Il Sud di Pasolini è storico, più che geografico; anzi, per essere più aderenti alla sua Weltanschaung, è un Sud pre-storico, arcaico, con i caratteri e il fascino del mito. E’ ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato.
Dal Friuli alle borgate romane, al Meridione d’Italia, all’Africa, all’India, fino allo Yemen e all’Iran “si sono susseguite in Pasolini le tappe di un’ininterrotta epifania del Mito, ovvero della ricerca di nuove incarnazioni della mitologia di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati”, come rileva Guido Santato, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Padova, nell’intervento pubblicato in Pasolini: quale eredità?, gli atti del convegno su Pasolini promosso nel trentennale della scomparsa dall’Agis del Veneto, primo volume della nuova collana dei “Quaderni di Cinemasud”.
Il Sud di Pasolini è sì dunque idealizzato, ma non del tutto trasfigurato.
Già in un saggio del ’99 sulla rivista “Lo straniero”, Stefano de Matteis individua la “costante attenzione per il Mezzogiorno d’Italia e i Sud del mondo” nella ricerca di un “universo antropologico”. E questa ricerca si concretizza in tre fasi, che potremmo definire in ordine cronologico, una fase giornalistica, una fase intellettuale e quindi, quella che maggiormente ci interesse, la fase cinematografica vera e propria.
Un anno cruciale nel rapporto fra Pasolini e il Sud è il 1959: nel reportage in tre puntate dalle spiagge italiane pubblicato sul mensile “Successo” e nei frequenti viaggi tra l’estate e l’autunno Pasolini scopre la costa campana, si ferma per una breve vacanza a Ischia (a cui dedica un diario di viaggio), visita la Puglia, Calabria, la Sicilia orientale (fino a Capo Passero e a Porto Palo, cioè nell’estremo lembo meridionale dell’isola e dell’Europa).
Il suo approccio al Sud si rivela subito molto poetico, molto differente da quello che pochi anni prima aveva contraddistinto il Viaggio in Italia di Piovene, che si caratterizzava per un taglio sociologico forse più attento e profondo. Dalla costa, in quello stesso 1959, Pasolini si sposta quindi nell’entroterra, con esperienze e risultati diversi. A Cutro, un piccolo comune del Crotonese – che in un reportage aveva definito “un paese di banditi”, oppresso da un’atmosfera da film western – riceve una querela per diffamazione dal sindaco e il prefetto di Catanzaro chiede l’annullamento del premio Crotone che stava per essergli assegnato per Una vita violenta.
Quel romanzo sarà invece presentato con successo, il 3 settembre, in Irpinia, dove Pasolini riceve un’accoglienza calorosa e unanime: nel capoluogo dai professionisti e dai giovani intellettuali al Circolo della Stampa, e sull’altopiano del Laceno, a Bagnoli Irpino, da un pubblico popolare, nel quale gli sembrerà di ritrovare la povertà ma anche il carattere genuino dei contadini del suo Friuli. In quell’occasione Pasolini battezza la prima edizione del “Laceno d’Oro”, il festival internazionale del Neorealismo, promosso dalla rivista “Cinemasud”, nata l’anno precedente per iniziativa dei giornalisti avellinesi Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, a cui Pasolini collabora attivamente – nei primi anni – con articoli, testi inediti, consigli.
LA DIMENSIONE FISICA DEL REALE
L’impegno culturale di Pasolini nel e per il Mezzogiorno si concretizza in quegli anni anche nella partecipazione a memorabili dibattiti a Napoli (soprattutto al cineclub in via Orazio) e a Salerno, nel marzo del ’60, al Circolo Democratico, dove subirà una contestazione (in questo caso solo verbale) ad opera di militanti di destra, che l’aveva accolto con un manifesto in cui si esortava a “metterlo al muro”.
Una circostanza frequente, questa, a Salerno come a Roma, a Milano come nella stessa Napoli, dove Pasolini – come ricorda Felice Piemontese in un articolo del ’75 su “La Voce della Campania” – riuscì fortunosamente a scampare a un’aggressione di giovani fascisti “davanti alla sede del vecchio circolo De Sanctis, in piazza degli Artisti, al termine di una conferenza”.
