Il mondo sta per andare sottosopra, può concretamente verificarsi uno tsunami che parte degli Stati Uniti, è cominciato il conto alla rovescia e nessuno – a quanto pare – sembra farci caso, pochi se ne stanno rendendo conto, l’informazione di casa nostra
(meglio ormai chiamarla col suo vero nome, totale disinformazione) ‘oscura’, ‘copre’, ‘depista’.
Eppure perfino il capo della Casa Bianca, Joe ‘Sleepy’ Biden, in uno dei suoi sempre più frequenti ‘intervalla insaniae’, l’ha annunciato: “Per oltre 200 anni l’America non ha mai, mai, mai mancato di pagare il suo debito. Non può succedere adesso”. Dopo i tre ‘mai’ non ha aggiunto, ‘sarebbe la fine’, ma era inteso.
E c’è una dead line già scritta, a caratteri cubitali, nell’Agenda a stelle e strisce: 1 giugno, tra meno di un mese.
E’ iniziato il countdown.
E’ IN ARRIVO LO TSUNAMI CHIAMATO ‘DEFAULT’
Ha appena lanciato un SoS che più forte non si può l’arcigno Segretario del Tesoro Usa, Janet Yellen: “Date le attuali previsioni, è imperativo che il Congresso agisca il prima possibile per aumentare o sospendere il limite del debito, in modo da fornire la certezza anche a lungo termine che il governo continui ad effettuare i pagamenti dovuti”.
Ed ha parlato di concreto default alle porte: “La nostra migliore stima è che non saremo in grado di continuare a soddisfare tutti gli obblighi del governo entro inizio giugno e, potenzialmente, già il 1 giugno, se il Congresso non alzerà o sospenderà il limite del debito prima di allora”.
Quindi, la più grande potenza del mondo è sull’orlo del baratro.
La più forte nazione sotto il profilo economico-finanziario scopre improvvisamente di essere niente altro che un gigantesco colosso dai piedi d’argilla, sul punto di crollare, di ‘implodere’ come una maxi bolla.
Altro che 1929! Una bazzecola il 2008 cominciato con il fragoroso crac di ‘Lehman Brothers’.
E pensare che il profetico economista francese, Jacques Attali, l’aveva messo nero su bianco neanche un mese fa, quando in un drammatico articolo scrisse che la tempesta era ormai prossima e faceva un riferimento temporale ben preciso per il crac: agosto 2023. Avvisando che un prolungamento di qualche mese dell’agonia avrebbe portato ad esiti ancor più catastrofici. Cliccando sul link in basso, potete leggere quanto scrive Attali, così come riportato dalla ‘Voce’.
Ragioniamo per un momento sotto il profilo finanziario: gli Stati Uniti hanno tecnicamente raggiunto, anzi sfondato, il tetto massimo del debito già a gennaio 2023, e solo grazie ad abili artifizi contabili la situazione è andata avanti in questi mesi.
Il debito, infatti, è arrivato alla stratosferica cifra-record-limite di quasi 32 mila miliardi di dollari. Dopo di che c’è il baratro.
Dicevamo, solo tramite capriole finanziarie, il Dipartimento del Tesoro ha elaborato una manovra ancora in grado di effettuare i pagamenti che non puoi saltare, a meno di non dichiarare la bancarotta di stato: ossia il pagamento degli obbligazionisti che ‘possiedono’ il debito pubblico e subito dopo gli stipendi ai dipendenti pubblici.
E’ evidente che se non paghi gli obbligazionisti in una data certa, salta il banco, perché si spezza il meccanismo su cui si regge tutta l’impalcatura, si rompe quella Catena di Sant’Antonio che consente di andare avanti.
