Una straordinaria coincidenza temporale. Ma com’è che proprio nelle stesse ore in cui divampa il caso SOS, le migliaia di accessi abusivi nelle banche dati dell’Antimafia per colpire leader del centrodestra, giunge a conclusione il processo di primo grado per lo scandalo Consip, che condanna il maggiore Gian Paolo Scafarto, per fughe di notizie non meno connotate da un chiaro segnale politico?
Esistono indizi che, almeno ipoteticamente, possono collegare le due vicende? Qualcuno forse sì. In primo luogo, come accennavamo, la matrice politica dei due casi giudiziari.
Quello attuale è ampiamente noto. Uno zelante sottufficiale della Guardia di Finanza che si autodefinisce “cultore di materie criminologiche”, Pasquale Striano da Ercolano (NA), avrebbe effettuato migliaia di accessi abusivi nelle banche dati delle SOS (operazioni sospette) della Direzione Nazionale Antimafia, cui era addetto, nel periodo in cui a coordinare il reparto era il magistrato partenopeo Antonio Laudati. Non ha usato mezzi termini il capo della PNA, Giovanni Melillo, in audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, nel delineare scenari inquietanti che potrebbero muoversi dietro l’operato dell’ufficiale delle Fiamme Gialle: «La gravità dei fatti è estrema e difficilmente si può ipotizzare che Striano abbia fatto tutto da solo».
Visto che i soggetti “dossierati” sono per oltre il 90 per cento esponenti di punta del centrodestra, se ragioniamo secondo il sano “cui prodest?” l’eventuale “manina” avrebbe una collocazione politica abbastanza definita a sinistra: sia che si trovi nei ranghi della politica vera e propria, sia che alberghi dentro le fazioni estreme della magistratura fortemente schierate contro le formazioni attualmente al governo e i loro leader, fin dai lunghi anni della caccia all’uomo contro Silvio Berlusconi.
Allo scomparso fondatore di Forza Italia ci riporta, peraltro, proprio la figura di Antonio Laudati. L’allora procuratore capo di Bari solo nel 2016, molti anni dopo i fatti contestati, è stato completamente scagionato dall’ipotesi di aver ritardato le indagini sulle famose escort di Giampi Tarantini per favorire il Cavaliere. Tutt’altro, aveva spiegato Laudati in audizione dinanzi al CSM, quelle indagini sarebbero state fortemente compromesse dalla gestione precedente al suo insediamento. Quegli errori, secondo l’articolo sull’audizione di Laudati pubblicata dal Sole 24 Ore l’8 ottobre 2011, «avrebbero impedito a inchieste importantissime di andare avanti». Ancora: «Laudati fa un duro affondo all’ufficio Gip di Bari affermando che il “provvedimento” di arresto ai domiciliari per Tarantini, del settembre 2009, “non lo avevo mai letto prima in vita mia (…) mi sembrano gli arresti domiciliari di Panariello, la pubblicità della Wind con i domestici (…) C’era scritto (sul provvedimento, ndr) ‘con facoltà di frequentazione della casa, degli ospiti…’ perché lui era ospite in quella casa… ‘dei domestici e dei sanitari’ perché lui era un cocainomane e poteva avere crisi di astinenza. Onestamente mi sembrò strano”». L’estraneità di Laudati a quelle accuse, come detto, è stata definitivamente accertata. Ma oggi il suo nome viene nuovamente tirato in ballo alla Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, per l’ipotesi che abbia collaborato con Striano per alcuni accessi illeciti alle banche dati SOS.
Va detto che Laudati, a riprova del suo impegno di lunga data contro la criminalità organizzata, nel 2009 è stato autore del saggio “Mafia Pulita” scritto con Elio Veltri, uno fra i più rigorosi e stimati politici della Prima Repubblica, nonché amico e collaboratore della Voce. Nel volume veniva documentato come la mafia si sia irradiata al pari di un golpe strisciante nel Nord Italia, come «si è infiltrata nelle banche, in ampi settori della vita pubblica», e come «utilizza a suo vantaggio il flusso di denaro sporco proveniente da attività illegali, reinvestendolo poi in economia legale». «Penetra così dentro imprese sane, impone i propri metodi – conclude Veltri – e cambia per sempre le regole del gioco».
