LA STIRPE DEI DRAGHI

 

Febbraio 1992, dicembre 2005. Dalla prima alla seconda Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa per le mazzette del pio albergo Trivulzio al crollo di un intero pezzo del sistema economico e finanziario culminato con le dimissioni di Antonio Fazio. In mezzo tredici anni durante i quali la corruzione non è mai morta, anzi, ha intrapreso nuovi e più innovativi percorsi, le mafie hanno decuplicato i loro già  pingui fatturati, lo Stato sociale è stato smantellato, l’economia massacrata a colpi di privatizzazioni selvagge e a prezzi di supersaldi. E tra pochi mesi si va al voto, con un Prodi quasi certo vincitore e un Giuliano Amato che si prepara per il gran volo verso il Colle più alto di Roma. Quel dottor Sottile che, nel drammatico 1992, fu chiamato a reggere il timone del Governo, dopo il siluramento di Craxi. Ed al ministero del Tesoro regnava il Verbo del direttore generale, Mario Draghi, al quale – scriveva a inizio 2000 nel Gioco dell’Opa il giornalista economico Enrico Cisnetto – «molti imputano di essere persino più potente di Ciampi, cioè un super ministro che non ha mai ricevuto alcuna investitura popolare», addirittura «l’uomo più potente d’Italia», secondo un Business Week di fine anni ’90, che lo ha anche visto all’opera tra i vertici della Banca Mondiale. Saprà ora Draghi traghettare la nostra superbucata nave fuori dalla tempesta ed evitarci il naufragio? Cerchiamo di capirlo, passando in rassegna la carriera del nuovo nocchiero di via Nazionale.

 

TUTTI A BORDO

 

Partiamo proprio dal mare. Eccoci a bordo del Britannia, il panfilo della regina Elisabetta in rotta lungo le coste tirreniche, dalle acque di Civitavecchia e quelle dell’Argentario. E’ il 2 giugno, festa della Repubblica, sono trascorsi esattamente cento giorni dall’arresto di Chiesa. Ma i potenti, si sa, hanno le antenne ben tese e si organizzano in un baleno. Negli splendidi saloni del panfilo si son dati appuntamento oltre centro tra banchieri, uomini d’affari, pezzi da novanta della finanza internazionale, soprattutto di marca statunitense e anglo-olandese. A guidare la nostra delegazione – raccontano in modo scarno le cronache dell’epoca – proprio lui, Draghi, che ai «signori della City» illustra per filo e per segno il maxi programma di dismissioni da parte dello Stato e di privatizzazioni. Un vero e proprio smantellamento dello Stato imprenditore.

 

A quel summit, secondo i bene informati, avrebbe partecipato anche l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che sul programma Draghi cercò di far da pompiere: «non venne programmata alcuna svendita – osservò – fu solo il prezzo da pagare per entrare tra i primi nel club dell’euro». Più chiari di così…. In perfetta sintonia con l’attuale “avversario” (del Polo) l’allora presidente Iri, Romano Prodi e quello dell’Eni, Franco Barnabè. Pochissime le voci di dissenso. Il napoletano Antonio Parlato, all’epoca sottosegretario al Bilancio, di An, sostenne che Draghi aveva intenzione di portare avanti un progetto di privatizzazioni selvagge. E aggiunse che proprio sul Britannia si sarebbero raggiunti gli accordi per una supersvalutazione della lira. Guarda caso, tra gli invitati “eccellenti” del Britannia fa capolino George Soros, super finanziere d’assalto di origini ungheresi ma yankee d’adozione, a capo del Quantum Fund e protagonista di una incredibile serie di crac provocati in svariate nazioni nel mirino degli Usa, potendo contare su smisurate liquidità, secondo alcune fonti di origine anche colombiana. E guarda caso, per l’Italia sarà settembre nero, anzi nerissimo, con una svalutazione del 30 per cento che costringerà l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi (direttore generale Lamberto Dini) a prosciugare le risorse della banca centrale (quasi 50 miliardi di dollari) per fronteggiare il maxi attacco speculativo nei confronti della lira.

