Indi Gregory è morta il 13 novembre scorso, pochi giorni dopo il distacco da quella macchina che la teneva artificialmente in vita, aveva solo otto mesi. La sua vicenda ha profondamente colpito l’opinione pubblica italiana. Si trattava di una bambina inglese affetta da una grave malattia universalmente considerata incurabile. I giudici inglesi, interpellati dai medici curanti, avevano sentenziato di non autorizzare il prosieguo delle cure e il suo trasferimento in Italia al Bambin Gesù di Roma, che si era proposto di farle continuare le terapie palliative e di sopravvivenza, quelle stesse che aveva sino a quel momento ricevuto nel suo paese.
Il caso era stato sollevato, con gran clamore, dagli avvocati italiani dei genitori. Tra questi spicca Simone Pillon, noto politico leghista protagonista di numerose manifestazioni dei cosiddetti comitati per la vita. Si è già battuto contro l’aborto, contro il divorzio e contro tutte le leggi che hanno innovato in questo campo la nostra legislazione sui diritti. Leggi emanate per promuovere i diritti civili, primi tra tutti quelli per garantire alle donne la libertà di scelta su tutto ciò che riguarda il loro corpo.
L’Italia della Meloni ha scatenato una gigantesca campagna di propaganda tesa a mettere in evidenza la disponibilità italiana, nei confronti dei diktat disumani e crudeli dell’algida Albione.
Il Governo aveva concesso, con una tempestività sconosciuta in altre occasioni, la cittadinanza italiana alla bambina. Cittadinanza sempre negata ai bambini figli di immigrati che nascono in Italia. Ha concesso in fretta e furia questa cittadinanza ben sapendo che si sarebbe trattato di un atto unilaterale che in alcun modo poteva sostituirsi né alla priorità delle leggi inglesi, in quanto Indi conserva comunque la sua cittadinanza originaria; né avrebbe mai potuto condizionare le scelte del suo paese in tema di politiche sanitarie; né, tantomeno, cambiare le decisioni della magistratura inglese sul prosieguo delle cure da somministrare alla piccola Indi. Una decisione, quella di disporre l’interruzione dei trattamenti, che sembra voler tracciare un particolare confine etico tra cure erogate da un sistema sanitario e il prosieguo delle stesse, quando queste rischiano di sfociare in forme di accanimento terapeutico.
Quel governo, vogliamo precisare, non ha deciso di “uccidere” Indi, come si può leggere tra le righe dei documenti e ricavare dalle iniziative arditamente intraprese dall’avvocato Pillon. Il governo inglese ha solo ribadito un principio assoluto, simile al principio che è valido anche nel nostro paese. Quello di decidere, in base ai dati della ricerca scientifica, quando interrompere i trattamenti. Soprattutto se questi diventano dolorosi o inutili, perché finalizzati solo a tenere in vita un corpo senza alcuna speranza di guarigione, nella speranza che possa cambiare, grazie ad un miracolo, il corso di una malattia dalla genesi certa e considerata irreversibile dalla comunità scientifica.
Tutto il resto diventa allora solo mera demagogia, attesa di un improbabile miracolo o, nel peggiore dei casi, diventa occasione di una forma ignobile di propaganda politica tendente a catturare consensi tra le gerarchie ecclesiastiche e tra quella parte di elettori cattolici integralisti o dell’opinione pubblica più sensibile alle aspettative di chi crede che la vita debba essere sempre salvaguardata sempre e ad ogni costo, in quanto sacra e irrinunciabile. Una speranza che consente, però, a chi vuol speculare sulla legittima sofferenza altrui di strumentalizzare i sentimenti e le speranze di una famiglia devastata dal dolore. Speranze che sia pur condivisibili devono anch’esse sottostare alla necessità di utilizzare “al meglio” le poche risorse disponibili, consapevoli che queste non sono infinite e che, quando sono mal utilizzate, possono negare ad altri pazienti una parte di cure salvavita.
Indy, quindi, non può e non dovrebbe mai, essere considerata come la personificazione di un inesistente conflitto tra la bontà italica e il cinismo inglese. Si tratta, invece, di una legittima differenza di comportamenti che indicano la contraddizione tra chi decide di utilizzare virtuosamente le poche risorse disponibili per organizzare una buona sanità, e chi invece intende farne un uso demagogico, puntando su un singolo caso e trascurando tutto il resto. Soprattutto sapendo che non si potrà incidere sul decorso di una malattia ben nota e considerata incurabile.
Questo ragionamento è ancor più valido quando si pensa che in Italia si destinano sempre meno risorse alla salute dei cittadini. Oggi investiamo meno del 9% del PIL, collocati al quindicesimo posto (ma partendo dai primissimi) tra i paesi più ricchi e industrializzati.
L’avvocato Simone Pillon ha pensato bene di utilizzare opportunisticamente la vicenda della piccola Indi. Parliamo di un noto politico della Lega, organizzazione nota per il suo razzismo e per il cinismo politico che spesso ispira le sue iniziative.
La presidente Meloni ha persino scritto al capo del governo inglese chiedendogli di impedire che ciò avvenga. Ma la sua richiesta non era accompagnata da una credibile alternativa terapeutica, frutto di studi e di ricerca scientifica. Quella stessa ricerca invece è costantemente frustrata e de-finanziata, al punto da far emigrare i nostri migliori giovani ricercatori verso altri paesi (compresa l’Inghilterra) che offrono maggiori risorse e opportunità.
I medici inglesi si erano accorti che le condizioni cliniche di Indi erano disperate. Non respirava, era cianotica e aveva il cervello atrofico a causa di un versamento di liquido nel cranio. È normale che i genitori, devastati dal dolore, abbiano chiesto di prolungare il più possibile la vita della loro bambina e che vogliano credere in un miracolo. Ma la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale, da cui era affetta Indy, non ha ancora cura possibile.
Per quei sanitari ciò che i genitori chiedevano era da considerarsi come una forma di accanimento terapeutico e, quindi, si sono rivolti alla magistratura inglese per farsi autorizzare a staccare quella bimba dalle macchine. Si è allora arrivati alla decisione del tribunale che, come da prassi in questi casi, ha dato ragione ai medici autorizzando l’ospedale a spegnere le macchine e ad interrompere il sostegno vitale.
Solo in questo momento è entrato in gioco il governo italiano, che ha proposto non una cura alternativa ma una mera ospedalizzazione.
E ciò, forse, al solo scopo di ricavarne visibilità e consensi.
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