Il contatto con il Sud reale, dopo i viaggi e i reportage giornalistici, si concretizzerà nei primi anni ’60 anche nella fase di passaggio di Pasolini dalla letteratura al cinema, caratterizzato da uno sguardo antropologico e finalizzato a catturare, attraverso la macchina da presa, la ”dimensione fisica del reale”.
I volti e i luoghi del Sud, ad esempio, costituiranno magna pars del suo documentario Comizi d’amore, nel ’65, ma già sul finire degli anni ’50, sottolinea Nino Genovese, Pasolini collabora a due documentari di ambientazione e suggestioni meridionali: il primo, dal titolo Il Mago (1958), realizzato da Mario Gallo, «racconta la giornata di un mago cantastorie in Calabria», con il commento dello scrittore, che si avvale dell’utilizzo di diversi canti popolari, non solo calabresi; il secondo, diretto da Cecilia Mangini, s’intitola Stendalì (1960), che ritrae su pellicola un lamento funebre contadino di origini antichissime, sopravvissuto nel Salento fino agli anni Sessanta.
Nel Mezzogiorno appenninico Pasolini troverà le ultime tracce di quel mondo contadino, altrimenti scomparso nell’Europa occidentale, come dichiara a Oswald Stack: “Bisogna ricordare che l’Italia era, ed è ancora, in una posizione abbastanza insolita nell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è completamente scomparso nei maggiori paesi industrializzati come la Francia e l’Inghilterra (dove non si può parlare di contadini nel senso classico di questa parola), in Italia, invece, esso ancora sopravvive, sebbene recentemente si sia verificato un suo declino…”.
Dall’Irpinia e dal Salento ecco dunque il passaggio naturale alla Lucania, sulle orme delle fondamentali ricerche etnoantropologiche condotte in quegli anni da Ernesto De Martino, delle suggestioni poetiche dell’amico Carlo Levi, del convinto e diffuso impegno meridionalistica che caratterizza tra gli anni ’50 e ’60 tanti cineasti italiani, da Luigi Di Gianni a Gianfranco Mingozzi, da Giuseppe Ferrara a Libero Bizzarri.
E nella Lucania di Levi, nei Sassi di Matera, Pasolini girerà nel ’64 le scene principali del Vangelo secondo Matteo, perché i luoghi autentici della Palestina, in cui pure aveva fatto dei sopralluoghi, erano “talmente cambiati da non rispecchiare più quella realtà, che invece si ritrova ancora – anche da un punto di vista paesaggistico, oltre che antropologico – nel Sud d’Italia”.
Ancora più a Sud, sull’Etna, Pasolini sceglierà alla fine del decennio le location per alcune scene di Teorema (il deserto), Porcile (l’episodio della drammatica ribellione del figlio contro il padre) e per ambientarvi l’Inferno in I racconti di Canterbury. E benché fosse antica e diffusa l’attrazione di filosofi, artisti, viaggiatori di tutto il mondo per l’imponente vulcano, come scrive Sebastiano Gesù – «spetta a Pasolini il primato di averla descritta nella ricchezza dei suoi temi e dei suoi miti».
ALTRI MONDI
Fin dai primi anni ’60, intanto, il Pasolini regista volge il suo sguardo antropologico verso altri mondi, altri Sud, che lo porteranno a realizzare alcuni dei suoi film ancor oggi meno famosi ma sempre più interessanti: Sopralluoghi in Palestina (1964), Appunti per un film sull’India (1968), Appunti per un’Orestiade africana (1970), Le mura di Sana’a (1974), nella suggestiva capitale dello Yemen in cui girerà anche una parte del Decameron.
L’ansia di nuovi orizzonti, nell’inesausto viaggio pasoliniano verso un altro tempo e nel suo io, emerge in maniera dirompente prima nella poesia, quindi nel cinema. Nel Frammento alla morte, nella raccolta La religione del mio tempo (1961), Pasolini scrive:
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora… ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell’Africa che illumina il mondo.
Africa! Unica mia
Africa! Unica mia
alternativa…
…l’Africa, ovvero “l’esperienza di un mondo nuovo, ancora selvaggio ed intatto, il ritorno ad un universo primitivo, pre-storico in cui ridare nuove radici al Mito perduto”, tema ripreso in Poesia in forma di rosa (1964).