Una zattera di salvataggio arriva da ‘Goldman Sachs’, la banca d’affari che di affari ne ha fatti tanti, nel suo lungo percorso, e ora fa due conti: nelle casse del Dipartimento del Tesoro è previsto l’arrivo di una bella barca di soldi entro la prima quindicina di giugno: 60 miliardi di dollari che possono tamponare la falla e consentire al governo di tirare avanti fino a fine luglio. Quando poi il problema si riproporrà, con la stessa virulenza. E quindi si arriva ad agosto, come rammenta Attali…
Ma ecco, subito, la doccia fredda che in larga parte smonta la zattera immaginata da ‘Goldman Sachs’. Quel bottino da 60 miliardi, infatti, si potrebbe drasticamente ridurre per motivi ‘climatici’. Pensate a uno scherzo? No, è proprio così. Moltissime contee degli Stati Uniti, infatti, hanno fatto slittare i pagamenti fiscali dovuti dal 18 aprile, come inizialmente previsto, a fine ottobre. Chi lo ha deciso? L’Internal Revenue Service, in seguito all’ondata di eventi climatici avversi – dalle tempeste alle alluvioni fino alle frane – verificatisi in molti Stati, colpite in particolare la California, l’Alabama e la Georgia. Motivo per cui quei tanto agognati 60 miliardi potrebbe ridursi di parecchio, e quindi quanto verrà effettivamente versato non risulterà sufficiente a tappare il buco, anzi la voragine.
Probabilmente i cervelloni del Dipartimento ne scoveranno un’altra delle loro: ma resta il fatto che – qualora anche la manovra funzionasse – l’agonia sarebbe solo procrastinata per fine luglio.
LA CASA BIANCA CERCA DI SPEGNERE L’INCENDIO
Cosa sta cercando di fare la Casa Bianca, in queste frenetiche ore, quando è ormai cominciato il conto alla rovescia?
Lo ha detto Joe Biden quasi con disperazione: il Congresso Usa deve decidere subito, al più presto di ‘estendere’ il debito, quindi consentire di oltrepassare quella invalicabile linea: senza se e senza ma. Però i repubblicani si oppongono, mettono i bastoni fra le ruote: senza adeguati tagli alla spesa pubblica non diamo il nostro ok.
Il tempo stringe. Biden ha convocato d’urgenza, ore fa, lo speaker della Camera Usa, Kevin McCarthy, che è anche a capo della ristretta maggioranza repubblicana alla Camera e, soprattutto, ha il controllo primario sulle questioni di bilancio Usa. Il tentativo, però, è andato a vuoto: senza tagli, nessun disco verde al superamento del limite del debito.
Per questo il numero uno della Casa Bianca ha convocato d’urgenza, e fissato per il 9 maggio, una riunione risolutiva, finale: al tavolo veramente di ‘fuoco’ siederanno tra gli altri, oltre ai vertici bideniani e a McCarthy, anche il leader della minoranza democratica Hakeem Jeffries, quello della maggioranza del Senato democratico Chuck Schumer e il numero uno della minoranza del Senato repubblicano Mitch McConnell. Insomma, l’incontro decisivo per arrivare ad un compromesso: forse verranno decisi in fretta e furia dei tagli alla spesa pubblica per ottenere il sì dei repubblicani. Altrimenti sarà il diluvio.
E pensare che con questo colossale macigno sulle spalle e il concreto rischio di un default dalle conseguenze catastrofiche, non è saltato in mente ai cervelloni della Casa Bianca, già nelle scorse settimane, e cioè prima di arrivare sull’orlo del precipizio, di tagliare di netto una voce che incide pesantemente sul bilancio a stelle e strisce: quella delle spese militari. E quella relativa all’invio di sempre più ingenti quantitativi di armi all’Ucraina per portare avanti una guerra senza fine e che sta mietendo vittime innocenti ogni giorno che passa.
Sondaggi tra i cittadini, nelle scorse settimane, hanno visto scendere in picchiata il consenso all’invio di armi sempre più costose e sofisticate a Kiev. Perché gli americani hanno fiutato l’aria che tira, e la sempre più difficile situazione economico-finanziaria, testimoniata in modo plastico dai tre clamorosi crac bancari degli ultimi tre mesi.
Ma cosa, invece, è incredibilmente successo proprio negli ultimi giorni?
Non soltanto gli Usa non fanno niente per diminuire l’invio di armi, evitare l’escalation e avviare seri negoziati, ma soffiano sempre più sul fuoco, premono sull’acceleratore della guerra in Ucraina. E, al tempo stesso, aprono sempre di più il fronte per una seconda, prossima guerra, stavolta contro la Cina.
