– Dieci anni fa ci lasciava il regista di Le mani sulla città –
“Se non avessi visto Le mani sulla città mi sarebbe stato impossibile scrivere quello che ho scritto: ho imparato lo sguardo sulle cose da quel film”.
È Roberto Saviano, in un colloquio del 2013 con Francesco Rosi (pubblicato su “la Repubblica” del 18 agosto con il titolo Le mani sull’Italia), ad attestare il filo rosso che lega il capolavoro di Francesco Rosi alla sua Gomorra. A unire il giovane scrittore e il vecchio leone del cinema italiano, in una delle sue ultime uscite pubbliche, concorreva anche l’accusa, da una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente di Napoli, di aver denigrato la città, illuminandone solo gli angoli più bui. Con una differenza emblematica, che aiuta a rendere il “colore dell’epoca”: Le mani sulla città fu osteggiato da una parte della critica cattolica (la celebre stroncatura di Gian Luigi Rondi dopo la “prima” a Venezia, il lungo ostracismo della Rai) e soprattutto dalla destra politica (“A Gava il film addirittura piacque, a Lauro decisamente no”, confida Rosi a Saviano), mentre la levata di scudi contro Gomorra, nella versione televisiva, è stata bipartisan. Anche per il film di Rosi, tuttavia, il riconoscimento del valore artistico e civile fu tutt’altro che unanime e immediato. Soprattutto a Napoli e nel Sud.
NAPOLI SVELATA
Se nella Napoli-Gomorra di inizio millennio domina il Sistema, una sorta di Stato parallelo che si auto-alimenta in virtù di un’economia illegale diffusa e di codici culturali, soprattutto tra i giovani dell’immensa periferia, di matrice anarco-criminale, in quella del secondo Novecento ha regnato a lungo quello che Saviano nel colloquio con Rosi definisce “il Meccanismo”, un milieu politico-affaristico meno sanguinario rispetto alla disperata violenza della camorra contemporanea ma assai più pervasivo (nelle istituzioni, nell’imprenditoria, nei media) e soprattutto egemone, con forti connotazioni qualunquiste, nell’immaginario collettivo. Almeno fino al 1975, quando a Napoli, dopo trent’anni di opposizione al populismo di Lauro e poi alla Dc dei Gava, i partiti di sinistra vincono le elezioni ed è eletto sindaco Maurizio Valenzi.
Quale messaggio più tangibile, per segnare quella svolta storica, che dare la parola a Francesco Rosi?
Era stato Le mani sulla città, dodici anni prima, a svelare al mondo la vorace speculazione edilizia negli anni del sindaco Lauro, sollevando un’ondata di indignazione e una presa di coscienza che diedero una spinta decisiva al rinnovamento politico e culturale della città. A sua volta, l’avanzata impetuosa della sinistra nei primi anni Settanta aveva messo fine all’embargo della Rai contro il film di Rosi, che finalmente approdò sulla tv di Stato il 26 novembre del ’75.
“Soltanto oggi, e grazie al grosso spostamento a sinistra dell’elettorato, tutti gli italiani hanno potuto vedere il film. Quando lo presentammo a Venezia c’erano tra il pubblico, che applaudiva, quelli che fischiavano e che si erano portati le chiavi da casa per fare più baccano. Il film girò nelle prime visioni e poi fu subito tolto dalla circolazione. Mentre all’estero è stato proiettato dappertutto: in Francia, in Inghilterra, in Svizzera; in Germania è andato in televisione e persino nelle Università, più di una volta, seguito da dibattito”, riconobbe Rosi nel forum promosso pochi giorni dopo (nel primo numero di dicembre del ’75) da La Voce della Campania, con il titolo “Il film da fare oggi: Con le mani della città”.
Era la riprova lampante della relazione indissolubile nella filmografia di Rosi tra la sua idea di cinema e la vicenda storica di un Mezzogiorno in progress. Nel forum de “La Voce” quella barriera già così labile tra schermo e realtà finì per dissolversi del tutto: a confrontarsi con il regista, e con il sindaco Maurizio Valenzi, sul futuro di Napoli, venne chiamato Carlo Fermariello, l’indimenticabile ingegnere De Vita in Le mani sulla città. Al tempo del film era segretario della Camera del Lavoro e uno dei leader più popolari del Pci in città, e Rosi aveva puntato sulla sua verve oratoria per affidargli il ruolo del coraggioso oppositore al “sacco di Napoli”, fino a sfidare le cariche della polizia.
