Caso Moro. Una verità “storica” ormai accertata, soprattutto grazie all’imponente lavoro di ricostruzione effettuata da calibri come Sergio Flamigni, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato. Gli ultimi due, autori di una pietra miliare come “Doveva morire”, con una Dc targata Andreotti-Cossiga ben consapevole del tragico destino dello statista, la super regia Usa orchestrata da Steve Pieczenick (arrivato ad ispirare quel “comitato di crisi” composto da 11 piduisti su 12) e il braccio operativo di Gladio.
Man mano, a suffragare quelle piste, stanno emergendo documenti, carte e testimonianze acquisiti dalla nuova “commissione”, varata circa un anno fa e presieduta dall’ex Margherita, Giuseppe Fioroni. Un po’ alla volta, dopo 35 anni e passa, i tasselli di quel tragico mosaico vanno al loro posto; e soprattutto comincia a emergere quello scenario di depistaggi costruito proprio da coloro che favorirono, per via istituzionale, l’esito più traumatico, “usando” il comodo braccio armato delle Brigate Rosse, la cui “infiltrazione” da parte di pezzi dello Stato (deviato?) è ormai nota anche agli scolari delle elementari. Uno scenario, quindi, da perfetta “Strage di Stato”.
Brigate rossonere, titolò la Voce un suo pezzo di cinque anni fa: nessun riferimento alla squadra di Berlusconi, ma all’incredibile mix che – proprio nel giallo Moro – trova la sua perfetta sintesi: Bierre, ma anche Gladio, notoriamente vicina alla destra più estrema. Descrivevamo, nel 2010, la breve – ma super significativa – esperienza di “Theorema”, rivista ideologica fondata dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e un comitato scientifico di tutta eccellenza: tra i componenti Valerio Morucci, il telefonista che comunica l’avvenuta esecuzione di Moro, e Loris Facchinetti, leader di Ordine Nuovo. A presiederlo il generale Mario Mori, ex capo del Ros e poi del Sisde, per il quale è stata appena richiesta dai pm palermitani Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio la condanna a 4 anni e mezzo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano (l’aveva fatta franca, Mori, per un altro gravissimo episodio, la mancata perquisizione e l’incredibile mancato controllo del covo di Totò Riina, dopo la sua cattura, che conteneva documenti “che avrebbero fatto saltare l’Italia”, come l’archivio dei 3000 nomi).
Ma torniamo alla nuova Commissione Moro. E ad una delle scoperte di maggior peso. Riguarda l’Alfasud dei misteri. Ecco cosa viene scritto nel capitolo 9.7 sotto il titolo “L’Alfasud targata Roma S88162 e l’arrivo del dottor Spinella”. “Nella pubblicistica sul caso Moro si è più volte richiamata l’attenzione sulla presenza di un’ulteriore autovettura, un’Alfasud targata Roma S88162, visibile – in numerose foto scattate nell’immediatezza dei fatti – parcheggiata su un marciapiede di via Fani poco distante dal luogo dell’agguato”. Nella relazione viene subito puntualizzato: “In passato non era mai stato chiarito a chi appartenesse il veicolo e chi l’avesse utilizzato per giungere, poco dopo l’eccidio, sul luogo della strage. Sulla base delle indagini affidate dalla Commissione alla Polizia di Stato è ora possibile affermare che si tratta di un’autovettura in dotazione alla Digos della Questura di Roma; l’auto era normalmente affidata al dottor Giancristofaro, ma quella mattina venne utilizzata dal dottor Domenico Spinella, dirigente della stessa Digos, per accorrere a via Fani. La Commissione ha svolto specifici approfondimenti per ricostruire il momento esatto in cui il dottor Spinella apprese la notizia del sequestro di Aldo Moro, l’orario della sua partenza dalla sede della Questura di Roma e il momento del suo arrivo in via Fani”.
