Il marchese di Ruvolito, oggi introvabile, prodotto dall’Irpinia Film
I De Filippo? Meglio dei fratelli Marx, affermò la stampa nazionale all’uscita del film Il Marchese di Ruvolito, diretto da Raffaello Matarazzo, da una commedia di Nino Martoglio, e interpretato da Eduardo e Peppino. Di quel film del 1938, l’unico introvabile fra quelli interpretati dai fratelli De Filippo, sopravvivono gli articoli d’epoca e alcune rare immagini, che l’autore di questo articolo ha ritrovato e analizza in chiave storica nel libro Il film perduto dei fratelli De Filippo (La Valle del Tempo Edizioni). Il volume sarà presentato il 26 novembre a Napoli, alle ore 18.00, alla libreria “The Spark” in Piazza Borsa, su iniziativa della casa editrice e dell’associazione “La Cineteca di Babele”. Eccone un estratto per gentile concessione dell’autore.
Non dev’essere stato – alla luce dei pochi documenti disponibili – un capolavoro della settima arte, eppure la perdita della pellicola Il marchese di Ruvolito rimane piuttosto grave per il cinema italiano. Non foss’altro che per la scena dell’ascensione in mongolfiera con Eduardo e Peppino De Filippo, che tutti i critici dell’epoca, anche i più severi, giudicano di una comicità irresistibile. E come non credergli, con Eduardo nei panni del professor Bousquez, uno scienziato mattoide che sembra fare il verso ad Einstein, e Peppino che – quindici anni prima dei memorabili duetti con Totò – fa da brillante spalla comica al fratello maggiore?
Una sequenza “geniale”, esulta il “Roma”, e lo ammette persino Francesco Callari di “Cine illustrato”, l’unico a stroncare il film diretto da Raffaello Matarazzo, Anche uno dei principi della critica cinematografica del Novecento, Filippo Sacchi, non riuscì a contenere il suo entusiasmo: “Un brano a sé, nella sua parossistica buffoneria, è l’episodio dell’ascensione in pallone”, scrisse sul “Corriere della sera” l’11 aprile del 1939.
“Noi ammiriamo troppo i De Filippo”, confessò a sua volta, di lì a poco, un giovanissimo ma già arguto e coraggioso Ennio Flaiano, che su “Oggi”, il settimanale più colto e innovativo dell’Italia fascista, scrisse una recensione severa e assai “moderna” – per analisi e linguaggio – su Il marchese di Ruvolito: un titolo di successo popolare, alla vigilia della guerra, e molto atteso dalla critica fin dal primo “ciak”, ma diventato ben presto un film “fantasma”. E ancora oggi, nel quarantennale della morte, unico lungometraggio introvabile fra quelli interpretati da Eduardo.
L’alone di mistero che circonda il film non ne costituisce, tuttavia, l’unico motivo di interesse. Stando ai critici, Il marchese di Ruvolito rappresenta addirittura il vertice della vis comica di Eduardo e Peppino in campo cinematografico.
Per il regista ed il cast si trattò in ogni caso di una scommessa vinta.
Non era affatto un’impresa facile realizzare una trasposizione cinematografica convincente di una commedia teatrale, sì, di consolidato successo (il suo autore, Nino Martoglio, era in Sicilia il più quotato e prolifico dopo Pirandello), ma già portata sulla scena da un mostro sacro come Angelo Musco, l’attore comico più popolare d’Italia, da poco scomparso, che ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia al pari del memorabile L’aria del continente. Il confronto era inevitabile, e i De Filippo lo ressero con valore, grazie anche ad una sceneggiatura più adatta al grande schermo, scritta a più mani dallo stesso Eduardo con il regista ed Ernesto Grassi, celebre giornalista e commediografo napoletano che nel dopoguerra si cimentò anche nella regia.
