L’evoluzione comporta differenziazione; biologicamente questo significa biodiversità. La biodiversità fornisce la base biologica al comportamento del self verso il non self. Questo comportamento può essere di indifferenza, aggressività, difesa. E’ chiaro che, da un punto di vista biologico, etica e biologia sono così legate che i biologi sono più qualificati a parlarne dei filosofi. I biologi considerano il problema dal punto di vista delle conoscenze scientifiche che essi stessi hanno acquisito e non dal punto di vista di concetti riferiti da altri. Inoltre gli scienziati hanno una loro visione del mondo e della vita, dunque sono filosofi, come lo erano i presocratici. Essi studiano l’etica nel grande laboratorio che è il mondo, la vita, la storia. Tuttavia, da alcuni anni, l’etica si studia anche nei laboratori di genetica, di neuroscienze.
In questi settori i progressi sono stati immensi; basti pensare alla PET, alla TAC, alla Risonanza magnetica, che permettono di vedere le funzioni degli organi e non solo la struttura. Le nuove tecnologie hanno dimostrato, per esempio, l’esistenza di un legame strettissimo fra sentimenti e pensiero. Hanno cioè dimostrato l’esistenza del pensiero sentimentale. Non può esistere l’uno senza l’altro. E’ stata dimostrata anche l’attivazione di aree cerebrali specifiche nella predazione, nella distruttività. Questo ha fatto pensare, insieme all’osservazione continua di quanto avviene normalmente in natura, che l’etica non esista nei processi biologici ed, in senso lato, in natura. Dov’è l’etica quando un coccodrillo divora un’impala? L’etica dunque potrebbe essere considerata una costruzione culturale umana.
Tuttavia, le neuroscienze hanno dimostrato anche l’attivazione di aree specifiche quando proviamo empatia, compiamo un’azione non contro, bensì a favore del non self. In queste azioni si liberano addirittura neorotrasmettitori del piacere: dopamina, endorfine ecc… Questo tipo di azioni, dunque, viene premiato dalla natura. Quale può essere l’etica, da un punto di vista biologico, dato che siamo spinti al bene anche dalla genetica? Merita notare che molte culture (capitalistica, talvolta anche religiosa) spingono verso il principio del più forte, in senso lato, al male. Penso si possa dire, da quanto osservato in biologia, che ogni azione, la quale tenda alla sopravvivenza genetica personale o collettiva, è biologicamente etica. Una madre che si getta tra i binari e salva il suo bambino perde la propria vita, ma salva la propria genetica. Compie dunque un atto moralmente e biologicamente etico.
Tuttavia, queste osservazioni sembrano giustificare atti che tendano alla sopravvivenza della propria genetica e non a quella del non self. Infatti, anche esaminando la storia, si vede che i concetti di violenza contro il non self (aggressività, distruttività, guerra) sono quelli applicati concretamente. Ciò che è stata applicata, in buona sostanza, è la legge del più forte. Questa legge è stata applicata anche nei confronti della natura, contro la quale ci siamo addirittura procurati una giustificazione divina.
Oggi, però, le conoscenze biologiche acquisite hanno fatto giustizia di queste idee antiscientifiche, perché, dimostrando l’attivazione di aree cerebrali specifiche e la liberazione di dopamina, quando si compiono azioni altruistiche, è stata dimostrata una predisposizione naturale biologica alla preservazione del gene, non necessariamente intraspecifica, bensì extraspecifica, cioè in favore della variabilità genetica.
Le conseguenze di queste osservazioni nel campo delle neuroscienze sono immense: la salvezza genetica non è necessariamente nell’aggressività, nella guerra, nella violenza, bensì può essere nell’empatia, nella tolleranza, nell’equilibrio con il non self, nella conservazione della variabilità genetica.