A questo punto parecchie testimonianze si incrociano, e in alcuni passaggi non coincidono. I commissari infatti scrivono: “mettendo a confronto le versioni riportate, emergono talune differenze sugli occupanti dell’Alfasud e sulle modalità con le quali il dottor Spinella apprese la notizia del rapimento. Inoltre, se egli effettivamente fosse partito dopo aver ricevuto la notizia dalla sala operativa – e quindi non prima delle 9,05 – difficilmente sarebbe potuto giungere in via Fani quando sul posto era presente solo una volante, tenuto conto che gli 8,8 chilometri di distanza, per quanto abile e veloce sia stata la guida, non potevano essere coperti in così breve lasso di tempo”. E sottolineano: “Può, in ogni caso, ritenersi piuttosto probabile che l’Alfasud con a bordo il dottor Spinella sia partita dalla Questura prima dell’arrivo al centralino delle telefonate che segnalano l’agguato di via Fani tra le 9.03 e le 9.05”.
Mistero nel mistero, una seconda Alfasud color beige. “Occorre poi tenere conto del fatto – viene rilevato – che la descrizione che del modello dell’auto e del suo colore danno alcuni testi potrebbe lasciar pensare alla presenza di almeno una seconda auto. Bruno Barbaro e Francesco Pannofino hanno infatti in passato riferito di un’Alfasud Beige dalla quale scesero alcuni uomini con la paletta della Polizia”. Lo stesso Barbaro poi fa riferimento ad un’Alfetta bianca vecchio tipo. “Dunque, se tali dichiarazioni sono da ritenersi attendibili, oltre all’Alfasud di colore giallo canarino immortalata da numerose foto, uomini della polizia in borghese potrebbero essere giunti, nell’immediatezza dei fatti, anche da un’altra Alfasud beige o da un’Alfetta di colore bianco”.
Nel volume “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?” (l’agente ventitreenne che faceva parte della scorta di Aldo Moro) scritto nel 2014 da Carlo D’Adamo, vengono forniti altri elementi. Fu il generale Alberto Dalla Chiesa a parlare di un’Alfasud (chiara, con ogni probabilità beige) davanti alla prima commissione parlamentare d’inchiesta: auto “vista alcune volte in via Montalcini dove abitava la brigatista Anna Laura Braghetti”. A pochi mesi dall’eccidio, nell’estate ’78 – commenta il sito Globalist – “un giorno da quell’auto furono visti scendere due agenti in borghese che interrogarono i vicini di casa della Braghetti ma si guardarono bene dal fare irruzione nell’appartamento della brigatista che viveva ancora lì indisturbata e che, capita l’antifona, da lì a poco avrebbe traslocato in tutta calma”. D’Adamo scrive anche di alcuni tra gli uomini accorsi tra i primi a via Fani, guarda caso tutti “gladiatori”, come tal Moscardi, il colonnello Camillo Guglielmi e Bruno Barbaro”, già ricordato fra i testi della commissione. “Quell’Alfasud – nota D’Adamo – collega direttamente la scena del crimine con le stanze del potere oscuro, in cui l’ex presidente Cossiga e i suoi amici avevano accentrato tutta la gestione del caso Moro, e per questo viene cancellata subito dalle indagini”. Ma finalmente ora riemerge nelle fresche carte della nuova commissione.
L’APPUNTO SEGRETISSIMO SULLE MUNIZIONI SI VOLATILIZZA
Il nome di Domenico Spinella rimbalza comunque a proposito di un’altra oscura vicenda del giallo Moro. E anche stavolta di basilare importanza per far luce appieno sul ruolo di Gladio. Si tratta di un appunto “segretissimo” preparato nelle stanze del Viminale a qualche mese dall’esecuzione – settembre 1978 – e riguarda il tipo di munizioni utilizzate nella strage. Quell’appunto è sparito. Rubricato con il numero 11001/145 e a lungo conservato in un fascicolo denominato “On.Moro”, poi magicamente si è volatilizzato. Per questo saranno chiamati dalla commissione Fioroni a fornire chiarimenti il ministro degli Interni Angelino Alfano e il sottosegretario con delega ai Servizi Segreti Marco Minniti. A quanto pare l’informativa conteneva elementi utili che conducevano ad uno degli arsenali segreti di armi, munizioni ed esplosivi (i cosiddetti “Nasco”) controllati da Gladio: stavolta non ubicato nella strategica Sardegna – dove era ben attivo il campo di addestramento a capo Marrargiu – ma nel nord Italia. Chi aveva firmato, allora, quell’informativa redatta da uno 007 su informazioni confidenziali e misteriosamente scomparsa? Il capo della Digos Spinella e l’allora questore di Roma Emanuele De Francesco. “Non ricordo chi sia stato l’estensore dell’appunto – dichiarò Spinella nel novembre 1999 al giudice Franco Ionta – Non ricordo assolutamente l’origine delle notizie contenute nell’appunto”. Difficile, a questo punto, che la memoria possa tornargli dopo altri 15 anni e passa, visto che verrà interrogato, anche su questo bollente argomento, davanti alla nuova commissione Moro. Non potrà testimoniare De Francesco, scomparso cinque anni fa.
