dei grillini per posizioni ondivaghe, ammiccanti alla sinistra di Sel e alla destra conservatrice, ne fanno un calderone senza nerbo progettuale, in competizione accanita contro Renzi. Il caso Ferilli offre l’opportunità per riflettere sulle conseguenze della frammentazione dei separati in casa (Cuperlo, Bersani) e fuori casa (Sel, Fassina, comunisti ingraiani a diversi livelli di nostalgia per il Pci che fu). Domande ai “dissidenti”: Quanti siete e pensate davvero di ripristinare i valori del comunismo, magari sfrondato di rigidità anacronistiche, mettendo i bastoni tra le ruote del renzismo, o peggio con scissioni traumatiche quanto improduttive? Le idee cambiano standoci dentro, con una talea riuscita che innesti, nel tronco dell’ideologia di partenza, linfa nuova, scevra da alleanze con incompatibili soggetti politici.
Nella foto Sabrina Ferilli con la bandiera della Roma
Carceri in vendita, molti no poche motivazioni
Ci si vergogna, ma non cambia una virgola, di carceri dove la vita è mortificazione della dignità umana, che in cella finisca un pericoloso malvivente o poveraccio sorpreso a rubare cibo in un supermercato, un pericoloso killer o un commerciante strozzato dalla crisi e costretto alla bancarotta. Marco Pannella, non è il solo, ha violentato il suo corpo malandato con scioperi delle fame e della sete, voce inascoltata di protesta per detenzioni in condizioni disumane agli antipodi rispetto al principio della privazione della libertà come percorso di riabilitazione. Tre nomi di penitenziari, San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale, esemplificano da sempre l’elusione dei principi fondamentali del recupero: sovraffollamento, esclusione da impegni quotidiani di lavoro (retribuito), malversazioni e mille disagi, assenza di strategie riabilitative, sono sintomi di un sistema carcerario da terzo mondo e finora non si ò concretizzato nessun intervento di ristrutturazione pari all’emergenza denunciata. L’ipotesi di vendere le carceri di Milano, Roma e Napoli, e ricavarne risorse per nuovi complessi compatibili con la dignità dei reclusi, appena accennata da fonti governative ha ottenuto alcuni “No”, motivati dalla paventata emarginazione dei detenuti e da presunti disagi per la mobilità di familiari e legali dei detenuti. Chi lo afferma finge di ignorare che l’eventuale delocalizzazione, in un contesto progettuale moderno, dovrebbe avvenire in parallelo a soluzioni di viabilità protetta, addirittura più confortevoli rispetto alle difficoltà imposte dal traffico cittadino. Certo, il paragone è irriverente, ma conviene egualmente citare il caso della city parigina, La Defense, dove grattacieli ed edifici adibiti ad uffici sono stati costruiti solo dopo aver ultimato la rete di collegamenti veloci con la città. Il sospetto, considerato il patologico immobilismo decisionale, è che l’idea di nuovi penitenziari italiani sparisca rapidamente dall’agenda di governo, dal dibattito politico e dall’attenzione dei media. Come sempre.
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