 

A infilarci pesantemente uno zampino anche Moody’s, l’agenzia di rating che declassò i nostri Bot. Le inchieste per super-aggiotaggio avviate in diverse procure italiane (fra cui Napoli e Roma) sono finite nella classica bolla di sapone. Eppure, anche allora, e come al solito, a rimetterci l’osso del collo sono stati i cittadini-risparmiatori. Craxi puntò l’indice contro «una quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», parlando di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», e di un «intreccio di forze e circostanze diverse».

 

IL SALVATOR SOTTILE

 

Ad arginare la tempesta arriverà il governo di salute pubblica guidato da Giuliano Amato, il dottor Sottile passato dalla fedeltà craxiana a quella dalemiana. E per guidare il tanto sospirato piano di Privatizzazioni – il solo che potrà salvare la nave Italia dalle tempeste finanziarie – chi potrà esserci mai? Of course, Super Mario Draghi, che in otto anni porterà a casa un bottino da quasi 200 mila miliardi di vecchie lire, vendendo a destra e a manca gli ex gioielli di casa, anzi dello Stato. Una mission messa a segno con grande determinazione, portandoci in testa alla hit internazionale dei ‘privatizzatori’ (secondi solo alla Gran Bretagna dell’amico Tony Blair). Ma, secondo altri “tecnici”, con una politica di scientifica vendita a prezzi stracciati. Super Mario – appena sceso dal Britannia – dà inizio alla sua guerra. Siamo a metà luglio 1992 quando l’appena battezzato governo Amato dà il via libera alla liquidazione dell’Efim, azienda storica del parastato, gestito coi piedi dai boiardi di Stato ma ancora in grado di esprimere qualcosa. «Draghi fa una piccola finta iniziale – descrive chi lo conosce bene – per congelare i debiti con le banche, anche estere. Ma poi tutto si accomoda, già a fine agosto gli istituti di credito internazionali sono contenti di come procedono le cose e poi verranno soddisfatti man mano».

 

Peccato che vada disintegrato un patrimonio non da poco, composto da un centinaio di società del gruppo e da migliaia e migliaia di posti di lavoro. Ma si sa, la finanza, soprattutto quella “globalizzata”, non può andar tanto per il… Sottile. Da allora in poi sarà un valzer di dismissioni. E di grandi manovre. Proprio alla fine di quella bollente estate 1992, il governo Amato apre le danze, con la trasformazione in società per azioni dei grandi enti pubblici, Enel, Eni, Ina ed Iri in pole position. La prima maxi operazione è di un anno dopo, quando il Credito Italiano va all’asta, per la gioia di imprenditori della vecchia e nuova finanza, d’assalto e non. La finanza anglo-americana, quella a bordo del Britannia, gongola, ed un segnale più che significativo arriva con lo sbarco del neo ambasciatore Reginald Bartholomew, che dopo qualche mese di acclimatamento tra i salotti romani dichiara: «continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera agli investimenti esteri».

 

Dopo cinque anni – dimessi i panni dell’ambasciatore – Bartholomew viene nominato presidente della Merryl Linch Italia, uno dei colossi finanziari made in Usa. Quando la politica & la finanza vanno a braccetto. Detto, fatto, comunque. Le direttive di mr. Reginald sono state seguite a puntino nel corso degli anni ’90. Dalle maxi privatizzazioni targate Telecom (23 mila miliardi) ed Enel (32 mila), passando attraverso un mare di aziende sparse un po’ in tutti i settori, a cominciare dall’agroalimentare che viene letteralmente dato in pasto, è il caso di dirlo, ai big olandesi, inglesi o a stelle e strisce. Arriviamo nel 2000. L’altro colosso di Stato, l’Eni, è già in avanzata fase di privatizzazione. Manca solo il ramo “immobili”, la ciliegina finale. Ad acquisirne la fetta più grossa, per circa 3000 miliardi delle vecchie lire, è un altro colosso dell’intermediazione finanziaria Usa, Goldman Sachs, tramite il suo dinamicissimo fondo Whitehall, che così entra in possesso – per fare un solo esempio – dell’ex area Eni di San Donato Milanese, 300 mila metri quadrati superappetibili, dove potrebbero essere trasferiti gli storici locali Rai di corso Sempione. Goldman Sachs, comunque, non si ferma qui, e fa incetta di altri immobili, come quelli della Fondazione Cariplo (e poi, con un altro big Usa, Morgan Stanely, sui patrimoni mattonari di Unim, Ras e Toro).