Solo molti anni dopo Pasolini riuscirà a realizzare Appunti per una Orestiade africana, che, secondo Adelio Ferrero, dopo Medea e prima del Decameron, assume particolare significato per comprendere il discorso dell’ultimo Pasolini, anticipandone emblematicamente l’evocazione e il mito dei “popoli perduti”.
Presentato al Festival di Cannes alla sua uscita e nel trentennale della morte di Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana fu definito da Alberto Moravia “il film più riuscito di Pasolini”, il quale, con il pretesto di condurre uno studio per un film su Eschilo, ha fatto un vero film, su un tema fondamentale della sua vita artistica: il conflitto tra l’antico e il moderno, tra arcaico e contemporaneo.
Il progetto di un film sull’Africa, in realtà, era stato elaborato da Pasolini, per il produttore Alfredo Bini, fin dal 1962: Il padre selvaggio, di cui la rivista “Film Selezione” pubblicò in esclusiva il soggetto nel numero 12 del luglio-agosto 1962 (le riprese sarebbero iniziate nell’inverno successivo) definendolo “il primo film che affronterà realisticamente e con una precisa impostazione ideologica il dramma e la nascita della nuova Africa”.
Perché il progetto non si concretizzò? Lo spiega cinque anni dopo lo stesso Pasolini, nell’introduzione alla sceneggiatura di Il padre selvaggio, pubblicata in due puntate dalla rivista “Cinema & Film” nei numeri 3 e 4 del 1967. Sul n.3 Pasolini pubblicò una poesia, dal titolo E l’Africa?, seguita da questa postilla: “E’ stato il processo a La ricotta, per vilipendio alla religione, che mi ha impedito di realizzare Il padre selvaggio. Il dolore che ne ho avuto – e che ho cercato di esprimere negli ingenui versi di E l’Africa? – ancora mi brucia orrendamente. Dedico la sceneggiatura de Il padre selvaggio al pubblico ministero del processo e al giudice che mi ha condannato. Sono cose, queste, che si possono perdonare ma non dimenticare”.
L’ORESTIADE
Tornando ad Appunti per un’Orestiade africana, va ricordato che doveva far parte di un più ampio progetto cinematografico in cinque film dal titolo Appunti per un poema sul Terzo Mondo. Ma, come nel” ciclo dei vinti” di Verga, dei cinque titoli se ne concretizzarono solo i primi due. L’altro è Appunti per un film sull’India, un film per la televisione in cui Pasolini, come scrive Luciano De Giusti dell’Università di Trieste, “manifesta la sua propensione a fare antropologia sul campo servendosi della macchina da presa”.
Davvero originale ed emblematica è l’ispirazione che è all’origine del film sull’India: Pasolini rimase affascinato da una antica leggenda indiana (quella del maharaja che sacrificò se stesso per assicurare il cibo a due cuccioli di tigre) raccontatagli dalla scrittrice Elsa Morante, probabilmente uno degli jataka, ovvero storie delle vite anteriori del Buddha, e decise di partire per l’India per verificare la plausibilità di un film concepito su questa base mitica.
Infatti, alla verifica, l’India odierna non resse la mitizzazione di Pasolini e il film non si fece. Resta però questa bellissima traccia di un film solo sognato, che sul suo autore ci dice molte più cose di quante non si possa sospettare”.
Contemporaneamente ai viaggi in Africa e in India, lo sguardo del Pasolini cineasta si volge all’Europa orientale. Nel ’68 resta gradevolmente sorpreso – come scrive nella rubrica “Il caos” sul settimanale “Tempo” – da un viaggio in Istria, che definisce “l’Italia non italiana”, confidando di aver fatto “esperienza di un’altra vita, di un’antica vita” nei piccoli borghi rurali ancora intatti. Ma è soprattutto alle aree più depresse, come la Romania e la Bulgaria, che si indirizza l’attenzione del Pasolini uomo di cinema, alla ricerca di location e di atmosfere sonore ideali per i due film direttamente ispirati al mito greco: Edipo re e Medea.
