Riprendiamo il discorso a sinistra. Per costruire una reale alternativa al regime di Destra che rischia di piantare radici in Italia, con tutti i rischi che ne derivano.
Un’alternativa che si dovrà per forza di cose basare su idee di giustizia sociale mai attuate da quanto è stato ucciso il Pci da cui è seguita la spaventosa deriva di sigle che nulla hanno mai avuto di sinistra, e neanche un briciolo di vago sapor progressista. L’inizio, quindi, dovrà nascere dalla fine di questo rottame-ectoplasma chiamato PD, dal quale dovrà uscire la parte migliore, la parte sana – pur minoritaria – che ancora ricorda il partito di Enrico Berlinguer e lo ha nel cuore, per unirsi con i 5 Stelle e tutti i movimenti ‘a sinistra’: ma soprattutto parlare con il popolo degli astensionisti, schifati di questi partiti da 416 bis.
A proposito, a breve pubblicheremo alcuni significativi stralci tratti da “La Proposta Comunista” firmata da Berlinguer quasi mezzo secolo fa, nel 1974, in preparazione del 14° congresso del Pci e all’epoca pubblicata da ‘Einaudi’. Non potete neanche immaginare quanti passaggi (soprattutto per quanto riguarda la questione ‘guerra’ e quindi la politica internazionale) siano di grande attualità, proprio oggi.
Di seguito pubblichiamo un intervento che ci ha inviato Gerardo Lisco, ex membro della segreteria provinciale del PD a Potenza, poi passato al Movimento 5 Stelle, oggi coordinatore del ‘Comitato Comunità Sviluppo Basilicata’, il cui scopo è di “favorire il dialogo tra M5S e pezzi di sinistra, di civismo, di ambientalismo”.
La destra-centro al Governo e i balbettii delle opposizioni
La Meloni Presidente del Consiglio a guida di una maggioranza di destra-centro fa esattamente ciò che ogni cittadino di buon senso e con un minimo di spirito critico si aspettava.
Questo è un Governo di destra conservatrice attento alle istanze economiche del capitalismo tanto nazionale quanto internazionale. E’ la perfetta sintesi delle istanze Conservatrici con quelle Liberali. Quali sono in sintesi i provvedimenti approvati o che si appresta ad approvare? Provo ad andare con ordine.
Pensioni – La riproposizione di 41 anni di contributi accompagnata da incentivi a restare al lavoro per chi ha comunque raggiunto i requisiti in sostanza da quota 102, a quota 103 fino a quota Everest. Le stime prevedono poche decine di migliaia di lavoratori disponibili ad andare in pensione, per cui gli effetti saranno ancora più limitati rispetto alla precedente quota 102 ossia 38 anni di contributi e 64 anni di età. La Legge Fornero continuerà ad essere vigente con il suo ‘scalone’ che imporrà alla stragrande maggioranza degli italiani di andare in pensione a non meno di 67 anni. In Italia si inizia a lavorare rispettivamente a 24 anni per gli uomini e a 26,2 anni per le donne. Rispetto agli altri Paesi UE gli italiani iniziano a lavorare, mediamente, quattro, cinque anni più tardi dei loro coetanei. Secondo l’Istat (dati dicembre 2021) nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni il tasso di disoccupazione è pari al 28,2%. Il che significa che dati i salari e considerato il sistema di calcolo della pensione dopo 41 anni di contributi la stragrande maggioranza degli italiani, anche senza la Legge Fornero, si vedrà costretta a lavorare per far fronte ai costi di un’esistenza che si prospetta piuttosto grama.
Questione salariale – Per far fronte ai salari fermi agli anni 90 il provvedimento allo studio del Governo è la progressiva riduzione di 5 punti percentuali del cuneo fiscale. Le risorse finanziarie recuperate per due terzi dovrebbero andare ai lavoratori, per un terzo alle imprese. In Italia, l’OCSE ha calcolato che l’incidenza percentuale sul costo del lavoro delle tasse personali sul reddito e dei contributi sociali a carico del lavoratore e delle imprese si attesta al 45,20%. Nei Paesi OCSE il cuneo fiscale si colloca tra le percentuali superiori al 50% di Belgio, Germania, Ungheria, Francia e quella inferiore al 19% di Messico e Corea del Sud. L’incidenza della percentuale del cuneo fiscale sta a significare quanto la politica di un governo è più o meno attenta all’uguaglianza sociale. Dalla comparazione dei dati si evince che negli Stati, dove l’incidenza del cuneo fiscale è più alta, c’è maggiore attenzione alla giustizia e alla eguaglianza sociale, negli Stati dove invece l’incidenza è più bassa si rinvia alle scelte individuali e quindi al mercato, ossia il cittadino acquista sul mercato, rispetto al proprio potere di spesa, quei diritti che dovrebbero essere garantiti dalla fiscalità generale. In sostanza la riduzione del cuneo fiscale si traduce non in un aumento dei salari ma in una partita di giro per cui il lavoratore il denaro che prende in più lo dovrà spendere per acquistare sul mercato sanità, istruzione, pensioni ecc.. Per le imprese il taglio del cuneo fiscale si traduce invece in una riduzione del costo del lavoro che rende competitivi i beni e servizi prodotti su mercati globali. La riduzione del cuneo fiscale non è altro che un incentivo alle solite politiche mercantilistiche attraverso un ulteriore taglio della spesa pubblica. Su questo punto tanto il PD quanto gli stessi sindacati, se non tacciono, concordano. Il primo perché con Prodi ha già operato con un taglio del cuneo fiscale, i secondi addirittura sostengono la proposta del governo chiedendo di negoziare sulla percentuale da attribuire ai lavoratori e alle imprese. Qualunque sia la percentuale a favore dei lavoratori a beneficiarne sarà soprattutto il mondo delle imprese. Questioni immigrati – Anche su