 

Altro acchiappatutto, il gruppo Carlyle, che ha fatto incetta di immobili anche a Napoli (tra gli azionisti principali, le famiglie Bush e Bin Laden). Secondo le ultime statistiche di fonte Sole 24 Ore (“Scenari Immobiliari”) i gruppi esteri ormai sopravanzano quelli nostrani, 11 mila contro 15 mila miliardi di vecchie lire di patrimonio ex-pubblico: tra i privati nazionali spiccano Ipi (Danilo Coppola), Pirelli Real Estate (Tronchetti Provera), Risanamento (Zunino), Statuto, Ligresti, ovvero la crema mattonara di casa nostra.

 

THANK YOU, GOLDMAN

 

Nel 2001 Mario Draghi, compiuta la sua mission come direttore generale del Tesoro e soprattutto responsabile delle privatizzazioni, passa al altro incarico. Non più pubblico, questa volta, ma privato. Non più in Italia ma all’estero. Ad arruolarlo è proprio il colosso a stelle e strisce: a gennaio, infatti, assume la carica di vice presidente della Goldman Sachs International. Anni pieni di successi, tanto che a fine 2004 viene nominato al vertice del “management committee”, l’organismo che pianifica tutte le decisioni del gruppo a livello internazionale, il primo “non statunitense” a tagliare questo traguardo nella storia di Goldman. Il pedigree della super-banca d’affari a stelle e strisce, comunque, può vantare una sfilza di nomi illustri. E torniamo a quel fatidico 1992. Il presidente della Federal Riserve Bank di New York (che fa capo alla Banca centrale americana), Gerald Carrigan, legato a filo doppio con George Soros, si dimette e passa tra le fila della Goldman Sachs, in qualità di presidente dei consiglieri internazionali del gruppo.

 

Tra i consiglieri della stessa banca ha figurato Romano Prodi. Oggi, al posto di Draghi, siede l’ex commissario Ue Mario Monti. E’ entrato nel gruppo a fine novembre: forse proprio per questo – quando è rimbalzato il suo nome per il vertice Bankitalia – ha fatto un passo indietro. Per un evidente conflitto d’interesse. Da un conflitto all’altro, eccoci sempre all’estero, con le possibili acquisizioni delle nostrane Bnl e Antonveneta da parte del Banco di Bilbao e dell’olandese Abn Ambro, in contrapposizione alle nostrane Unipol (vedi alla voce Consorte) e BPI (vedi alla voce Popolare di Lodi di Giampiero Fiorani). Ebbene, in entrambi i casi, Goldman Sachs ha svolto il ruolo di “advisor”, valutando positivamente le due offerte straniere. E oggi Fazio osserva: «ho cercato di evitare a tutti i costi la colonizzazione del nostro sistema bancario. Vedrete quel che succederà dopo di me». Val la pena di stare a vedere e, se possibile, di accendere i riflettori.

 

Do you remember Telekom Serbia?

 

Un caso definitivamente morto e sepolto, l’affaire Telecom Serbia. Un caso, comunque, costato molto caro alle casse dello Stato. Dove i vertici del potere economico, come ad esempio Mario Draghi, seppero di quel contratto a cose fatte. Passiamo in rapida carrellata alcune testimonianze rese all’epoca. E’ proprio Draghi a verbalizzare, ad interrogarlo uno dei membri della commissione, l’avvocato ovunque Carlo Taormina. A proposito dell’operazione, osserva Taormina: «Ecco, se non ne avessero parlato i giornali lei, come direttore generale del Tesoro non avrebbe mai saputo niente di Telekom-Serbia». Risponde Draghi: «No, non è esatto. Ho saputo dell’operazione quando essa appare nella relazione semestrale ai mercati e nel prospetto informativo della società quando la società viene privatizzata, nell’ottobre 1997». Alle osservazioni di Taormina, che manifesta forti perplessità sul fatto che un vertice del calibro di Draghi non fosse mai stato messo al corrente dell’operazione, quest’ultimo ribadisce: «Non ne sapevo niente».