Ma torniamo ai misteri via auto, visto che la sequela non è certo finita: e a quanto pare tutte le strade, non solo portano a Roma, ma anche ai Servizi e ai solerti gladiatori.
Sul set della strage anche un’Austin Morris blu targata Roma T50354 che parcheggiata sul lato destro della strada, scostata dal marciapiede, era situata in posizione strategica – descrive D’Adamo – “impedì all’autista di Moro di manovrare per togliersi dall’imbottigliamento e favorì il ‘tiro a segno’ del commando appostato dietro la siepe di pitosforo del Bar Olivetti, ma anche dietro a quell’auto, parcheggiata appositamente per offrire riparo ai killer”. Così su Globalist vengono ricomposte alcune tessere: “l’autore del libro, incuriosito dal fatto che di quella Austin blu non c’era traccia nella carte processuali e nei resoconti giornalistici (l’unica traccia è contenuta in “Doppio livello” scritto da Stefania Limiti, poi autore con Provvisionato di “Complici – Il caso Moro-Il patto segreto tra Dc e Br”, libro in cui emerge il fil rouge di Gladio, ndr), è andato al Pra e ha scoperto che l’auto era stata acquistata il 2 febbraio 1978, quindi un mese e mezzo prima dell’agguato, dalla società immobiliare ‘Poggio delle Rose’, costituta sette anni prima da un ex funzionario del Viminale e che risultava essere all’epoca una società di copertura dei Servizi e aveva sede in Piazza della Libertà 10, nello stesso stabile in cui si trovava anche la Immobiliare Gradoli spa riconducibile a fiduciari del Sisde”.
Eccoci alla terza (anzi quarta auto, visto il bis di Alfasud giallina e beige). Proprio di fronte all’Austin blu, infatti, stazionava una Mini Cooper verde con il tettuccio nero (per la serie: ne vediamo proprio di tutti i colori) e targata Roma T32330. Scrive D’Adamo: “L’auto offre riparo ad altri due uomini del commando, vestiti da avieri, che sparano da sinistra all’Alfetta bianca della scorta di Moro. Di quella macchina non parla Morucci, che pure spara da quel lato della strada contro la scorta del presidente Dc”. Del resto il Br double face Morucci (che verrà poi arruolato dal generale Mori per il suo “Theorema”) glissa anche sulla Austin Morris, che per lui diventa una “Mini Minor”, lì “casualmente”…
Ma di chi era quella Mini Cooper verde? D’Adamo va a caccia del proprietario e, sempre via Pra, scopre che un anno prima, a marzo ’77, l’auto è stata immatricolata da tale Tullio Moscardi, “un ex ufficiale della Decima Mas di Junio Valerio Borghese”, il principe nero che tentò il golpe nel ’70. Moscardi poi passò al team “Vega”, gruppo speciale di Gladio, in qualità di “reclutatore di sabotatori”. Guarda caso, Moscardi dimorava proprio in via Fani, civico 109: uno tutto casa e bottega. “Agli inquirenti – nota D’Adamo – dirà di essersi affacciato al balcone dopo aver sentito gli spari, e di essere sceso giù a sparatoria finita”. Non potevano essere tric trac?
Raffaele Iozzino, l’agente di scorta, era seduto nel sedile posteriore dell’Alfetta e fu l’unico che riuscì a saltare fuori dall’auto con la pistola in pugno e a sparare contro i brigatisti prima di essere ammazzato. Un commando, secondo D’Adamo, non di soli bierre, ma rafforzato anche con “tiratori di precisione collegati con i Servizi”. E probabilmente con Gladio. Ma questo è un altro capitolo del giallo….
Nella foto di apertura un’immagine della strage di Via Fani: in basso si intravede vede l’Alfa Sud. A sinistra Aldo Moro e, a destra, Giuseppe Fioroni.
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Un commento su “RIVELAZIONI SUL CASO MORO / SPUNTA UN’ALFA SUD DELLA DIGOS”