«Da tempo avevamo raccolto elementi di estrema importanza per il ritrovamento di Bernardo Provenzano. E sapevamo di essere ormai ad un passo dalla sua cattura». Così a luglio 2000 l’ex 007 Bruno Contrada, napoletano del Vomero, raccontava alla Voce quella vigilia di Natale del 1992 in un Paese ancora sotto choc per le stragi di Capaci e via D’Amelio e in una Palermo bunker, con le forze dell’ordine impegnate nella caccia a killer e mandanti. In prima fila Contrada e i suoi uomini, che hanno in tasca la pista per arrivare al superboss Binnu Provenzano.
«La nostra strategia – spiega l’ex funzionario Sisde – non si è mai basata sui pentiti ma su fonti confidenziali. Noi le pagavamo e rispettavamo le regole. Lo stesso facevano loro. Poi, da quando è cominciata la stagione del pentitismo “a orologeria”, tutti gli equilibri sono saltati. E questo spiega, in qualche modo, anche le stragi del ’92». Quel 24 dicembre le manette scattano invece per Bruno Contrada: numerosi collaboratori di giustizia lo accusano di collusioni con Cosa Nostra. Sconterà 31 mesi di carcere preventivo. Condannato in primo grado a dieci anni di reclusione nel ’96 ed assolto in appello con formula piena nel 2000, Contrada attualmente è alle prese col nuovo processo deciso dalla suprema corte, che ha annullato la sentenza di assoluzione.
Le dichiarazioni di Contrada, quell’ipotesi di un nesso fra il suo arresto e la imminente cattura di Provenzano, che di fatto poi non avvenne, assumono nuova luce dopo il clamoroso rinvio a giudizio del generale del Sisde Mario Mori e del capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina nelle ore e nei giorni successivi alla cattura del boss, avvenuta il 15 gennaio 1993. Qualcuno decise di fermare Bruno Contrada, con quell’arresto a sorpresa, per proteggere la latitanza del vero capo di Cosa Nostra? E furono forse gli stessi uomini, tutti rimasti nell’ombra, che appena due settimane più tardi lasciarono incustodita la dimora-rifugio di Totò Riina per ben due settimane, al punto che venne poi ritrovata completamente vuota, imbiancata e priva perfino della moquette? Era questo il “prezzo” pagato dai boss per la consegna di Riina?
I fatti. A fine febbraio il gup di Palermo Marco Mazzeo ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura palermitana (pm Antonino Ingroia e Michele Prestipino) nei confronti di Mori e De Caprio. In precedenza il gip Vincenzina Massa aveva già restituito al mittente ben due richieste di non luogo a procedere, imponendo per giunta ai pubblici ministeri l’incriminazione coatta dei due ufficiali con l’ipotesi di favoreggiamento della mafia, che non prevede prescrizione del reato. Difensore di Mario Mori è il penalista palermitano Pietro Milio, vicino ai Radicali. Lo stesso legale che era stato a fianco di Bruno Contrada fin dal momento dell’arresto.
Con un dispositivo destinato a suscitare da subito clamorose polemiche, il gup Mazzeo ha deciso quindi di vederci chiaro sul fatto che la perquisizione della villa di via Bernini fu effettuata solo il 3 febbraio del ’93. Cosa accadde in quel lungo lasso di tempo dal 15 gennaio al 3 febbraio? Alcune verità erano emerse già dinanzi al tribunale di Sciacca nel corso del processo a carico dell’ingegner Giuseppe Montalbano, proprietario della villa-covo al centro di Palermo. In quel fascicolo si legge che «la perquisizione avvenne due settimane dopo la cattura del boss, senza alcun controllo da parte della polizia giudiziaria che avrebbe dovuto sorvegliare l’obiettivo». Inoltre, «durante questo periodo gli uomini di cosa nostra ebbero il tempo di ripulire il covo e di portare via scottanti incartamenti, compreso un armadio corazzato a muro che si trovava nella stanza da letto del capomafia».
Secondo Ingroia e Prestipino, comunque, non ci sarebbero state responsabilità nel comportamento dei due ufficiali, benché entrambi – scrivono gli stessi magistrati nella prima richiesta di archiviazione – avessero fornito alla Procura «indicazioni non veritiere, facendo credere a tutti che l’attività di osservazione della villa di via Bernini sarebbe proseguita». Adesso i due ufficiali dei Carabinieri dovranno difendersi davanti al giudice monocratico dall’accusa di avere favorito Cosa nostra. Il processo comincerà il prossimo 7 aprile.
