Acciaio bollente. Ecco come la dinasty dei Riva, attraverso un complesso gioco di scatole cinesi, trust e conti off shore, ha svuotato la cassa: un pesantissimo j’accuse dei commissari liquidatori, mentre è allo start l’asta per la “nuova” Ilva, con il super manager Paolo Scaroni – renzizzato – fresco di autocandidatura per la poltrona di numero uno. L’altro colosso di casa nostra, Tenaris, ha beccato una condanna in primo grado per una maxi evasione fiscale, 220 milioni di euro: non ha pagato tasse sugli utili del 2008. Mentre la “madre” Techint, in compagnia di Saipem e della brasiliana Petrobras, è impelagata in una maxi inchiesta per corruzione internazionale.
Partiamo dal bubbone Ilva, ora alla ribalta delle cronache anche per la vendita all’asta del gruppo, decisa dal governo, e in fase “rovente”; ed il destino degli stabilimenti di Taranto, Piombino, Bagnoli e Corigliano, un gigantesco groviglio di drammi occupazionali e ambientali. Problemi nei problemi, alcuni pesanti conflitti “istituzionali”, come succede ad esempio a Napoli, con il sindaco arancione Luigi de Magistris sempre sul piede di guerra contro le truppe renziane d’occupazione (“la città deve essere derenzizzata”, il suo slogan), in primis il neo commissario per Bagnoli Salvatore Nastasi, rampante “commis” di Stato.
Ma torniamo al bottino dei Riva e ai forzieri svaligiati di casa Ilva. La rapina avviene nel secondo semestre 2012, quando la bufera è ormai in vista e i Riva pensano bene di “prendere i soldi e scappare”, attraverso una complessa ma efficace manovra di aggiramento, sia sul fronte dei controlli che quello – almeno per allora – giudiziario. Ecco cosa dettagliano i commissari, Piero Gnudi, Corrado Carrubba e Enrico Laghi, nel loro atto di citazione nei confronti dei Riva e delle molteplici sigle collegate nello “scippo” miliardario: “Si assiste non solo al defilarsi dei signori Riva – gli stessi che, attraverso un complicato schermo di società fiduciarie ad essi facenti capo e la costituzione di otto trust si erano, negli anni, distribuiti dividendi, emolumenti e flussi finanziari variamente titolati per miliardi di euro – ma addirittura all’impiego delle risorse finanziarie di cui Ilva aveva la disponibilità non già per sostenere i piani di investimento via via approvati dal consiglio d’amministrazione di Ilva, bensì per ripianare l’esposizione debitoria di quest’ultima verso le altre società del gruppo”.
Entrando più nel dettaglio delle sigle e degli intrecci societari, tutti finalizzati – come è stato ampiamente ricostruito – alla sottrazione di fondi pubblici destinati invece agli investimenti, soprattutto quelli in materia ambientale, ecco il poco edificante ‘quadretto’. Primo atto: una controllata di madre Ilva (e per la regia di “Riva Fire), la “Ilva commerciale” in quel 2012 cede le azioni che possiede in altre due società strategiche dell’arcipelago, comodamente acquartierate all’estero, la anonima Parfinex e la lussemburghese “Centre de Coordination Siderurgique”. A “comprare” le azioni è un altro gioiello del collier societario di famiglia, Stahl, la cui maggioranza azionaria è detenuta dalla stessa Riva Fire: prezzo “concordato” 1,3 miliardi di euro. “I proventi di tale dismissione – sottolineano i tre commissari – invece di essere utilizzati a supporto dell’attività di Ilva sono stati destinati, tramite un finanziamento da Ilva commerciale ad Ilva, al rimborso anticipato, per circa un miliardo di euro, di finanziamenti concessi proprio da Stahl. In pratica l’operazione di dismissione (avvenuta ad un prezzo singolarmente coincidente con l’importo dei finanziamenti in essere tra Ilva e Stahl) è servita a far rientrare anzitempo Stahl dai finanziamenti erogati in favore di Ilva”.