Esiste dunque una ragione biologica per cui “diverso da noi”, non vuol dire “oggetto”, suscettibile di trasformazione, o di distruzione. Ciò è tanto più vero, perché, in una visione generale, ecologica, ciò implicherebbe anche la distruzione della nostra genetica. Sarebbe cioè un suicidio di massa, che, in realtà, sarebbe omicidio per molti. Può essere etico questo suicidio-omicidio? Dunque il mantenimento della variabilità genetica, che è prodotta dall’evoluzione, fa parte della bioetica, come l’aborto, l’eutanasia ecc… La distruzione del non self porta verso la distruzione del self.
Consideriamo alcuni esempi storici: la distruzione di orsi, puma e lupi nel Nord America ha portato alla diffusione di malattie trasmesse da zecche, prima inesistenti. La distruzione degli avvoltoi indiani (causata dal diclofenac) ha portato ad un aumento di altri predatori e ad altre malattie, prima inesistenti. La distruzione delle mangrovie lungo le coste ha portato agli effetti catastrofici dello tzunami (che ha avuto invece effetti quasi nulli dove la mangrovie esistevano ancora). La distruzione delle paludi americane, presso le coste caraibiche, ha portato agli effetti distruttivi dell’uragano Kate. Tuttavia, salvaguardare la diversità è difficile, soprattutto per l’atteggiamento mentale dell’uomo, cioè per il software e per l’hardware umano, che si sono consolidati in senso aggressivo contro la diversità, nel corso dell’evoluzione. Questo fatto è avvenuto sicuramente, dal punto di vista biologico, per fenomeni di “facilitazione” nei circuiti neuronali più frequentemente usati, ma successivamente è stato rafforzato da ragioni culturali, fra cui ha avuto una parte importante l’autorizzazione scritta religiosa. Quest’ultima osservazione biologica è fondamentale: le sensazioni, i sentimenti, i pensieri, modificano l’encefalo, cioè modificano l’hardware, e non solo i comportamenti, il software (Bruno Fedi, “L’Evoluzione Distruttrice”).
Oggi l’evoluzione tecnico-scientifica, ha reso distruttivo ogni atteggiamento ostile verso il non self, prima apparentemente utile alla sopravvivenza dell’uomo. L’hardware ed il software ancestrali, però, conservano il principio del più forte, della violenza, della distruttività, anziché quello dell’empatia. Mantengono, cioè, un comportamento che tende verso un utilitarismo apparente e momentaneo. In sostanza, dichiarando l’uomo “misura di tutte le cose” si effettua una dichiarazione dogmatica, statica, non evolutiva, non confutabile, dunque antiscientifica, non favorevole al mantenimento della variabilità genetica, dunque non utile alla sopravvivenza del gene, neppure di quello umano, dunque biologicamente contrastante col comportamento che le ricerche hanno dimostrato essere premiato dalla natura.
Il concetto che l’etica riguardi esclusivamente l’uomo è arcaico e contrasta con quanto osservato perfino in animali ritenuti poco intelligenti come polpi e galline. Sostenere che questi animali sono fondamentalmente diversi da noi perché incapaci di: 1) pensare Dio; 2) immaginare l’infinito; 3) fare ragionamenti astratti, è una pura supposizione! Si tratta di un’affermazione uguale a quella che le donne non avevano l’anima, come si è detto fino al Concilio di Trento. La differenza fra noi e gli altri animali esiste, ma è fondamentalmente quantitativa. L’evoluzione ci dice che non esiste fra noi e loro alcun fossato incolmabile e che dichiarare una diversità ineliminabile significa “comportarsi da indovini”, fare un’affermazione grottesca, involontariamente umoristica.
La concezione evolutiva del tutto (vita, società, encefalo, uomo ed altri animali, dell’hardware, oltre che del software) è da quarant’anni un aspetto fondamentale del pensiero scientifico animalista italiano, di cui il pensiero scientifico anglosassone non si è ancora accorto. Sembra che la vecchia Europa, sia pure con l’enorme lentezza dei tempi biologici, con la moratoria della pena di morte da poco accettata e con il riconoscimento degli altri animali come esseri senzienti (non come oggetti), si muova in questa direzione.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.