Ma quali erano i segreti custoditi nella cassaforte di Totò Riina? E’ lo stesso capitano Ultimo a parlarne. Lo fa nel corso del processo di Milano, quello che lo stesso De Caprio aveva intentato per diffamazione contro Attilio Bolzoni, il cronista palermitani di Repubblica autore, con Saverio Lodato, del libro messo sotto accusa: “C’era una volta la mafia”, edito da Garzanti. Prosciolto da ogni accusa, Bolzoni ricorda oggi dalle colonne del suo giornale che «paradossalmente l’inchiesta sulla mancata perquisizione fu, in un certo senso, più approfondita nell’aula di giustizia milanese che a Palermo».
E proprio fra quelle carte è opportuno tornare per trovare oggi alcune risposte. Perchè, partito come un processo per diffamazione, quel giudizio si era presto trasformato per il capitano De Caprio in un autentico fuoco di fila di domande e richieste di chiarimenti. Incalzato dal tenace difensore di Repubblica, l’avvocato Caterina Malavenda, l’ufficiale più che smentire, ammette, E rivela una circostanza straordinaria.
Udienza del 20 febbraio 2003. Dinanzi al giudice Gaetano Brusa, De Caprio spiega le ragioni del suo risentimento: «leggendo il libro viene presentata in maniera sistematica la presenza di accordi illeciti tra Carabinieri e grandissimi personaggi mafiosi come Bernardo Provenzano, che è ancora latitante; attraverso questi accordi si sarebbe sviluppata tutta una serie di dinamiche che avrebbero consentito l’arresto di Riina, che ho operato io personalmente … si dice chiaramente che non è stato voluto perquisire il covo di Riina perché c’era un fantoma… un archivio, viene introdotta la presenza di un archivio di Riina, che è un fatto gravissimo perchè a me non risulta da nessuna parte, l’esistenza di questo archivio e praticamente la …il patto è: Riina è stato preso per strada perchè in cambio gli hanno dato la possibilità di nascondere questo archivio, che l’avrebbe preso Provenzano per poter ricattare 3000 perso… ah, grosse personalità».
Tremila nomi. Con un potenziale esplosivo capace di far saltare l’intero apparato istituzionale del Paese. Chi, in quell’alba livida di veleni del 1993, alla vigilia di un rivolgimento politico epocale quale quello che avvenne poi in Italia, si impossessò di quei dossier? «Nel libro di Bolzoni – conferma oggi alla Voce l’avvocato Malavenda – non si parlava di dossier e non si precisava alcun numero. Si faceva invece riferimento ad un “papello”, che sarebbe stato, secondo alcune ipotesi, al centro dello scambio. Ma da un controllo del fascicolo relativo a quel processo per diffamazione, ormai passato in giudicato, posso confermare che le parole del captano Di Caprio furono proprio quelle sulle “tremila grosse personalità”».
Dove sono ora quei dossier bollenti? A qualcuno torna in mente l’altro elenco dotato dello stesso detonatore: quella lista di nomi sequestrata a Licio Gelli nel corso della perquisizione a Castiglion Fibocchi e rimasta, finora, per buona parte nell’ombra. «Da quell’elenco – ha raccontato alla Voce l’ex procuratore capo di Napoli Agostino Cordova – mancavano i primi duecento nomi. E non è mai stato reso noto quali fossero». In attesa del processo, De Caprio, 43 anni, presta servizio a Napoli, nucleo operativo ecologico dei Carabinieri. Quanto al superprefetto Mori, da direttore del Sisde detta le regole al governo italiano per affrontare l’emergenza terrorismo determinata dall’invasione dell’Iraq.
Terzo protagonista di tutta la vicenda, rimasto finora defilato, è l’allora procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli, che proprio la mattina del 15 gennaio 2003 si stava insediando al vertice di quell’ufficio. Intervistato da Repubblica nei giorni scorsi, a margine di un convegno organizzato a Palermo da MD su “Mafia e Potere”, dichiara di non avere elementi per esprimere un giudizio. All’epoca i giornali avevano scritto che Caselli chiese conto proprio a Mori della mancata perquisizione del covo. «Niente di tutto ciò – aveva ribattuto il generale – c’era l’avallo di Caselli».