Assistendo alle sedute del consiglio comunale con l’amico e sceneggiatore Raffaele La Capria, nella consueta fase di documentazione “sul campo” che precedeva le riprese dei suoi film, “fui colpito dagli interventi di Carlo Fermariello, un consigliere comunale dell’opposizione così instancabile nella sua battaglia”, ricorda Rosi sul primo numero del bimestrale “Storie”, nel giugno del ’92.
DAI BANCHI CONSILIARI AL SET
Il passaggio dai banchi consiliari al set fu però tutt’altro che semplice e indolore. La testimonianza di Fermariello, sulla stessa rivista, apre uno squarcio importante sulla difficoltà di fare cinema politico in quell’Italia, anche negli ambienti più aperti e insospettabili: “Rosi mi propose di partecipare a questo film: a dire il vero inizialmente ci rifiutammo, sia io che l’allora segretario della Federazione del Pci di Napoli, Giorgio Napolitano (compagno di scuola di Rosi al Liceo “Umberto I” di Napoli, ndr), in quanto sostenevamo che un segretario camerale, personaggio pubblico – come allora si diceva – non potesse trasformarsi in un “guitto” e partecipare addirittura ad un film. Ma la diatriba si concluse grazie ad un deciso intervento di Giancarlo Pajetta, il quale ci invitò – testuali parole – a non fare i “perbenisti” e a partecipare comunque alla realizzazione del film, che avrebbe anzi sorretto la battaglia per la riforma urbanistica”.
Il capolavoro di Rosi e il coevo Le Quattro Giornate di Napoli di Nanni Loy avrebbero segnato in maniera determinante, in senso progressivo, l’immaginario su Napoli e il dibattito politico nella città, ma gli stessi dirigenti della sinistra napoletana – pur riconoscendone il valore artistico e civile – ne compresero l’effettiva portata soltanto più tardi, né mancarono le riserve e i distinguo: particolarmente significativa – sebbene mai citata dalla storiografia cinematografica – fu la presa di posizione di due fra i più illustri intellettuali della Napoli dell’epoca, gli scrittori Luigi Compagnone e Luigi Incoronato (quest’ultimo anche segretario di sezione del Pci), pubblicata dal mensile “Cronache Meridionali” nell’ottobre del ’63 come lettera al direttore.
Pur riconoscendo “che l’opera di Rosi rappresenti un contributo molto serio ad una rappresentazione realistica della città meridionale”, confermato dalle reazioni scomposte di “ben determinati ambienti politici e sociali, i cui esponenti si sono sentiti colti in flagrante”, e intuendo acutamente l’affinità estetica tra Salvatore Giuliano e Le mani sulla città (“quella cioè di non fornire una storia apparentemente bella e compiuta allo spettatore, una storia apparentemente tutta persuasiva e chiusa in sé, ma la via della sollecitazione dello spettatore stesso, una collaborazione in cui il giudizio nasce da una serie di elementi forniti alla mente, alla fantasia, alla personalità del pubblico”), i due scrittori non rinunciano ad alcuni rilievi critici, soprattutto sulla caratterizzazione troppo schematica del personaggio di De Vita: “Dove invece si avverte una certa staticità, un elemento precostituito e tendenzialmente immobile – scrivono Incoronato e Compagnone – è proprio in De Vita, la cui protesta sviluppa insufficienti elementi di articolazione, e lascia un po’ lo spettatore in difficoltà, chiedendogli un atto di fiducia eccessivo”, con il rischio di attenuare “l’incidenza politica dell’opera”.
Per la critica cinematografica nazionale, con rarissime eccezioni, La sfida era stato un esordio folgorante e Le mani sulla città fu giudicato un film di straordinario rilievo (Grazzini sul “Corriere della sera”) e degno erede del Neorealismo (Kezich su “Panorama”). E se un Rod Steiger in stato di grazia aveva conferito al faccendiere Nottola uno spessore tragico, non meno brillante per i critici si era rivelato l’attore-preso-dalla-strada Carlo Fermariello.
Com’era cambiata Napoli rispetto al contesto denunciato dal film di Rosi?, chiese nel forum del ’75 La Voce della Campania allo stesso Fermariello e a Valenzi.
In maniera significativa, rispose Fermariello, e non soltanto per le nuove forme che aveva assunto il partito della speculazione: “Il cambiamento interessa anche il ruolo della sinistra, che in Le mani sulla città giocava un ruolo generoso, ma perdente”.
Per vincere, però, il film di Rosi era stato determinante. Perché per la prima volta, con la potenza dell’arte cinematografica, aveva fatto comprendere a tutti il Meccanismo, per dirla con Saviano, che malgovernava Napoli e gran parte dell’Italia.
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