Per molti italiani la RAI è un mito, nato a ridosso del dopoguerra, alimentato da decenni di esclusività nel racconto televisivo dell’Italia. Per le nuove generazioni, che quei tempi non hanno vissuto, la grande mamma di via Teulada è una controversa concorrente delle emittenti commerciali e in particolare dei potenti network immessi nel circuito da Berlusconi e in dimensione mondiale da Murdoch.
Il diverso consenso per la televisione pubblica ha ragioni molteplici: nell’immaginario di un pubblico d’élite è oasi di programmi culturali e divulgativi che latitano o sono parte minima nei palinsesti della concorrenza; per la quota di utenti meno provveduti è un’àncora confortevole per soddisfare con un set variegato di programmi d’evasione la domanda di gossip, cronache di delitti passionali, talk show tinti di rosa, sceneggiati del genere Grand Hotel.
La Rai è certamente un’azienda gestita senza il rigore amministrativo dovuto alla sua natura di ente pubblico e la piaga degli sprechi è stata perpetuata dai vertici che si sono succeduti in sessant’anni, senza distinzione di colore politico, o con differenze irrilevanti. La riflessione critica trae solidità dal confronto tra sistemi informativi Rai-Sky. L’azienda pubblica ha moltiplicato nel tempo le testate giornalistiche, in ossequio alle ipoteche dei partiti, a spartizioni esattamente contrarie all’obiettività richiesta dalla sua natura istituzionale. La grande macchina giornalistica di Murdoch si muove con un solo canale, strutturato in una complessa offerta qualitativa e quantitativa che obbedisce a sostanziale obiettività, garantita da attenta equidistanza dai partiti.
La Rai: Tg1, Tg2,Tg3, Tg News24, Tgr, RAI Sport, Rai Parlamento, Gr1, Gr 2, Gr 3, “Presa diretta”, “Ballarò”, “Virus”, “Porta a Porta”, “Gazebo”, “Leonardo”, “Piazza affari”, eccetera, eccetera, oltre alle invasioni barbariche, improprie, dei conduttori di talk show che si improvvisano giornalisti. La Rai: sugli eventi di cronaca e della politica si mobilita un giornalista e relativa troupe di sostegno per ogni testata. Spesso si fa ricorso agli inviati in luoghi dove esistono i corrispondenti. In particolare si ignorano professionalità accertate di giornalisti delle sedi regionali. La Rai: recente innovazione del direttore del Tg1 che si esplicita con il raddoppio di giornalisti per ogni servizio. Il conduttore lo presenta con il titolo e cita gli autori: X,Y…e poi…Tal dei Tali. Indicativa della filosofia aziendale è la progressiva scomparsa dalla programmazione (o è minima la presenza) del teatro, della musica classica, del jazz, ritenuti offerte per fasce commercialmente limitate di ascolto, re indiscusso delle scelte editoriali.
Negli ambienti Rai antagonisti dei vertici aziendali le accuse si sprecano. Una fra tutte imputa all’organizzazione il ricorso selvaggio agli appalti, contemporaneo al mancato impiego ottimale delle risorse interne e l’affidamento facile a imprese esterne di interi format, filmati, sigle. E’ forte il sospetto di trucchi per assegnare riprese di avvenimenti in appalto, spesso con una strategia ben congegnata. I responsabili di riprese esterne indicano il luogo dove eseguirle e la macchina delle squadre Rai esegue l’installazione di ponti, telecamere, regie mobili, luci se occorrono. L’intera operazione richiede tempi adeguati. A ridosso dell’evento, quando la Rai non avrebbe la possibilità di smontare e rimontare altrove le attrezzature, la decisione (motivata?) di cambiare location. Che fare? Non rimane che assegnare l’appalto a ditte esterne. Inchieste, sporadiche, accertano la complicità non gratuita tra Rai e imprese appaltate.
L’agosto di via Teulada è il mese di nomine, promozioni ed emarginazioni, contratti milionari, spartizioni con il manuale Cencelli, colpi di mano, carriere fulminanti, premi ad personam. Dipendenti politicamente organici ai partiti che condizionano le linee editoriali dell’azienda sono compensati con il salto in ruoli meglio retribuiti, professionalmente gratificanti e con consistenti premi fuori busta paga, a prescindere dal merito (al contrario è penalizzato chi mostra ostilità per l’ingerenza della politica). Per ragioni analoghe è in piedi da vent’anni “Porta a Porta” che lega Vespa alla Rai con contratto milionario e gli consente di usare l’azienda per promuovere i suoi libri su tutti i canali radiofonici e televisivi. Da cosa deriva il suo potere in Rai? Lo spiega semplicemente la presenza alla presentazione dei suoi libri dei leader di ogni parte politica che cercano e ottengono visibilità nel suo programma. Come spiegare altrimenti le lamentele della sinistra per la faziosità del conduttore e il sì acritico ai suoi inviti di partecipazione a “Porta a Porta”? Come spiegare la reiterata pubblicità di Fazio ai libri editi da Mondadori? Ma certo, con la partecipazione azionaria della holding Berlusconi alla Endemol di cui “Che tempo che fa” è diretta emanazione.
Riformatori che non cambiano di una virgola si avvicendano in sintonia con gli equilibri squilibrati imposti da chi al governo ci sta e da chi pretende spartizioni in quanto opposizione. La nomina del nuovo assetto dirigenziale, in pieno renzismo, si è adeguata alla prassi “morto il re, viva il re”. A Gubitosi e compagni sono subentrati alla presidenza Monica Maggioni (ricordate le sue corrispondenze dai luoghi della guerra, incredibilmente a bordo di blindati americani?) e alla direzione generale Antonio Campo Dall’Orto.
