Il legame umano e letterario con il Sannio e l’Irpinia
“Ogniqualvolta mi reco nel Sannio avverto netta l’impressione di dover come cambiare moneta, di prendere un altro atteggiamento, di prepararmi, insomma, a entrare in un’altra dimensione”, scriveva Domenico Rea nel mirabile saggio La provincia stregata: uno dei due articoli (l’altro si intitolava Le motivazioni della regione mistica) ripubblicati dall’Ept di Benevento nel decennale della scomparsa, nel 2004, a testimonianza di un legame vivo e mai interrotto tra lo scrittore ed il Sannio, fino a far definire Rea, come si legge nella biografia scritta dal giornalista Mino Jouakim, uno scrittore “osco-sannita”: l’unico del Novecento ad aver saputo percepire e amalgamare, nel carattere e nella produzione letteraria, gli umori della Campania felix e dell’Appennino meridionale.
Qualche anno prima, nell’ormai raro volume Fuoristrada in Campania, lo scrittore aveva sintetizzato nel capitolo L’ultima è Benevento – pubblicato successivamente su “Prospettive culturali” con un titolo diverso – la differenza del paesaggio umano e ambientale della regione interna rispetto all’area costiera: “La Campania è davvero un continente. Partendo dal mare, da Napoli o da una qualsiasi città della costa, in poco più di una cinquantina di chilometri, la regione cambia clima, ambiente, atmosfera, genti. Si passa dal clima temperato a zone il cui sistema metodico è l’inverno”.
Una dimensione lontana, nello spirito e nei ritmi, dalla vicina metropoli partenopea nella quale ha vissuto gran parte della sua vita e della fertile attività di narratore e giornalista; forse più vicina alla Nocera Inferiore (la Nofi poeticamente rievocata in tanti articoli e libri) della nascita e dell’adolescenza, tuttavia meno sanguigna e più silenziosa e composta. I colori, i suoni e le voci di quell’ambiente caldo – in tutti i sensi – e ancora vitalisticamente pagano in cui aveva vissuto la prima parte della sua vita (e fa rivivere nel suo ultimo capolavoro, Ninfa plebea) gli sembrò di ritrovarli nella “juta” a Montevergine, l’antico e particolarissimo pellegrinaggio del popolo meridionale, in cui si fondevano come in nessun’altra parte del mondo cristiano la religiosità profonda dei montanari e quella chiassosa e paganeggiante della plebe urbana e della pianura campana, la rassegnata disperazione degli umili e l’esibizionismo sfacciato, a tratti carico di violenza, dei parvenu e dei mercanti.
“Vale la pena di recarsi ancora a Montevergine, uno dei quattro santuari, con Santa Maria di Compostela, Loreto e Lourdes, tappe sacre e obbligate degli antichi e nuovi pellegrinaggi della cristianità?”, si chiedeva retoricamente Domenico Rea in uno dei numerosi testi dedicati al santuario mariano. Per rispondersi, senza esitazione: “Certamente”.
E valeva la pena anche recarsi in altri luoghi dell’Irpinia, come quelli dove si svolgeva il “Laceno d’Oro”: “Ora, scoprire che in una piaga appenninica dell’Italia – nella severa Avellino – si assegnano dei premi a nome del «neorealismo», oltre che coraggioso, mi sembra quasi donchisciottescamente eroico. Quando poi, a tener su con mille fatiche un’istituzione del genere, sono due uomini come Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, che hanno sempre e soltanto dato senza mai ricevere, si prova una sincera emozione. E per loro due noi ogni anno torniamo ad Avellino“.
Con queste parole Domenico Rea concludeva una indimenticata conferenza al Liceo “Colletta” di Avellino, dove era stato invitato insieme a Vincenzo Siniscalchi il 21 ottobre del ’66. Da quell’anno – e fino al ’70 – lo scrittore napoletano sarà il nuovo presidente del Festival internazionale del cinema neorealistico promosso dal ’59 dalla rivista “Cinema Sud” diretta da Marino, con l’autorevole sostegno intellettuale e organizzativo di Pier Paolo Pasolini, sull’altopiano del Laceno a Bagnoli Irpino e poi, proprio dal ’66, ad Avellino e Atripalda, fino al 1988.