I segnali ci sono tutti, e vanno da Taiwan fino alle Filippine. Dando sempre più corpo ad una ipotesi da brividi: la guerra totale può essere l’antidoto per il crac finanziario interno, lo tsunami in arrivo prima descritto. A questo punto, si possono sfondare tutti i tetti al debito, e rinviare quell’ossessione in casa propria. Perché è emergenza totale.
SEGNI DI WAR ALLA CINA, DA TAIWAN A MANILA
Vediamoli, allora, questi ultimi segnali che più bellicosi non si può.
Fronte Taiwan. L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, il falco John Bolton, è andato in missione a Taiwan per un’intera settimana e ha incontrato sia il presidente Tsai Ing-Wen che altri big della nomenklatura locale. Dettaglia il reporter americano Kyle Anzalone: “Tsai ha affermato che Taiwan è in prima linea nella lotta per la democrazia e Taipei ha bisogno di legami più forti con nazioni che la pensano allo stesso modo, in primo luogo gli Stati Uniti, con i quali intendono approfondire ogni forma di cooperazione. C’è una ferma volontà di rafforzare il ‘Taiwan Cibersecurity Resiliency Act’, il nuovo disegno di legge bipartizan introdotto dal Congresso, che prevede legami più stretti in molti settori anche militari”.
Bolton, dal canto suo, ha espresso il suo impegno per fare in modo che Washington assuma una posizione più aggressiva contro Pechino e affinchè venga presto revocata la politica ‘One China’, ossia l’accordo che regola le relazioni tra Usa e Cina e afferma che Taiwan e la Cina fanno parte dello stesso Paese. E’ andato anche più in là, Bolton, ricevendo l’ok di Tsai: occorre che la Casa Bianca riconosca al più presto la totale indipendenza di Taipei: il che vuol dire – in soldoni – provocare e rendere inevitabile lo scontro finale con la Cina.
Non basta. Perché proprio negli Usa, in questi giorni, si sono svolte simulazioni di guerra per la difesa di Taiwan. Scrive il reporter statunitense Dave DeCamp: “Il comando delle operazioni speciali dell’esercito americano (USASOC) ha simulato la difesa di Taiwan da un’invasione cinese, fornendo un esempio di come l’esercito americano si sta preparando a una guerra diretta con la Cina. Il generale Jonathan Braga, comandante in capo dell’USASOC, ha affermato in un discorso prima dell’esercitazione che ‘la Cina, in accordo con la nostra strategia di difesa nazionale, è la nostra vera sfida là fuori”.
E ancora: “I funzionari militari che guidavano l’esercitazione hanno esplicitamente nominato l’Esercito popolare di liberazione cinese (PLA) come nemico, che Military.com ha definito ‘una mossa insolitamente diretta, data l’esitazione dell’esercito a suggerire apertamente un conflitto’”.
Passiamo alle Filippine. Ossia al fresco, cordiale incontro alla Casa Bianca tra Biden e il presidente filippino Ferdinand Marcos junior “tra le crescenti tensioni tra Usa e Cina”, come dettaglia lo stesso DeCamp.
Così ha esordito il numero uno della Casa Bianca: “L’impegno degli Stati Uniti a difendere le Filippine è di ferro”.
Scrive DeCamp: “Biden ha affermato che gli Usa ‘rimangono fermi nel nostro impegno per la difesa delle Filippine, compreso il Mar Cinese Meridionale, e continueranno a sostenere gli obiettivi di modernizzazione militare delle Filippine’. Marcos ha detto a Biden che il suo paese si trova ‘nella situazione geopolitica più complicata al mondo in questo momento’. ‘E’ quindi naturale – ha aggiunto Marcos – che le Filippine guardino al loro unico grande partner (gli Usa, ndr) per rafforzare la relazione che abbiamo e i ruoli che svolgiamo di fronte alle crescenti tensioni che vediamo ora intorno al Mar Cinese Meridionale e alle regioni dell’Asia-Pacifico e dell’Indo-Pacifico”.
