Evasore io? Negano gli “immigrati” di lusso nei paradisi fiscali

Questo Giovedì 7 Aprile del 2016 è giornata esemplare se l’obiettivo del dossier sugli scandali all’italiana è di non trascurare neppure uno dei trecentosessantacinque giorni di un anno del terzo millennio. Oggi c’è di che scegliere e la priorità non è in discussione per par condicio tra notizie di pari rilievo mediatico. Parte dal limitato confine dell’ospedale di Salerno l’indignazione per la malasanità che l’indagine di Raffaele Cantone monetizza nella stratosferica cifra di sei miliardi di euro bruciati ogni anno e che ingloba l’intero sistema, o quasi. “Terreno di scorribanda per delinquenti di ogni risma”: impossibile equivocare, il presidente dell’Autorità anticorruzione, spara ad alzo zero sul sistema che una volta scoperchiato rivela l’incredibile percentuale di un’azienda sanitaria corrotta su tre. Una delle conseguenze più gravi di questa complessa patologia allo stadio di avanzata cronicità è l’indisponibilità di risorse per una migliore assistenza, il taglio a reparti ospedalieri, ai servizi per i malati, alla ricerca. Le cifre della corruzione impressionano: sarebbero due milioni gli italiani che per ottenere sconti sull’attesa di interventi chirurgici e sanitari hanno fatto ricorso alla classica bustarella. Punte avanzate della corruzione sono l’acquisto di beni, la realizzazione di opere e servizi, le tangenti per favorire assunzioni. La ricaduta sulle aspettative di vita è impressionante. Una migliore gestione della sanità le allungherebbe di due anni. Scandalo nello scandalo il caso di Roberto Formigoni, ex governatore della Lombardia. In piena crisi dell’ospedale San Raffaele e della Fondazione Maugeri, finivano nelle sue tasche capienti buste zeppe di banconote da cinquecento euro (un totale di otto milioni per lui e i suoi fedelissimi). Lo sostengono i pm di Milano al processo e affermano che Formigoni “Ha venduto la sua funzione in cambio di tangenti”. Nessuna invidia per Raffaele Cantone. Dovrà abituarsi agli straordinari per sradicare al malapianta della corruzione.

Entrare nel dettaglio dell’allucinante intervista che Bruno Vespa ha regalato alla mafia, nella persona del figlio di un pluriergastolano qual è Totò Riina? Ce ne guardiamo bene. Peggio per chi continua a far notte con “Porta a porta”, plagiato dallo strapagato padrone di casa. L’ignobile tentativo di scoop non è l’unico motivo per chiedere al nuovo vertice Rai cos’altro deve accadere nella rubrica dell’ex direttore del TG1 per rescindere il contrato milionario che Vespa somma alla pensione da direttore di testata e alle prebende di libri pubblicizzati, gratuitamente, in ogni spazio aggredibile della radiotelevisione pubblica (pubblica???). Il territorio notturno del conduttore, storicamente prono ai piedi di Berlusconi quando era all’apice del successo politico, aveva già abusato di autonomia contenutistica ospitando i parenti del boss romano Casamonica, quello dei funerali “regali” che indignarono gli italiani. Finalmente qualcuno della variegata sinistra italiana ha preso le distanze dalla puntata di Porta a Porta (Bersani, Grasso, Bindi) ma con il corollario di una domanda inevasa: se le critiche hanno accompagnato da sempre il programma, perché la sinistra non ha capito che disertandolo sistematicamente avrebbe decretato la sua inevitabile fine, privata della decenza minima di par condicio? Risposta facile. Perché la libido del comparire è più forte della coerenza politica. Spesso le parole sono pietre. Vespa, negli spot promozionali dell’intervista, l’ha definita “importante”, nuovo insulto alle vittime di mafia. Non si sono pronunciati il presidente della Repubblica, e ne avrebbe avuto motivo, la presidentessa della Rai Monica Maggioni e il direttore generale Dall’Orto che si sarebbe “irritato” ma non al punto di bloccare la messa in onda dell’intervista (registrata). Nel frattempo Vespa si è garantito il rinnovo del suo opulento contratto (fino a giugno del 2017, cioè per altre cento puntate) e la pubblicità per il prossimo libro che come da tradizione vedrà partecipare politici di ogni tendenza.

Il terzo capitolo della scandalopoli odierna lo propone la coda (senza fine) del caso Panama, che fa tremare il mondo dalla Cina alla Russia, con tappe significative in Europa e dintorni. Sarebbero ottocento gli italiani titolari di società offshore in grado di occultare fondi “neri” illecitamente esentasse. Oltre i già noti, Carlo Verdone (Athlith Real Estate di Panama) e Barbara d’Urso (Melrose Street Ltd, Seichelles). Le due società hanno smesso di esistere, così dichiarano i rispettivi legali. Nel chilometrico dossier delle evasioni fiscali compare anche il nome di Mark Tatcher, figlio dell’ex lady di ferro inglese, la seconda moglie di Paul McCartney, l’ex maggiordomo della principessa Diana, Sarah Ferguson, il calciatore Willian del Chelsea, le figlie di Stanley Kubrick. Da Le Monde l’indiscrezione sull’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Strauss-Khan che avrebbe guidato un fondo lussemburghese e aiutato a creare più di trenta società in paradisi fiscali. Trema il partito comunista cinese, Putin cammina su carboni ardenti, la destrorsa Le Pen ha scomodi scheletri nell’armadio, ma la deflagrazione dello scandalo, lo dimostra la storia, è destinata a perdere sonorità, sepolta dall’oblio dei media a vantaggio del prossimo episodio di corruzione.

 

Nella foto Raffaele Cantone


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