SUSAN VOLEVA SOLO VEDERE SUO FIGLIO

Susan John è morta in carcere per uno sciopero della fame fatto per protesta. Voleva solo incontrare il suo bambino gravemente ammalato. Era una donna nigeriana finita in carcere per tratta ed immigrazione illegale. Suo figlio, un bimbo di quattro anni con gravi problemi di salute, aveva bisogno della sua mamma. Le mancava tanto quel bimbo indifeso. Susan era una detenuta rinchiusa nel carcere delle Vallette a Torino, struttura ove si erano già registrati ben 6 suicidi solo nei primi mesi del 2023. Nessuno si era mosso per fermare la sua protesta nemmeno per cercare una possibile soluzione tra quelle compatibili con la pena che stava scontando. Susan si è lasciata morire di fame e di sete, sola, in una cella videosorvegliata perché riservata a persone con problemi psichiatrici. Questi dovevano essere controllati di continuo. Ma il suo problema “psichiatrico” era solo quello sciopero che aveva iniziato da poche settimane. È stata un’agente che la osservava, in piena notte, ad accorgersi che qualcosa non andava. La richiesta era di incontrare quel bimbo che le mancava tanto. Il suo sciopero della fame e della sete era iniziato dopo la conferma in Cassazione delle prime due sentenze che l’avevano condannata. Sentenza che lei, donna nigeriana a sua volta vittima di violenze e di infinite forme di sfruttamento, aveva sempre decisamente contestato. Le era stata riconosciuta una malattia psichiatrica che la obbligava all’internamento nel reparto di psichiatria dello stesso carcere. Ma non riceveva particolari cure. Solo una telecamera che l’inquadrava di continuo, ma nemmeno questa era valsa a salvarle la vita.

È stata l’ennesima morte nelle carceri italiane dove, nei primi sei mesi del 2023, si sono tolti la vita già 39 detenuti … senza contare il numero incalcolabile dei tentativi non riusciti. Un numero ancora una volta enorme che prosegue nella scia di quanto già registrato nel 2022, quando 85 detenuti si sono tolti la vita.

Le cause? Certamente l’essere rinchiusi in celle sovraffollate e fatiscenti, come denunciano da anni i garanti dei detenuti e le associazioni di volontariato che li supportano. Ma nelle nostre carceri manca il personale di assistenza specializzato. Il Ministero, infatti, si occupa di reclutare solo le guardie carcerarie che, a loro volta esasperate e senza adeguata formazione, si limitano a “custodire” i detenuti. Mancano totalmente educatori, psicologi, psichiatri, infermieri e riabilitatori. In questo modo non c’è speranza di poter avviare quei programmi di recupero umano e sociale che pure la legge imporrebbe. Tranne qualche raro esempio isolato, ci si imbatte più frequentemente in pestaggi e violenze da frustrazione che in programmi di formazione al lavoro o iniziative di reinserimento sociale efficaci. I detenuti sono in galera “per essere puniti”. Questa è una radicata convinzione di molti politici e di tanta gente comune che, ignorandone le reali condizioni di vita, sostengono questa aberrante tesi.

E così capita che una donna come Susan possa morire in carcere a seguito di una legittima protesta senza che nessuno, con un minimo di competenza, l’ascolti o pensi di fare qualcosa per aiutarla. Qualcuno capace di prendersi cura di lei per gli aspetti psicologici. E scopriamo increduli che bastano poche settimane senza cibo e senza acqua per morire. Ma per farlo ci vuole anche grande coraggio e determinazione. Questa considerazione non dovrebbe mai essere sottovalutata. Un paese civile dovrebbe sempre controllare la qualità delle sue strutture carcerarie, monitorare il lavoro e garantire i profili professionali del personale in servizio. Fino ad imporre, se dovesse essere necessario, il trasferimento di un detenuto con bisogni particolari in un’altra struttura più adeguata. E infine, se risponde al vero quanto apprendiamo dalla stampa, che si trattava di una donna affetta da patologia psichiatrica, ci chiediamo come sia stato possibile lasciarla morire di stenti? Si giustifica allora la rabbia dei Garanti e dell’avvocato di Susan che si sono lamentati di non essere stati nemmeno informati del deterioramento delle sue condizioni di salute. Un colloquio con il garante avrebbe potuto salvarla? Probabilmente no. Ma molte volte, in un carcere, la differenza può esser fatta proprio dall’ascolto, dal vedere una mano tesa, dal sentire un poco di sincero calore umano.

La verità è che uno Stato non può scivolare, come sta facendo il nostro, dall’essere uno stato di diritto, civile e attento alle persone, a trasformarsi in uno Stato “etico”, integralista e radicale nell’utilizzo di strumenti di coercizione e di controllo sociale. Strumenti che mortificano gli individui e annichiliscono ogni percorso di recupero umano e sociale.

Le condizioni di vita dei detenuti, come di quelle di tutti coloro che sono in qualche modo rinchiusi e privati della loro libertà – dagli ospiti delle strutture psichiatriche a tutti coloro che sono rinchiusi nei centri di accoglienza per profughi o migranti – sono la cartina al tornasole di ogni civiltà ed sono la prima questione che dovrebbe affrontare un paese che vuole essere attento alla libertà e alla qualità della vita dei suoi cittadini.

 


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