Per Stefano  

Non è sono ammirevole: è sacrosanta la determinazione che passo doloroso, dopo passo, accompagna le iniziative di Ilaria Cucchi perché sia perseguito e punito dalla giustizia chi ha massacrato Stefano, il fratello morto a seguito di brutali percosse per cui sono indagati cinque carabinieri. Sono almeno due le ragioni che giustificano la battaglia della famiglia contro la possibilità che il tempo e una temuta omertà del “sistema” avvolga con una nebbia fitta e alla fine impenetrabile le dinamiche di un omicidio specialmente grave ed esecrabile per modalità di esecuzione e identità degli esecutori. Che siano visibili in permanenza le responsabilità di uomini che indossano la divisa per tutelare la sicurezza dei cittadini è richiesto innanzitutto dall’obiettivo di non lasciare impunito un delitto assurdo, commesso con cinismo disumano. Una seconda ragione, di là dal diritto dei familiari di ottenere giustizia, è l’obiettivo di scongiurare il ripetersi di episodi analoghi. Diventa un caso da prima pagina l’iniziativa di Ilaria Cucchi che pubblica su Facebook l’immagine di uno dei carabinieri indagati per la morte del fratello Stefano. Giusto, non giusto? I commenti si inseguono sul social network e sono per lo più insulti, minacce contro il militare. Molti si dissociano, l’arma dei carabinieri denuncia Ilaria. Sullo sfondo dell’episodio la diffusione di una telefonata agli atti dell’inchiesta sulla morte di Stefano. Uno dei carabinieri parla con la moglie che dice “Hai raccontato che vi siete divertiti a picchiare quel drogato di m…” Ilaria Cucchi, consapevole di aver scatenato un inferno, commenta la pubblicazione della foto e ammonisce di non tollerare la violenza in tutte le sue forme, ripete di aver fiducia nella giustizia. E proprio quest’affermazione induce a dissentire dall’iniziativa di pubblicare la foto del carabiniere, in considerazione dell’andamento del processo che vede indagati i cinque carabinieri, severamente fino a prova contraria.

Nella foto Ilaria Cucchi

 

 

“Caro amico…così mi distraggo un po’”

Nessun dubbio, parte degli italiani dimostra una gran voglia di evadere dalle annose pesantezze in cui crisi e recessione l’ha confinata ormai da troppi anni. Svanita la serenità, gli è subentrato un senso diffuso d’ incertezza su presente e futuro, il rannicchiarsi nello spazio minimo della propria intimità, nel rifugio della moderazione (per chi ne ha avuta la possibilità), per altri nella rassegnazione a condizioni nuove o solo confermate di povertà: l’Italia triste ha tenuto il fiato in sospeso e ancora lo fa, in attesa del miracolo che dovrebbe cancellare con un colpo di spugna decenni di scelleratezza che hanno spinto il Paese sull’orlo del baratro, a un passo dal fallimento. Gli spiragli di salute economica che sembrano aprirsi nel buio decennale di settore inducono molti a un insperato recupero di fiducia, a ripristinare il respiro normale dopo un’annosa apnea, a scegliere di pensare al bicchiere mezzo pieno, a zittire il chiacchiericcio dei gufi di mestiere che lo descrivono, a prescindere, mezzo vuoto. Tutto bene? Assolutamente no. Di strada in salita ce n’è ancora e tanta, ma il nero pessimismo di qualche anno fa è più sbiadito, depotenziato dal total system dell’evasione. In particolare dall’efficacissimo ipnotizzatore della comicità, televisiva (Zelig, Made in Sud, eccetera) e non meno del cinema. Controprova? I ventidue milioni di euro (quarantaquattro miliardi delle vecchie lire), incasso record in tre giorni di “Quo vado”, il nuovo film del comico pugliese Cecco Zalone. C’è insomma parte del popolo italiano predisposto da qualche segnale di ripresa dell’economia a investire nel futuro, a rottamare ansia e paura, a dimenticare le minacce del terrorismo, gli sconvolgimenti del clima che annunciano la desertificazione del pianeta, le crescenti sacche di povertà contrapposte a ingiuste impennate della ricchezza, squilibri sociali esplosivi, diffusi venti di guerra. Ottimismo giustificato? La prudenza non è mai troppa.

 


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