All’attuale procuratore capo di Torino risponde indirettamente Attilio Bolzoni, il quale ricorda che su quel covo rimasto incustodito alla mercè dei boss «ci fu una lettera di fuoco di Caselli indirizzata al comandante generale dell’Arma e al generale della Regione Sicilia Giorgio Cancelliere». Ma «nessuno chiese mai conto a Mori della sua decisione». E «per aprire un’indagine, aspettarono un pentito».
SUA BEATITUDINE BUSA’
Una strana terra, Palermo, dove un mistero tira l’altro e la cappa di omertà , anche a livello istituzionale, puoi tagliarla a fette, appena cerchi di andare a fondo. Come capita oggi alla gip Vincenzina Massa e al gup Marco Mazzeo che, attaccati dai massimi vertici istituzionali del Paese, hanno respinto le richieste di archiviazione avanzate dalla Procura per Mario Mori e Sergio De Caprio “Ultimo” sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina.
O come accade ai giornalisti – noi della Voce ci abbiamo già provato – se vogliono portare alla luce la fitta rete di protezioni che circondano il fantomatico – ma più che mai attivo – Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace fondato dal palermitano Victor Busà e dai suoi accoliti.
Sessantaquattro anni, autoproclamatosi arcivescovo ortodosso della Chiesa russa Autocefala, già 10 anni orsono Busà viene descritto nelle consulenze affidate sul suo conto dalla Procura di Palermo come soggetto «psichicamente instabile e notoriamente mitomane, con spiccata tendenza all’invenzione di enti di varia natura e alla elargizione di diplomi di benemerenza in Italia e all’estero». E in un precedente dossier degli anni ottanta elaborato su direttiva della presidenza del Consiglio, si rincarava la dose: gli esperti definivano infatti Busà come «elemento di condizioni psichiche marcatamente anormale», «più volte ricoverato presso l’ospedale cittadino per depressione psichica», evidenziando «i molteplici titoli che il Busà stesso si è attribuito nel corso degli anni».
Tutto questo non ha impedito a “sua beatitudine” (come si definisce il “monsignore” nei suoi carteggi) di intrattenere rapporti con organizzazioni massoniche ed ordini cavallereschi, a cominciare dal principe Alliata di Monreale e dalla sua “Accademia del Mediterraneo”. Fu il sostituto procuratore Davide Monti, quando era titolare dell’inchiesta Phoney Money ad Aosta (poi avocata dal procuratore capo Anna Maria Bonaudo, la stessa del caso Cogne, e finita in flop) ad acquisire numerosi ed interessanti documenti relativi al Parlamento Mondiale, che vanta delegazioni in quasi un centinaio di Paesi esteri.
Emerse anche «che Busà – si legge ancora nella consulenza palermitana – era stato rinviato a giudizio, insieme ad altri, a gennaio del 1990, nell’ambito del procedimento penale relativo alle lauree false rilasciate dal fantomatico “Ateneo Pro-Deo Pace”».
Come andò quel processo? Anche quella volta, probabilmente, si concluse con un nulla di fatto, dal momento che l’attività di Busà risulta nel corso degli ultimi anni enormemente cresciuta e collegata in più punti a fatti e personaggi dei più recenti misteri italiani. Così come viva e vegeta è l’Università Pro Deo, con sede a Roma, che continua a celebrare riti accademici e rilasciare diplomi di laurea.
Del Parlamento Mondiale si è tornati a parlare in occasione del sequestro in Iraq delle quattro body guard italiane (vedi articolo di apertura). Uno dei principali trait d’union fra Parlamento Mondiale e Università Pro Deo è poi il massone Pietro Calacione, più volte inquisito dalla Procura di Palermo, nonchè membro di entrambe le organizzazioni, oltre che della cosiddetta “Malta parallela” o OSJ. In un rapporto della questura di Palermo del luglio 1993 ai pubblici ministeri titolari dell’inchiesta sul “ragioniere della mafia” Giuseppe Mandalari, si segnala il collegamento di Calcione con ambienti del ministero dell’Interno. In particolare vi si legge che Calcione è stato prelevato all’aeroporto di Fiumicino da una macchina del Viminale con a bordo il viceprefetto Carlo Maria Fanara, già capo di gabinetto dell’allora alto commissario antimafia Angelo Finocchiaro. Calcione viene descritto inoltre come appartenente all’Ordine Marinista, da sempre collegato alla destra eversiva e, attraverso quest’ultima, alla mafia.
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