Acquisita la rapida confidenza con le poltrone del comando, sono arrivate puntualmente le nomine degli ammiragli che guideranno le reti con il voto contrario di Arturo Diaconale e Giancarlo Mazzucca, i due consiglieri in quota centrodestra. Immediata la replica alle nomine del sindacato: “Siamo alle solite, non si valorizzano le risorse Rai, si dimostra di ignorare le alte professionalità interne”. Alla protesta si associa il movimento Cinquestelle, ma è un riflesso condizionato, l’abituale contestazione di ogni atto non controllato dai grillini. Se Dall’Orto voleva sorprendere c’è ampiamente riuscito.
Quali sono le attitudini di Daria Bignardi al governo di una rete cult qual è Rai3? Non sarà che il suo agente è Beppe Caschetto, manager tra gli altri di Fazio, Littizzetto, Floris, Lucia Annunziata, Neri Marcorè e appunto di Daria Bignardi: non sarà che Caschetto ha un saldo legame con Dall’Orto? Che dire del renzismo della Bignardi? Lei lo nega ma il dubbio rimane considerata l’affinità elettiva del presidente del consiglio con Luca Sofri, compagno della conduttrice di La7. Oltre a “Invasioni barbariche” e a un libro di un certo successo cos’altro sostiene la candidatura alla direzione di Rai tre, rete articolata e impegnativa?
Come giudicare la nomina di Ilaria Dallatana a direttrice (e non direttore come la citano tutti i giornali) di Rai2, importata da Mediaset e fino a due anni fa a Magnolia, fondata con Giorgio Gori, che ha prodotto programmi proprio per la seconda rete Rai? Dirompente è l’intervento di Angelo Guglielmi, mitico direttore di Rai3, inventore di programmi a costo zero, pensati per recuperare il meglio dalla teche della Rai. Il grande saggio, a cui si devono Quelli del calcio, la Tv delle ragazze, Avanzi, Samarcanda, Blob e Chi l’ha visto? (lo ricorda con nostalgia la Repubblica), si chiede come mai Dall’Orto non ha pensato a Michele Santoro per la direzione della terza rete.
Il percorso “politico” della Rai è stato per anni cinghia di trasmissione dei partiti. Tg1 democristiano, Tg2 socialista, Tg3 del Pci. A interferire sulla spartizione ci ha pensato l’informazione regionale, figliastra dell’azienda e fastidioso ostacolo alla divisione di pani e pesci fra i tre pretendenti. L’azienda si è accorta tardi che l’infornata di nuovi assunti ha privilegiato i giovani di sinistra e disarticolato gli equilibri consolidati, ma è poi corsa ai ripari e ha promosso al ruolo di capo redattori molti uomini di centro destra. Nasce una domanda dall’orientamento del mondo giornalistico che intende impedire rapporti di lavoro dei pensionati con la propria testata: Vespa, ex direttore del Tg1, è un pensionato Rai che percepisce cifre blu per la titolarità del programma “Porta a Porta”? L’Italia si libererà della sua ingombrante presenza televisiva?
L’attesa, dopo le nomine delle reti, è per le direzioni di radio e telegiornali e per l’ipotesi di un’unica governance dell’intera informazione della Rai. Le linee di resistenza al progetto sono allertate e sembra lontana la tendenza a emulare la Bbc che pesca al suo interno la successione dei dirigenti di vertice. “Gli è tutto da rifare”, come l’intercalare di Gino Bartali? Quasi. La forza della Rai, a dispetto di chi contesta il pagamento (ora coatto) del canone, è proprio l’onere dei cento euro all’anno chiesto agli utenti. Confrontato con le cifre degli abbonamenti a Sky e Mediaset è francamente un’inezia, soprattutto se si considera la mole dell’offerta Rai, di tutti i suoi canali in chiaro.
E’ però legittima una riflessione sul deficit di efficienza, denunciato da sempre, inutilmente, che deprime il potenziale qualitativo del servizio pubblico, e sulla patologica, sospetta incapacità di migliorare la gestione economica dell’azienda. C’era una volta il massimo esempio di televisione pubblica di servizio: Alberto Manzi, il maestro di “Non è mai troppo tardi”, programma televisivo di rara efficacia, inventò la scuola per tutti, per tutti i milioni di italiani analfabeti e insegnò loro a leggere e scrivere. Negli anni cinquanta la televisione commerciale era di là da venire e la Rai, in regime di monopolio, poteva alternare il nazional popolare “Rischiatutto” con la prosa, gli sceneggiati tratti da grandi opere letterarie e teatrali e la finestra del Tg1 sull’Italia, da Nord a Sud.
Il torto, chissà quanto inconsapevole della Rai, è stato di abdicare al ruolo di fondamentale di strumento progressivo della crescita culturale dei suoi utenti e di essere costretta a confrontarsi con le concorrenti commerciali su terreni di spettacolarità “in basso”, impropri rispetto alla natura di azienda pubblica. Sono Monica Maggioni e Antonio Campo Dall’Orto braccio e mente in grado di sanare tutto il vulnus accumulato in sessant’anni di Rai, lo sono i personaggi scelti per governare in termini di forte innovazione un’impresa televisiva decotta? Dubbi sostanziati da precedenti illustri che hanno fallito e non per colpe intrinseche. Forse è l’Italia, nell’insieme delle sue componenti condizionate dalla politica (meglio, dai partiti) a rendere impraticabile la rivoluzione che la Rai insegue senza raggiungere mai la meta.
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