Il tema e alcune situazioni della commedia di Martoglio, inoltre, erano congeniali ai De Filippo, figli naturali ed eredi teatrali dell’Eduardo Scarpetta di Miseria e nobiltà: anche nel testo siciliano (sebbene in maniera meno scoppiettante rispetto al capolavoro comico napoletano) il filo conduttore è l’aspirazione all’ascesa sociale da parte di ricchi parvenu (i genitori della dolce Immacolata, interpretata da Elli Parvo) attraverso il matrimonio con un rampollo di buona famiglia, Erasmo di Mezzomondello (nel film è Peppino De Filippo), che si rivela in realtà un nobile squattrinato e superficiale, tanto che il marchese di Ruvolito (Eduardo, molto invecchiato per esigenze di scena) finirà per adottare Adolfo, un giovane e onesto commerciante che ama sinceramente Immacolata, attribuendogli quel titolo nobiliare tanto ambito dai genitori di lei, che così acconsentono finalmente alle nozze.
“Una piacevole favola”, come la definì un altro critico autorevole e severo, Gino Vicentini, che sulla rivista “Cinema” (la più importante del tempo) stabilì un interessante confronto tra i fratelli comici italiani e quelli allora più in voga a Hollywood, i fratelli Marx: “Su certi comici stranieri, come i Marx per esempio, tanto per citare i più recenti, i De Filippo hanno il vantaggio di un’ispirazione improvvisa che tuttavia sorge sopra il fondo insieme sentimentale e ironico di un’antica tradizione teatrale”.
La straordinaria performance attoriale di Eduardo e Peppino non bastò tuttavia a garantire al film il successo che si attendeva né un posto di rilievo nella storia del cinema italiano. E sì che Eduardo, in particolare, ce l’aveva messa proprio tutta, persino interpretando due ruoli (il saggio marchese di Ruvolito ed il bislacco professor Bousquez), ma soprattutto collaborando attivamente – per non dire sostituendosi – alla regia, alla sceneggiatura, persino alla produzione, in virtù di una già solida e riconosciuta esperienza di capocomico teatrale.
Per questo la sua delusione per l’esito del film fu enorme, come testimonia a pochi mesi dall’uscita in sala, sulla rivista “Film”, il critico Lucio Ridenti, e come lo stesso De Filippo rivelò molto più avanti al giornalista ed amico Federico Frascani (che anche su “Cinemasud” pubblicò un saggio, introdotto da una affettuosa lettera a Camillo Marino, sul cinema di Eduardo): “Una parte dell’attività da me svolta per il cinema è destinata a restare ignorata. Mi riferisco a pellicole di prima della guerra o dell’immediato dopoguerra, di cui sono stato, ufficialmente, secondo i titoli di testa, soltanto interprete, e di fatto, invece, soggettista, sceneggiatore, persino regista. (…) Perciò in qualche film di Peppino Amato, di Matarazzo, anche di altri registi, è rimasto di mio qualcosa di più della sola recitazione”, ricorda nell’intervista pubblicata nel dicembre ’81 su “Cinema Nuovo”.
Oltre all’inesperienza di Matarazzo, allora alle sue prime prove, e del produttore (per l’Irpinia Film, fondata dall’avellinese Amedeo Madia De Biase, con sede a Roma, questo fu il primo e ultimo lungometraggio), sull’esito del Marchese di Ruvolito incisero anche oggettivi fattori esterni, primo fra tutti l’avversione del regime fascista verso la cultura dialettale (fino a decretare, in quel periodo, l’ostracismo ad un Raffaele Viviani), e in qualche misura anche il nuovo clima di guerra, che avrebbe segnato negativamente le sorti di molti film, compreso quel Montevergine (o La grande luce) di Carlo Campogalliani, con il divo nazionale Amedeo Nazzari, che pure aveva ottenuto alla Mostra del Cinema di Venezia un riconoscimento come la Coppa del P.N.F., una sorta di Gran Premio della Giuria dell’epoca. Senza trascurare, infine, una delle tante leggende che da sempre aleggiano a Cinecittà: la “maledizione” che avrebbe colpito i film di Matarazzo (molti dei quali irreperibili) prima dei travolgenti successi di pubblico degli anni Cinquanta.
Dell’unico film introvabile di Eduardo e Peppino restano le critiche dell’epoca, qualche scarna testimonianza e alcune immagini: una locandina, la brochure color seppia, poche fotobuste, alcune foto di scena e quelle pubblicate sui periodici di allora, che oggi concorrono a ricostruire la vicenda di quel film particolare.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.