 

Incalza Taormina: «Vogliamo capire se tra dicembre 1996 e gennaio 1997, mentre era in gestazione questa colossale truffa ai danni dei cittadini, vi sia stata o meno una consapevolezza non dico da parte dell’usciere, ma del direttore generale del ministero. Tutto qua. Se non è così, pazienza». E Draghi, lapidario: «Non è così e non poteva essere così». Insomma, un sfilza di «non sapevo, non potevo sapere», «non ero al corrente e non potevo esserlo». Tanto da far dire al presidente dell’ex commissione, Enzo Trantino: «la capacità di scherma del dottor Draghi ha trovato ampia conferma».

 

Qualcosa, però, Super Mario, fa trapelare: e cioè che quell’affare, forse, non si doveva fare. Sarebbe secondo lei ripetibile, gli viene chiesto, un’operazione del genere? «Speriamo di no», la risposta. Per poi però subito precisare che «l’operazione viene valutata dai revisori dei conti e dal collegio sindacale, da tutti gli advisor», nessuno dei quali ha manifestato dubbi o perplessità di sorta, «dal che si deduce – aggiunge Draghi – che non dessero questa valutazione di disastro annunciato». Pilato, al paragone, è un pivellino. La tempra forte e decisionista del neo Governatore emerge poi da un’altra audizione, quella dell’ex vertice Rai e poi Stet Biagio Agnes. Siamo al siluramento dei vertici aziendali, Agnes appunto, ed Ernesto Pascale, per far posto ai “privatizzatori” Guido Rossi e Tommaso Tommasi. I due vengono “consigliati” a rassegnar le dimissioni.

 

Ma Agnes punta i piedi. Trantino sintetizza la vicenda chiedendo ad Agnes se Draghi gli abbia detto «le conviene dimettersi, lei ha pure famiglia, perché non deve dimettersi? Pensi a tante cose!». Risponde vago Agnes: «Non so se si tratti o meno di una minaccia, lo sa Draghi». E aggiunge: «poi sono stato accompagnato, dalla stanza del ministro del Tesoro alla macchina, dal dottor Draghi il quale lungo il percorso mi ha detto tante cosettine, tra le quali anche questa. Mentre ero uscito dalla stanza con la convinzione di non dimettermi, ho cominciato a pensarci». Ma cosa erano quelle “cosettine”?. Dopo un giro di domande e risposte con Trantino, Agnes fa capire che Draghi gli avrebbe consigliato di contattare Prodi, perché «è Prodi che non la vuole in quel posto».

 

Sull’affaire viene interrogato anche l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga. Alla domanda dei commissari che gli chiedono se il Governo o almeno i ministeri coinvolti potessero essere all’oscuro dei fatti, così risponde: «L’unico ministero certamente informato di queste cose era quello del Tesoro, perché tutte queste operazioni sono state fatte dal ministero del Tesoro. Ricordo che il povero Mario Draghi, mio amico, aveva il tragico compito di chiamare alle sette-otto del mattino i presidenti e gli amministratori delegati per dir loro che alle dieci si sarebbe tenuta l’assemblea e che avrebbero dovuto presentare subito la lettera di dimissioni». Poi, un altro commissario chiede: «Lei ha parlato del dottor Draghi: egli parlava in nome del ministro, in sostanza. Ma come faceva ad avere questa autorevolezza»? E Cossiga: «Parlava in nome del Governo». E poi: «Se lei mi chiede se sia possibile che da un punto di vista formale i politici non sapessero, le rispondo che non è possibile». Parola di (ex) Picconatore.