Un’”investitura”, quella di Rea, avvenuta in circostanze a dir poco inusuali, come confida quattro anni dopo lo stesso autore di Gesù, fate luce in una cena con gli ospiti del festival: “Rea, questo volpone per il cinquanta per cento scrittore e per l’altro attore – si legge in un reportage di Corrado Carli, inviato del quotidiano “Il Lavoro” di Genova – perché napoletano al cento per cento, incominciò a narrare, soprattutto per Baldelli, che era l’unico a non conoscere Marino, la prima volta che si conobbero nel settembre del 1964 a Sorrento per la prima mondiale di Per un pugno di dollari. Camillo era con d’Onofrio (era come lo è da dodici anni, un’amicizia che dire fraterna è ben poca cosa): la coppia iniziò a girare con passo sostenuto attorno allo scrittore per lungo tempo fissandolo negli occhi: dopo parecchio Rea, incuriosito, abbozzò un saluto; i due gli si gettarono addosso, lo adorarono, gli proposero la direzione della rassegna del Laceno. Domenico capì subito di trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale, di insolito, a forze scatenate della natura e come quelle ingenue e intrepide; tra sé disse: “Non mi separerò mai più da questi uomini”. Ancora oggi Rea per averli a cena a Napoli viene ad Avellino a prenderli, li porta a Napoli, li riconduce ad Avellino e ritorna a casa ormai all’alba”.
La presidenza quinquennale di Rea coincide con l’età d’oro del Festival irpino, in una felice simbiosi di entusiasmo ed impegno, di “dolce vita” provinciale – con le soireè e le serate danzanti a Mercogliano e Solofra – e di fermenti sessantottini. Toccò a Rea, nel ’66, consegnare il primo premio a Ingrid Thulin, la grande attrice svedese allora emergente, l’anno successivo ai fratelli Taviani per I sovversivi e a Luigi Zampa, nel ’69 a Ettore Scola (primo riconoscimento da regista con Il commissario Pepe), nel ’70 al Tinto Brass impegnato di Drop out e ai protagonisti del film Franco Nero e Gigi Proietti, al giovane e coraggioso Pasquale Squitieri di Io e Dio. Furono gli anni del disgelo verso il cinema dell’Est europeo, dei dibattiti dopo le proiezioni, della “scoperta” di tanti attori e registi di opere prime e di documentari, come Bernagozzi, Piavoli, Giannarelli. Un festival giovane, coraggioso e conosciuto in tutto il mondo fu quello che Rea riconsegnò al duo Marino-d’Onofrio e al suo prestigioso successore: Cesare Zavattini.
Soprattutto valeva la pena, sempre di più, fino agli ultimi istanti della sua vita, ritornare e fermarsi nel Sannio, che Domenico Rea finì per scoprire ed amare un pò alla volta ma con una convinzione e un piacere sempre più intensi, fino ad eleggere la provincia di Benevento a sua terra d’adozione: terra, per dirla con le sue parole, “da cui, tanto per cominciare, va bandita ogni leggerezza. Si entra in un mondo serio, austero, complesso: in una provincia italiana che ha gli ingranaggi di una nazione, si badi, non di stato, che vorrebbe dire tutt’altra cosa. Nel Sannio le parole sono ancora parole: risultato di un’organizzazione e concentrazione culturale meditativa; giacché in quest’ambiente la vita ha avuto un ritmo tempestoso e lento, essenza di diecimila esperienze ed è centellinata e misurata dalle clessidre: granello dietro granello, fatica dietro fatica, a gloria di una tradizione che non è nostalgia del passato, ma propulsivo ricordo di una storia che ha pagato pedaggi durissimi per mantenersi presente all’appello del progresso”.
Alla provincia di Benevento Domenico Rea dedicò diversi scritti: oltre ai memorabili saggi citati, un importante reportage turistico (Viaggio a Telese) pubblicato su “L’Espresso” del 7 marzo 1982, un articolo sull’oro rosso del Sannio (Rosso o bianco purchè sia vino, il 23 agosto dell’85 sul quotidiano “Il Mattino”), la prefazione al libro di Alberto Abbuonandi sulle streghe di Benevento nel 1988.
Il feeling con il popolo e il territorio del Sannio fu subito, e definitivamente, ricambiato. Fin dal 1985: appena qualche settimana dopo l’uscita del suo pezzo sui vini sanniti, i produttori del Taburno gli assegnarono il “Premio Torrecuso”. E numerosi furono gli attestati e gli incontri letterari in suo onore, che raggiunsero l’apice nell’indimenticabile serata del 31 luglio 1993 all’Hortus Conclusus di Benevento, con la quale l’Ept volle celebrare la vittoria di Rea al 47° “Premio Strega” con Ninfa Plebea.
Lo scrittore si trovava nel capoluogo sannita anche il 9 gennaio dell’anno successivo, quando avvertì il malore che, due settimane dopo (secondo alcuni anche per una diagnosi inadeguata al Centro Traumatologico di Napoli, dove era stato immediatamente trasferito dopo un primo ricovero al “Rummo”), lo avrebbe portato alla morte, il 26 gennaio, all’età di 72 anni.
Una semplice coincidenza, che alcuni indizi culturali evocano tuttavia come il segno di un destino. E a molti piace immaginarlo così: estremo segno di un legame diventato indissolubile con quella Campania interna (l’Irpinia prima, il Sannio poi e con maggior forza) che Domenico Rea ha saputo comprendere ed apprezzare come forse nessun altro scrittore italiano.
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