Ed un giallo, verificatosi il 23 aprile scorso, ha rischiato sul serio di far da detonatore. C’è stata, infatti, una quasi-collisione tra una nave cinese e una filippina, zeppa di cronisti, il che ha fatto subito pensare ad una sorta di ‘sceneggiata’ organizzata proprio dalle autorità filippine. La Casa Bianca ha subito sottolineato che “un attacco armato nel Pacifico, che include il Mar Cinese Meridionale, contro forze armate filippine, navi pubbliche o aerei, compresi quelli della Guardia costiera, invocherebbe gli impegni di difesa reciproca degli Stati Uniti ai sensi dell’articolo IV del Trattato di mutua difesa Usa-Filippine del 1951”.
Dettaglia ancora DeCamp: “La visita di Marcos a Washington arriva dopo che Washington e Manila hanno firmato un accordo per espandere la presenza militare statunitense nelle Filippine, dando alle forze Usa l’accesso ad altre quattro basi. Biden e Marcos hanno concordato di compiere altri passi per rafforzare l’alleanza militare. Secondo la Casa Bianca, gli Stati Uniti trasferiranno ulteriore equipaggiamento militare alle forze armate delle Filippine. E ha ancora affermato (la Casa Bianca, ndr) che i due paesi hanno anche adottato ‘Linee guida per la difesa bilaterale che istituzionalizzano priorità, meccanismi e processi bilaterali chiave per approfondire la cooperazione e l’interoperabilità dell’alleanza fra terra, mare, aria, spazio e cyberspazio’”.
Miliardi di dollari a go go per le spese militari, anche anti-Cina. Mentre i conti economici Usa affondano.
INTANTO IL FRONTE ANTI-USA CRESCE
Ma c’è un altro segnale negativo, e da non poco, rivelato da un reportage del ‘Washington Post’, secondo cui “documenti di intelligence trapelati mostrano che le nazioni chiave, comprese alcune delle più popolose al mondo, non vogliono più seguire le politiche del presidente Biden nei confronti di Russia e Cina”.
Altra bordata in vista delle primarie democratiche, inferta dal non poco autorevole (ma sempre vicino all’establishment) quotidiano a stelle e strisce.
Commenta il solito De Camp, infaticabile reporter del sito pacifista Usa ‘AntiWar’, che sta subendo pesanti attacchi e in questi giorni ha attivato una campagna per difendere la sua autonomia: “Il rapporto cita valutazioni dell’intelligence, presumibilmente trapelate da Jack Texeira, che mostrano il punto di vista di diversi paesi importanti tra cui India, Brasile, Pakistan ed Egitto. Alcuni dei documenti, ad esempio, descrivono in dettaglio le preoccupazioni dei funzionari pakistani, tra cui un promemoria diffuso da Hina Rabbani Khar, ministro per gli Affari esteri, in cui Kahr afferma che Islamabad ‘non può più cercare di mantener una via di mezzo tra Cina e Stati Uniti’: facendo capire che occorre favorire legami più forti con Pechino. I documenti trapelati includono informazioni sui piani del presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva di formare una coalizione di paesi neutrali in cerca di colloqui di pace tra Russia e Ucraina. Secondo il Post, le fughe di notizie mostrano che i funzionari del ministero degli Esteri russo sostengono il piano di Lula”.
Per capire ancor meglio la totale ebollizione del quadro politico internazionale, vi consigliamo di leggere un’ampia inchiesta firmata da Pepe Escobar, pubblicata da ‘The Cradle’ e intitolata ‘La de-dollarizzazione ingrana la quarta”. In basso trovare il link del testo originale, che potrete gustare attivando il traduttore automatico.
LINK
JACQUES ATTALI / UNA IMMENSA CRISI FINANZIARIA CI MINACCIA, E PRESTO. MA…
De-dollarization kicks into high gear
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Un commento su “USA IN CRAC / E’ RISCHIO ‘DEFAULT’ IL 1 GIUGNO. E JOE BIDEN RINFOCOLA LE GUERRE!”