 

I GRAN REGISTI DI MANI PULITE

 

Cè una strategia ad orologeria in Mani pulite? Come mai il bubbone è scoppiato in quel ’92, quando la corruzione ormai dilagava da anni ? Possibile che tutto sia uscito dai porti delle nebbie in un sol botto? Come mai i pm prima non sentivano e non vedevano, oppure venivano zittiti dai loro capi? Interrogativi ai quali non è stata fornita alcuna risposta. E lo stesso clamoroso abbandono della toga da parte dell’uomo simbolo di quella stagione, Antonio Di Pietro, sta a dimostrarlo. Un episodio fino ad oggi mai chiarito. Come non è chiara la genesi di una fantomatica “Mani Pulite International”, ovvero “Transparency International”, che nata dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 per iniziativa del principe Filippo di Edimburgo avrebbe trovato adepti in mezza Europa. Dalla Banca Mondiale – sua principale ispiratrice – fino ai leghisti della Padania. Stando ad alcune ricostruzioni, infatti, Mani Pulite International avrebbe subito trovato impulso tramite il responsabile della Banca Mondiale per il Kenya, Peter Eigen, promotore di una linea anti-corruzione a tutto campo, anche a costo di sterminare diritti, annientare fondi per i paesi in via di sviluppo e via cantando.

 

«Alla fine della guerra fredda – dichiarò Eigen – i tempi erano maturi e assieme ad alcuni colleghi decisi di procedere indipendentemente con l’iniziativa». Venne stilato una sorta di decalogo, in base al quale era possibile, anzi lecito e quasi dovuto intervenire nelle nazioni a rischio-corruzione, nei loro affari interni. Non pochi storici ricordano il caso del presidente di Deutsche Bank, Alfred Herrhausen, che osò sfidare la politica a tutto campo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: il 30 novembre 1989 verrà trovato ucciso. Tra gli ideologi di Transparency International Hans Helmut Hoeppe, docente all’università del Nevada, il quale non esclude la necessità ultima dell’autoritarismo come unico mezzo per porre fine allo stato sociale ma propone un’alternativa: una radicale politica di “decentralizzazione” e “privatizzazione” di quasi tutte le istituzioni, compresa polizia, magistratura e forze armate. E tra gli sponsor in prima linea, of course, le fondazioni legate alla regina Elisabetta (Corwn Agents, British Overseas Development Administration, Bhp Minerals of Australia, Rio Tinto, Tate & Lile, Nuffield Fountation, Rownee Trust). Poi la misteriosa società Mont Pelerin, fondata nel 1947 da Friedrich von Hayek e che tra i suoi aficionados italiani conterebbe sulle presenze dell’ex ministro alla difesa Antonio Martino e dell’economista Sergio Ricossa. Ai vertici della sua piramide, tra gli altri, Peter Berry, direttore della Crown Agency britannica, e il ministro colombiano della giustizia Nestor Neira.

 

Ma a quanto pare è proprio George Soros il grande burattinaio dell’organizzazione, che – guarda caso – attraverso suoi fedelissimi, avrebbe provocato maxi crac nelle economie di mezzo mondo. Del resto, il suo Quantum Fund è una diretta emanazione del gruppo Rothschild. Un solo esempio? Richard Katz, ex direttore della Rotschild Italia e allo stesso tempo membro del comitato esecutivo del Quantum Fund di Soros. Registrato nel paradiso fiscale delle Antille olandesi, nel suo consiglio d’amministrazione fanno capolino alcuni nomi di un certo peso: come quello di Isidoro Alberini, storico agente di cambio alla Borsa di Milano, Nils Taube (socio dei Rotschild nella finanziaria St.James Place Capital), Amebee de Moustier (della Ifa Banque di Parigi), Edgar de Picciotto. Quest’ultimo è al vertice della UBP (Union Bancarie Privée) di Ginevra, terza banca svizzera, uno dei cui soci, Edmund Safra, è stato coinvolto in un’inchiesta della Dea americana per riciclaggio dei narcodollari colombiani. Tra i più accaniti fan di Mani Pulite International, alcuni padani doc.

 

A presiedere il movimento TI in Italia figura, infatti, Maria Teresa Brassiolo, consigliere della lega Nord al comune di Milano, mentre ai vertici organizzativi figura un altro esponente del Carroccio a Saronno, Edoardo Panizza. Una in perfetto stile Calderoli, la Brassiolo, che suggerisce l’uso del bisturi nei confronti dei criminali: «prima di ammazzarli basterebbe magari operarli o dare loro delle medicine, del resto se uno ha l’appendicite lo operano di appendicite». O no?

