Cordova, il magistrato che ha pagato per tutti

Sulla vita umana e professionale di Agostino Cordova, l’ex procuratore capo di Napoli scomparso ieri, non servono necrologi di facciata, né profluvi di frasi di circostanza. Servono testimonianza e verità, solo questo è in grado di onorare la sua memoria.

Lo facciamo per primi noi della Voce delle Voci, lo faccio io che ho conosciuto da vicino quanto un uomo abbia dovuto pagare in prima persona per il rigore morale delle sue scelte, fino a che punto gli sia costato non rinunciare mai ai principi di un grande servitore dello Stato.

Questo ricordo glielo devo, glielo devono tutte le vittime frantumate nei corpi e nell’onore dentro la macina di carne umana in cui troppo spesso si consuma la cosiddetta “giustizia”.

Lo conoscemmo in piena bufera giudiziaria, quando alcuni suoi sostituti scagliarono contro di lui un “libro bianco”, chiedendone la rimozione dal vertice della Procura partenopea.

Conoscevamo il coraggio con cui aveva affrontato le cosche calabresi guidando la Procura di Palmi, ma ancor più gli intrecci perversi delle ‘ndrine con eccellentissimi personaggi della massoneria locale e nazionale. Tanto che fu lui il primo a sequestrare gli elenchi dei confratelli italiani ed esteri i quali, mandata a memoria la lezione della P2, dalle loro posizioni apicali cercavano in quella fine anni ‘80 di indirizzare il destino della politica, dell’economia, della giustizia. Questo fu il primo “affronto” a quel deep state italiano già allora potentissimo, che un giorno gli avrebbero fatto pagare caro.

Dopo il primo clamore, quando giornali all’epoca ardimentosi come L’Unità, l’Espresso ed anche la Voce, pubblicarono piccoli stralci di quegli elenchi (depositati e quindi divenuti pubblici), i diretti interessati compresi in quei faldoni adottarono la collaudata pratica della muffa. Aspettarono che si calmassero le acque, poi lentamente li fecero seppellire dentro le sabbie mobili dei sotterranei di Piazzale Clodio. Quanto a lui, Cordova, lo stavano aspettando dietro l’angolo. Lo sapeva, ma non arretrò di un millimetro nell’esercizio rigoroso che il suo alto ruolo gli imponeva in una piazza come Napoli, infestata di ulteriori connection fra camorra e piani alti dei Palazzi.

Nei giorni del suo primo declino, quando da Napoli fu trasferito a Roma, sapemmo che a scatenare il suo allontanamento era stata, ultima in ordine di tempo, la decisione di avocare a sé i tanti fascicoli per le quali alcuni suoi pm, dopo mesi o anni di indagini, pedinamenti, intercettazioni costate milioni allo Stato, semplicemente chiedevano l’archiviazione.

Poi venne il 2005 e in città arrivò Giorgio Bocca per scrivere un libro. Mi chiama la Feltrinelli da Milano e mi dicono che Bocca ha scelto me per accompagnarlo nelle interviste, indicargli personaggi da ascoltare e luoghi da vedere, dargli il polso della città. “Napoli siamo noi” è nato così, in quel paio di mesi nei quali noi della Voce eravamo subissati di richieste, anche da parte di vip “insospettabili”, che pretendevano di essere intervistati. Noi tiravamo dritto e, insieme a Giorgio e Silvia Giacomoni sua moglie, altra grande firma di Repubblica, sapevamo già dove andare. Prima di tutto, nella caserma di Monte di Dio dove Agostino Cordova risiedeva ancora in attesa del trasferimento. Fin dall’inizio il “mastino di Palmi” aveva scelto di vivere in un luogo spartano, rifiutando le lussuose residenze posillipine che gli erano state offerte, come a tutti i procuratori capo, con tanto di scorta armata sotto casa H24 a spese dello Stato per sé e per la sua famiglia. Era fatto così.

L’incontro fra Cordova e Bocca, con Silvia che prendeva fitto fitto gli appunti, resta una pagina indimenticabile di storia del giornalismo italiano. I due si erano già conosciuti a Palmi ma, soprattutto, entrambi non avevano mai nutrito timori reverenziali per nessuno, avevano un solo padrone: la verità.

Giorgio Bocca

Anche quelle intense pagine del libro di Bocca su Agostino Cordova non restarono senza strascichi. Non vi era nemmeno un nome, nemmeno uno solo, di magistrato, Eppure, gli stessi poteri che avevano ottenuto la sua rimozione da Napoli fecero esplodere una nuova miccia giudiziaria, stavolta in sede civile, che si è trascinata per anni contro il grande giornalista milanese e contro lo stesso Cordova.

Dopo anni, piegato nel fisico da quella guerra, mai sconfitto nell’animo, Cordova non esitò ad inforcare le stampelle per venire a testimoniare in un processo che era stato intentato dinanzi al tribunale di Cassino contro la Voce da un alto magistrato, il quale ci accusava di aver pubblicato il suo nome fra gli stralci degli elenchi sequestrati a Palmi. Gli stessi stralci erano stati pubblicati, come detto, da Unità, Espresso ed anche Repubblica, ma i grandi giornali non furono nemmeno sfiorati dalla querela. Preferì, quel magistrato, silurare la Voce con una querela dinanzi ai suoi colleghi di Cassino.

All’udienza Cordova si presentò, nonostante le precarie condizioni di salute. «Confermo, il nome di questo magistrato era presente negli elenchi che sequestrammo a Palmi». Lo ripetè più volte al giudice.

Ma il risultato era già scritto: condanna per la Voce, con un’altissima provvisionale, soldi cash da dare subito al vincitore, pena esecuzioni forzate e pignoramenti a raffica. La stessa provvisionale si applica solo in caso di omicidio o camorra. Ma per noi fecero “un’eccezione”.

Il resto della nostra storia lo conoscete e comunque qui non è il luogo per parlarne.

Questo articolo è dedicato solo alla grande lezione che Agostino Cordova ha dato alla magistratura italiana, con la sua rettitudine e con il suo esempio. Non è servito a cambiare il marcio che c’è, d’accordo, come non sono serviti i sacrifici di altri magistrati eroi. Loro, ma anche Cordova, hanno pagato per tutti con la vita. Ma che almeno lo si sappia, che almeno la grande eredità di valori che lasciano non vada dispersa. Addio, grande Procuratore Cordova.


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