E POI NAPOLI
E ora torniamo a Napoli. Dove Pasolini si recherà spesso e con rinnovata vitalità all’inizio degli anni ’70, fino ad accarezzare l’idea di trasferirvisi stabilmente. Sul rapporto tra Pasolini e Napoli, che meriterebbe un convegno e una pubblicazione specifici, disponiamo oggi di un ampio ventaglio di analisi e testimonianze, da Fofi a Piemontese, dal compianto Filiberto Menna a De Matteis, da Nico Naldini a Enzo Golino, da Mario Franco a Erri De Luca. Per ragioni di tempo mi affido all’efficace sintesi di Alberto Castellano nello Speciale Pasolini dei “Quaderni di Cinemasud”: “Sono diverse le strade che hanno portato Pasolini a Napoli, sono varie le motivazioni che lo hanno spinto nella nostra terra: la curiosità antropologica, il richiamo istintivo, l’attrazione fisica, i suoi caratteristici agganci idealistici, la scoperta di fonti artistiche particolari e di energie particolari oltre che di facce e corpi unici, l’individuazione di un modello di vita scomparso, il suo tipico lucido provocatorio sguardo che lo portava a definire Napoli ‘l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio’”. Dopo le esperienze in Africa e in India, anzi, come riporta Antonio Ghirelli nel libro La napoletanità (1976), Pasolini vede sempre più il popolo di Napoli come una grande tribù, “che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso…di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Boja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività…una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profondissima malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto”.
Pasolini, dopo aver sublimato la maschera di Totò in Uccellacci e uccellini e negli episodi Che cosa sono le nuvole e La terra vista dalla luna, sceglie nel ’70 Napoli e Casertavecchia per le riprese del Decameron, primo film della “trilogia della vita”, finalizzata ad “opporre a un presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché rozzi“. Il regista si affida a voci e volti del popolo campano e attinge all’iconografia della tradizione pittorica napoletana ed alla musica popolare: nella colonna sonora di I racconti di Canterbury inserirà Fenesta ca lucive. Anche nel Decameron Pasolini inserisce scene di ballo e di feste danzanti: per le nozze di Zita Teresa, ad esempio, si balla una Tarantella. E dal repertorio popolare campano Pasolini recupera e propone (nella sigla di testa e nell’episodio di Masetto) la Canzone di Zeza, il canto popolare per eccellenza del Carnevale irpino, che aveva voluto registrare dalla viva voce di alcuni giovani del posto, nel 1960, in occasione di una visita al santuario di Montevergine.
Il Decameron rappresenta l’apice e al tempo stesso l’epilogo del feeling tra il regista e la comunità partenopea. Nel citato articolo del ’75 su “La Voce della Campania”, Felice Piemontese fa notare che “Negli ultimi anni Pasolini non era più venuto a Napoli. Forse s’era accorto che quel che vi cercava non esiste più, e per questo lo andava a cercare più lontano, nello Yemen e in Iran”, dove riprenderà a Isfahan una sequenza di Il Fiore delle mille e una notte nel monumento di Ali Ghapoo.
Nell’antica Persia, paradossalmente, il regista venuto dall’Italia alla ricerca di nuove suggestioni estetiche e antropologiche era già considerato dai cineasti locali un Maestro del cinema mondiale, un modello compiuto di realismo e libertà espressiva in un Paese oppresso dall’autoritarismo dello scià: fin dagli anni ’60 – come attesta Antonia Shoraka in Nuovo cinema Teheran – erano stati tradotti in lingua farsi “libri preziosi su Pasolini, Antonioni, Fellini, e alcune loro sceneggiature, e nello stesso tempo i loro film furono presentati al Festival di Tehran”. E a Pasolini si ispirano esplicitamente i maggiori registi prima della Rivoluzione islamica, come Amir Naderi e Daryush Mehrjuie, autore del primo film iraniano premiato in un festival internazionale, a Chicago, per la migliore interpretazione maschile: Gav (La vacca), accolto positivamente dalla critica alla Mostra di Venezia del 1971.
E ancora oggi Pier Paolo Pasolini è il cineasta più amato dagli intellettuali iraniani, e i suoi film circolano in DVD o in videocassette tra i giovani più colti, a conferma dell’empatìa stabilitasi tra il regista di Accattone e i popoli di tutti i Sud del mondo, percorsi da problemi antichi ma anche da un’indomabile ansia di riscatto e di vitalità.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.