LA SANITÀ E LA SUA DIFFICILE TRANSIZIONE

Sembrava che il PNRR fosse ormai cosa fatta, perché c’erano sia i soldi che il dettaglio delle azioni da compiere e nessuna spesa a carico dello stato. Ma non è stato così, troppi gli interessi corporativi, truffaldini e di opportunismi che spingono a lasciare le cose come stanno, anzi ad accentuare la tendenza che porta verso una sanità privata e disuguale, per reddito e, persino, per residenza. La riforma della Sanità sembrava proprio avviarsi quando il governo Draghi approvò il Decreto 71, che ne disponeva l’avvio su tutto il territorio nazionale aprendo le annunciate “Case di Comunità”, quei presidi sanitari di prossimità funzionanti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Queste dovevano essere collegate alla rete degli studi dei medici di base, dei pediatri di libera scelta e delle strutture territoriali già funzionanti, ossia ambulatori di psichiatria territoriale, SerT e servizi sociali, oltre alla rete del volontariato, delle cooperative sociali, delle altre organizzazioni presenti sul territorio, incluse quelle di utenti e familiari.

Invece, ad oggi, non se è stato fatto nulla. Il Servizio Sanitario Nazionale doveva garantire a tutti i cittadini, assistenza gratuita equamente e progressivamente finanziata dalla tassazione generale.

Quello stesso decreto istituiva un numero telefonico unico per ricevere prestazioni al proprio domicilio, un servizio realizzato sul modello del 118 ospedaliero. E poi laboratori territoriali di analisi cliniche e radiologiche, dotate di TAC e di altre apparecchiature disponibili. Si poteva così consentire alla medicina di base di funzionare al meglio, senza bisogno di ricorrere a inutili e costosi ricoveri ospedalieri per semplici prestazioni di tipo diagnostico.

Per ottenere questi straordinari risultati si era previsto il reclutamento di nuovi profili, tra cui l’infermiere di comunità, per sostenere una rete di ricoveri domiciliari. Si era anche ipotizzata la riforma della rete delle Farmacie presenti sul territorio, trasformandole in presidi sanitari di prossimità, in grado di offrire anche un servizio di prenotazioni specialistiche, di analisi di laboratorio e, persino, di piccole prestazioni mediche ambulatoriali. Oltre a tutto ciò si era ipotizzata una riforma dei compiti dei medici di base, che avrebbero ampliato lo spettro delle prestazioni attualmente erogate, inserito i loro ambulatori nella rete del servizio sanitario nazionale, ripercorrendo la strada già battuta dal servizio sanitario britannico con l’obiettivo di operare da gestori di budget individuali destinati ai singoli cittadini. Si sarebbe, in tal modo, potuto razionalizzare la spesa sanitaria e coordinare l’insieme delle prestazioni da erogare. Ma tutto ciò si è arenato di fronte alle tenaci resistenze corporative degli stessi medici, per difendere i loro contratti privatistici. Questi operatori non hanno compreso la portata di una riforma che non farebbe altro che riprendere i principi ispiratori della prima riforma sanitaria del 1978.

Ma, come dicevamo, questo percorso riformatore è stato ostacolato prima dall’opposizione di alcune regioni, che hanno sostanzialmente supportato gli interessi che spingono in una direzione opposta. Hanno operato continuando a sviluppare una politica di esternalizzazioni, anche di servizi essenziali (naturalmente quelli più remunerativi) e di delegare alla sanità privata interi pezzi del nostro malfunzionante sistema assistenziale, trasferendo anche le relative risorse finanziarie.

Perché accade? E, soprattutto, perché mai proprio quelle regioni meridionali – che già oggi già trasferiscono al nord enormi risorse finanziarie a causa della migrazione sanitaria verso i più attrezzati ospedali del nord – ostacolano la transizione alla sanità territoriale? Non è affatto peregrino chiedersi se quelle stesse regioni saranno in grado di spendere, prima ancora di richiedere ulteriori fondi, quanto già loro assegnato per ripianare il divario organizzativo esistente. E, soprattutto, se riusciranno a gestire, in totale autonomia, la complessa programmazione già approvata rispettando le rigorose tempistiche europee, e garantire gli standard prestazionali previsti.

Il punto di forza della riforma è tutta nelle procedure da attivare per consentire l’integrazione tra servizi sanitari e sociali. Servizi oggi scandalosamente separati e spesso affidati persino ad Enti diversi. Potevano essere accorpati e, finalmente, integrati nei nuovi Distretti Sanitari di Base (DSB), assicurare un’unica valutazione clinica e una presa in carico condivisa degli utenti con bisogni complessi.

I DSB vedrebbero rimodulate le loro funzioni riconvertendosi in attivi ordinatori dell’assistenza, al cui interno dovevano rivestire un ruolo fondamentale le istituende Case di Comunità (CdC), nelle quali i cittadini dovrebbero trovare un’assistenza specialistica e senza soluzione di continuo.

“Ma costa di più?” obietta qualcuno. Certamente no, anzi in breve si potrebbe iniziare a razionalizzare la spesa, cancellare le duplicazioni prestazionali, ridurre gli sprechi e, soprattutto, utilizzare al meglio il personale. Se poi si pensa che, all’interno del Distretto, si dovevano incardinare gli Ospedali di Comunità, si poteva ottenere anche quella auspicata riduzione dell’affollamento ospedaliero causata da ricoveri non necessari, contribuendo tra l’altro, anche alla riduzione di tanti atti di violenza contro il personale dei pronto soccorso, personale oggi stressato e impossibilitato a rispondere alle pressioni di un’utenza a sua volta insofferente e sfiduciata verso un sistema sanitario ingiustamente giudicato incapace di affrontare i suoi compiti assistenziali.

Dobbiamo sapere che è falso anche affermare che non bastano i fondi. Potrebbero bastare rispettando i passaggi di una riforma già scritta.

Purtroppo, non si vuole prendere atto che le regioni non sono in grado – e forse non potranno mai esserlo – di programmare un’assistenza sanitaria che, per funzionare bene, deve necessariamente essere uniforme a livello nazionale.

Ce l’ha dimostrato con chiarezza anche la recente pandemia, che sembra non aver insegnato nulla, né alla politica né agli operatori ed ai cittadini.

Riproponiamo tutti, cinicamente, sempre vecchi interessi e inaccettabili privilegi corporativi.

 


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