Eccoci all’altro atto, che va in scena “una volta ‘estratte’ da Ilva tali risorse” e che porta a suddividere il gruppo Riva Fire, “tramite una scissione”, in due pezzi, “due gruppi separati, autonomi e distinti”. Si tratta di “Riva Forni Elettrici spa”, che ingloba la ormai ricca Stahl (ha in pancia il bottino da 1 miliardo e 300), le due gemelline estere (Parfinex e Centre Siderurgique) e la “Riva Acciaio”: un’attività più “presentabile”, quella della neonata Forni elettrici, perchè “essendo svolta tramite forni elettrici comporta minori impatti e responsabilità ambientali”. Mentre il secondo pezzo è proprio Riva Fire, ormai la “bad enterprise”, la pecora nera del gruppo che ha nel suo povero scrigno la sola Ilva, “gravata da crescenti oneri e responsabilità per l’adeguamento alle prescrizioni Aia e consapevolmente posta nell’impossibilità di provvedervi”.
Da perfetto manuale di ‘spoliazione aziendale’, da autentico master in appropriazione di risorse pubbliche e devastazione ambientale. Cavalieri del lavoro subito, i Riva!
Tornano alle mente i risolini, via telefono, dell’ex governatore della Puglia Nichi Vendola – ora impegnato anima e corpo lungo i complessi crinali della stepchild adoption – con l’ex capo delle relazioni esterne dell’Ilva Girolamo Archinà, a proposito di tumori. Ma lorsignori hanno certamente pianto lacrime autentiche davanti alle decine di morti per i fumi killer dello stabilimento tarantino…
Ecco come concludono il loro atto di citazione i commissari Gnudi, Carrubba e Laghi: si è trattato di una articolata operazione per “separare la sorte di Ilva dal resto del gruppo, facendo sì che la ‘polpa’ e cioè Stahl, e le altre società (Riva Acciaio) non toccate dalla crisi Ilva, fossero poste sotto il controllo di società, sempre direttamente riconducibili ai Riva ma definitivamente separate dalla sorte di Ilva e dalle connesse responsabilità e oneri”. Finalità dell’odierna azione giudiziaria dei commissari è di “reintegrare il patrimonio di Ilva anche (se non soprattutto) nell’interesse dei creditori concorsuali”.
Val la pena di rammentare alcune parole pronunciate a inizio ’92 dall’allora ministro del Bilancio sulla bollente situazione Ilva (in basso trovate il link dall’archivio di Repubblica), quando il governo ha appena “fissato in sei mesi il tempo entro il quale dovrà essere stipulato l’accordo di programma relativo al progetto”. Ecco le parole di ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino: “entro l’anno (1992, ndr) dovrebbe avviarsi questa operazione. Una operazione massiccia perchè significa liberare tutte le aree prospicienti il mare di Genova, liberare Bagnoli e risanare Piombino”. Si è visto.
I GIOIELLI DI CASA ROCCA, TENARIS E TECHINT
Passiamo all’altra patata bollente, Tenaris. Il colosso italo-argentino dell’acciaio che fa capo ad un’altra super dinasty, quella dei fratelli Rocca, con un Gianfelice che alla poltrona di vertice targata Confindustria – oggi al centro di uno scontro al calor bianco che si infuocherà nelle prossime settimane per l’election day di fine marzo – preferisce la costante cura dei gioielli di casa, Techint e Tenaris in pole position, e un grande sogno nel cassetto che potrebbe presto tradursi in realtà: la scalata al Corriere della Sera, con l’idea da novanta di una super fusione “calda” con il Sole 24 ore di casa (sua) Confindustria.
Dalle stelle alle stalle, eccoci agli odierni grattacapi. Dalla commissione tributaria di Milano è stata appena recapitata negli uffici meneghini di Tenaris la condanna al pagamento di 220 milioni di euro per tasse non pagate, nel 2008, sugli utili fatti registrare dal bilancio della controllata Dalmine. Un fulmine a ciel sereno, per Rocca & C., che per un episodio analogo, e relativo all’esercizio precedente, ossia il 2007, l’avevano fatta franca: la stessa commissione tributaria, infatti, quell’anno fece un maxi sconto, abbassando – incredibile ma vero – l’importo da 282 milioni ad appena 9 milioni di euro: suscitando, in questo modo, le ire dell’Agenzia delle Entrate, che decise di ricorrere in appello. I legali del gruppo Tenaris erano perciò fiduciosi: “sulla base della decisione della Commissione relativa al 2007, crediamo non sia probabile che le richieste ora si traducano in un esborso materiale”. Così non è stato. “La doccia può invece diventare doppia – commentano alle Entrate di Milano – perchè il nostro appello adesso può avere molte maggiori chance di successo”.