 

 

 

LE MAFIO-MASSONERIE DI BILDERBERG E TRILATERAL

 

I signori della finanza, evidentemente, amano le acque. Vuoi quelle marine, come nel caso della crociera d’affari sul Britannia di Sua Maestà, vuoi quelle, più tranquille, di un bel lago. Come è successo, ad esempio, sulle rive del Maggiore, in quel di Stresa, dove a giugno 2003 il Gruppo Bilderberg a festeggiato i suoi primi 50 anni. Li ritroviamo lì, in un abbraccio appassionato, i potenti della terra, dall’immancabile Henry Kissinger a David Rockfeller fino a Melinda Gates. E la nostra truppa? Mista al punto giusto, trasversale che più non si potrebbe. Il meeting del cinquantennio ha visto la partecipazione, sul versante finanziario, di Franco Bernabè, Rodolfo De Benedetti, Mario Draghi, Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Riccardo Passera, Paolo Scaroni, Marco Tronchetti Provera. Per la serie: tutti i candidati possibili alla successione di Fazio al vertice di Bankitalia! Tra gli economisti-politici, i due ultimi ministri dell’Economia nel governo Berlusconi, Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti.

 

Ma nel corso degli anni le presenze agli annuali meeting – a partire dal 1982 ad oggi – sono state numerose e di grande prestigio: non ha fatto mancare la sua presenza il gruppo Fiat, con i fratelli Gianni e Umberto Agnelli, Paolo Fresco e l’amico Renato Ruggiero (per pochi mesi al timone del ministero degli Esteri); e poi i banchieri Rainer Masera, al vertice del gruppo Imi San Paolo, e Alessandro Profumo, Confindustria con Innocenzo Cipolletta; e un folto drappello di politici, dai polisti Giorgio La Malfa, Gianni De Michelis e Claudio Martelli (oltre ai già ricordati Tremonti e Siniscalco), agli ulivisti Romano Prodi, Valter Veltroni e Virginio Rognoni.

 

Ecco cosa ne pensa di queste combriccole un giornalista di razza come Fulvio Grimaldi (lo ricordate, col suo inseparabile bassotto a denunciare senza peli sulla lingua gli imbrogli a 360 gradi e per questo prudentemente fatto fuori dalla Rai?), in un lungo reportage consultabile solo via internet, sul sito contro “Come don Chisciotte”: «31 dicembre: nel plauso a denti stretti della destra e più convinto della “sinistra” a Mario Draghi governatore della Banca d’Italia, si chiude l’annus horribilis berlusconian-dalemiano-bertinottiano 2005. Vince la finanza anglo israeliana, massonica e laica (si fa per dire), perde la finanza cattolica e in specie la massoneria Opus Dei. Vincono anche coloro che 13 anni prima hanno avviato la bancarotta italiana, assassinato la politica e fatto trionfare un’economia in gran parte straniera di rapina e per il resto quella che impesta l’aria di questi tempi. La posta in gioco? Tra le altre il famigerato Partito Democratico filoclintoniano, filoisraeliano, filobilderberghiano, massonico, di Rutelli, Veltroni e aggregati vari».

 

Grimaldi definisce Bilderberg e Trilateral come «organizzazioni mafioso-massoniche». Sta di fatto che sugli incontri targati Bilberberg – nel corso dei quali si discute dei destini e degli assetti mondiali – vige il più assoluto riserbo. Sulla stampa ufficiale, nessuna riga. Forse perché, tra gli invitati di lusso, figurano anche alcuni grossi calibri della stampa nazionale, da Ferruccio De Bortoli a Gianni Riotta, fino a Lucio Caracciolo. Manca solo Magdi Allam: sarà per la prossima volta.

 


Scopri di più da La voce Delle Voci

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

2 pensieri riguardo “LA STIRPE DEI DRAGHI”

  1. Pingback: Anonimo

Lascia un commento