Tornando ai fatti al centro dell’inchiesta di Perugia, tutto lascerebbe immaginare che possa trattarsi dell’ennesima lotta politica sporca, compreso il fatto che dalla montagna di faldoni illegali è spuntato anche un dossier proprio su Silvio Berlusconi, con informazioni riservate del 2020, quando il fondatore di Forza Italia rientrava alla grande in politica, quasi a volerne fermare la corsa.
Inoltre, al fatto che di lotta politica possa trattarsi ancora oggi, sembra rivolto il comunicato stampa della Lega, o meglio di un portavoce partenopeo del partito di Matteo Salvini, che sta girando nelle redazioni, secondo cui «dal verminaio dell’antimafia di Perugia, come lo ha definito Cantone, viene fuori che Ruotolo (Sandro Ruotolo, senatore del PD molto vicino a Elli Schlein, ndr) chiedeva, senza averne titolo, ad una gola profonda della cancelleria, le carte di delicate inchieste giudiziarie». Se lo avesse fatto – aggiungiamo noi – non vi sarebbe stato alcunché di illecito, ammesso che quelle carte non fossero coperte da segreto istruttorio. Resta il fatto che anche questo strano comunicato ci riporta alla guerra politica che si è delineatasi fin da subito, fin dalla scoperta dei circa 8.000 accessi abusivi di Striano alle banche dati SOS.
A rinforzare l’ipotesi che questa fosca vicenda, su cui dovrà fare luce la Procura di Perugia, ci riporti per l’ennesima volta allo spietato “plotone d’esecuzione” contro Berlusconi, andato avanti per decenni, vi è un’altra “coincidenza”. Sì perché c’è stato un momento particolare della storia giudiziaria di questo Paese in cui le strade del procuratore Laudati si sono incrociate con quelle di due pm partenopei autori delle più lunghe ed affilate indagini sul Cavaliere, iniziate fin dal suo primo apparire sulla scena politica, a metà anni ’90.
2 settembre 2011. Alla Procura di Napoli viene interrogata come persona informata sui fatti Marinella Brambilla, storica segretaria di Berlusconi. I pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock vogliono sapere da lei se sono stati versati soldi da Berlusconi alla famiglia di Tarantini. Piccole somme, dichiara la donna, elargite esclusivamente come aiuti di liberalità. I pm partenopei partenopeo però intendono andare a fondo, perché – secondo quanto si legge sul Sole 24 Ore del 3 settembre 2011 – stanno fornendo alcune informazioni ai colleghi di Lecce. Quali? Quelli che indagavano all’epoca su Laudati per il presunto – poi rivelatosi inesistente – ritardo nelle indagini sul Cavaliere.
E così torniamo a bomba, al caso Consip, che ha inizio nel 2016 (occhio, lo stesso anno in cui si celebra il procedimento a carico di Laudati) e si conclude oggi clamorosamente, nelle stesse ore del “verminaio” scoperto a Perugia, con l’assoluzione di Alfredo Romeo, Tiziano Renzi, Luca Lotti ed altri. Ma con la condanna in primo grado dello storico braccio destro di Woodcock, il maggiore del NOE Gian Paolo Scafarto, accusato di aver falsificato alcuni atti, in particolare una delicata intercettazione. Il processo Consip, lo ricordiamo, era stato istruito a Napoli proprio dal pm Woodcock, poi era passato a Roma per competenza.
Dinanzi al pm di Roma Mario Palazzi, all’inizio del processo Scafarto si era difeso, dichiarando che l’errore era avvenuto per la gran fretta che gli aveva messo il pm Woodcock, il quale doveva trasmettere gli atti nella capitale (esiste ancora sul punto una lunga registrazione di Radio Radicale). Affermazione smentita poi dallo stesso Woodcock, il quale – secondo l’articolo di Repubblica del 19 settembre 2017 – dinanzi al CSM aveva “scaricato” Scafarto. Titolo del pezzo, a firma Liana Milella, “Woodcock scarica Scafarto: sono stato ingannato da lui”.
«Sono state condannate solo due persone – taglia corto oggi Piero Sansonetti sull’Unità – il maggiore Gian Paolo Scafarto, dei carabinieri, e Alessandro Sessa anche lui ufficiale dei carabinieri. Per capirci: gli unici condannati sono gli uomini del Pm di Napoli Henry John Woodcock, che è il magistrato che ha avviato il caso Consip e che da anni ha preso di punta Alfredo Romeo», editore dell’Unità.
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