Del resto, la situazione non è poi così complessa, per chi voglia realmente vederci chiaro: la madre della storica Dalmine, Tenaris, ha preferito comodamente acquartierare la sua sede legale all’estero, nella città (e nello stato) di Lussemburgo, Avenue John F. Kennedy, civico 46. Il gruppo, infatti, è controllato al 60 per cento dalla lussemburghese San Faustin, la solita società anonima di rito, il cui capitale è detenuto da una fondazione olandese, la Rocca & Partners Stichtcing Administratiekantoor Aandelen San Faustin. Il valzer societario non è finito: perchè San Faustin, a sua volta, controlla Tenaris attraverso una seconda sigla made in Lussemburgo, Techint Sarl. “Un vero intrico societario – commentano a piazza Affari – su cui fiamme gialle e procura farebbero bene ad aprire gli occhi”.
A quanto pare, comunque, gli occhi sono stati aperti da un bel pezzo. Sia dalla guardia di finanza che dalla procura di Milano. Ad agosto 2015, infatti, le fiamme gialle hanno perquisito gli uffici milanesi di Techint, a caccia di documenti sui mega appalti in Brasile, al centro di una colossale corruzione internazionale in cui è coinvolto anche il colosso ex Eni dell’impiantistica, Saipem (il cui titolo è dimezzato in Borsa nel solo mese di gennaio dopo l’annunciato aumento di capitale, un vero tracollo) e la big dell’oro nero in Brasile, Petrobras. Un affaire internazionale che coinvolge – come ha già documentato la Voce – istituzioni, governo e opposizione carioca, con l’entourage del presidente Dilma Roussef nella bufera. Perfettamente oscurato dai sempre genuflessi media economico-finanziari di casa nostra, il maxi appalto ha viaggiato a bordo di un mare di tangenti: 3 miliardi di dollari secondo le stime ufficiali, oltre una ventina secondo attendibili ipotesi investigative. Impegnata a tutto campo la magistratura brasiliana in quella che viene già definita la Mani Pulite carioca, al lavoro, da un paio d’anni, anche la procura di Milano, che dal canto suo indaga su altri filoni esteri targati Saipem (Algeria e Nigeria, ad esempio). Variegati, fino ad ora, gli esiti giudiziari.
Con un protagonista da novanta, in qualità di ex presidente-padrone di casa Eni: Paolo Scaroni. Il nuovo asso della manica del governo Renzi, Scaroni, per la corsa alla presidenza della “nuova” Ilva, che nascerà sulle spoglie della creatura divorata dai Riva ma quattro stabilimenti e migliaia di lavoratori alla ricerca del lavoro scippato e perduto. Su Scaroni, infatti, da un paio di mesi è in atto un forte pressing affinchè prenda il timone dell’ex colosso siderurgico pubblico, in procinto di essere venduto (o svenduto?) al migliore (sic) offerente: prima ipotesi il passaggio in mani coreane, mentre adesso è in pole position la cordata nostrana con un capofila d’eccezione, la Cassa Depositi e Prestiti Iri-Renzizzata.
A quanto pare, per la scelta del super manager Scaroni, conta la sua grande esperienza, accumulata in oltre trent’anni, nel settore energetico: da quando, metà anni ’80, nelle vesti di vice presidente e amministratore delegato, sedeva fianco a fianco di Gianfelice Rocca a bordo della giovane Techint, alle prese con gli appalti per la realizzazione di pozzi in Somalia, finanziati dai fondi FAI (e sui quei business indagava proprio Ilaria Alpi). Già allora, però, qualche rogna: come in occasione della realizzazione della centrale di Brindisi e le mazzette versate da Techint al Psi (cugina di Scaroni è l’allora craxiana di ferro Margherita Boniver): nel ’96 Scaroni preferisce il patteggiamento a 1 anno e quattro mesi (la giusta soglia per non varcare quella del carcere). Poi, una irresistibile ascesa, che lo porta nel 2002 alla presidenza di Enel, decisa dal governo Berlusconi, e tre anni dopo a quella ancor più prestigiosa di Eni. Da Craxi a Berlusconi e ora a Renzi, un vero tris d’assi. E – con la nuova Eni – di poltronissime…
In apertura, Gianfelice Rocca
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