questo punto le opposizioni balbettano. Il Governo con il Ministro degli interni ha dichiarato ‘guerra’ alle ONG. Le opposizioni, sostenute dai media, hanno reagito con le solite prese di posizioni e con l’umanitarismo di maniera, incapaci di affrontare la questione razionalmente e finendo con l’assecondare il modello liberal-capitalistico che vuole manodopera fluida e basso costo. I dati dicono che gli italiani emigrati sono 5,8 milioni, molti di più degli stranieri arrivati in Italia. L’Italia esporta capitale umano qualificato. I giovani italiani che emigrano sono in prevalenza laureati e diplomati espulsi da un sistema economico fondamentalmente conservatore che vede di buon occhio i giovani che lasciano l’Italia a fronte di immigrati dequalificati o con titoli di studio non spendibili sul mercato del lavoro. In sostanza, capitale umano a basso valore aggiunto utile per una economia che non punta sull’innovazione e su investimenti in settori di qualità e ad alta tecnologia ma sulla conservazione di un sistema fatto di clientele, di assistenzialismo e di una zona grigia dove si assicura la sopravvivenza attraverso l’evasione fiscale, contributiva, il mancato rispetto dei CCNL di settore. A differenza degli immigrati, con i nostri emigranti italiani oltre che capitale umano viene esportato anche capitale finanziario. E’ cosa nota, vi sono una serie di studi e ricerche che lo provano, che i nostri giovani quando emigrano portano denaro per poter affrontare la vita nei Paesi che li accolgono. Flussi di capitali che continuano anche dopo l’arrivo. Sono molte le famiglie che inviano denaro ai figli emigrati all’estero. Gli immigrati che arrivano in Italia a parte le braccia, e fossero solo quelle sarebbe già un fatto positivo, portano anche altro: prostituzione, mafia nigeriana e in generale criminalità. In sostanza se compariamo i due valori emigrati/immigrati non escludo che il dato è negativo per l’Italia. Per cui sarebbe opportuno che invece di parlare di questione immigrazione si iniziasse ad affrontare il problema in termini di migrazione. La questione migratoria ci pone la domanda su che modello economico e sociale vogliamo. In una battuta, se vogliamo una economia dinamica, innovativa ecc. non servono immigrati dequalificati da assistere, servono i nostri emigrati con titoli di studio e con formazione adeguata ai cambiamenti in corso.
Gli altri provvedimenti varati dal Governo sono il D.L. contro i Rave party, l’eliminazione degli ultimi vincoli anti covid, l’innalzamento del tetto del contante a 5000,00 €, le tasse rateizzate per gli evasori che decidono di pagare. Brevemente, in merito al provvedimento sui rave party molte prese di posizioni sono fondate sul nulla. Una di queste è che attraverso questa norma il governo intende limitare l’occupazione di fabbriche, scuole e università. Faccio sommessamente notare che il codice penale già prevede il reato di occupazione abusiva. La norma anti rave party è chiaramente ideologica e risponde all’istanza di sicurezza e protezione che viene da fasce ampie di cittadini. Certamente per coloro che abitano i quartieri bene delle grandi città la questione sicurezza e ordine pubblico non si pone, altra cosa è per coloro che abitano i quartieri meno abbienti delle grandi città. La norma anti rave party è diretta essenzialmente a quest’ultima categoria di persone. Le opposizioni invece di mettere in campo il solito armamentario avrebbero dovuto sfidare il governo sul tema della sicurezza e della tutela dei cittadini da fenomeni di criminalità organizzata e non, invece anche qui hanno rinunciato a sfidare il governo.
Per quanto riguarda tasse rateizzate e flat tax niente di nuovo. La questione della riduzione della pressione fiscale in funzione dell’idea che serve ‘più mercato’ appartiene anche ad una parte delle opposizioni. Far pagare tutti in modo giusto ed equo dovrebbe essere il punto sul quale sfidare la destra al Governo. Solo con un fisco equo e progressivo è possibile finanziare politiche sociali, per l’occupazione, per l’ambiente, ecc. ecc.
Per un attimo ha tenuto banco la proposta Gasparri di abrogare la L. 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Anche su questo punto la risposta non doveva essere il solito mantra sui medici obiettori di coscienza ma sfidare il Governo sulla mancata attuazione dell’art. 5 della L. 194/78. Chiedere l’applicazione di quanto riportato in questo articolo significa porre l’accento sul welfare state, sulle politiche di giustizia e di uguaglianza sociale, sulla lotta alla povertà e alla disuguaglianza. Riporto un passaggio dell’art. 5 della L.194/78: “di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Come si evince dal dettato ancor prima che questione di medici obiettori è questione di giustizia sociale. Non conosco studi sul tema ma in una realtà dove il numero dei poveri assoluti e relativi arriva a quasi un quarto della popolazione presumo che abortire sia diventato un modo per evitare di veder peggiorare le proprie condizioni economiche e sociali.
In conclusione, il governo di destra-centro si appresta a fare esattamente ciò che ha detto in campagna elettorale coniugando sul piano della cultura politica conservatorismo e liberalismo. Le opposizioni balbettano per ragioni diverse: il PD perché in fondo condivide molte delle scelte economiche che il Governo Meloni si appresta a fare per cui in attesa di celebrare il Congresso e decidere se vivere o morire preferisce utilizzare le solite sconclusionate parole d’ordine; il M5S balbetta difendendo alcuni provvedimenti bandiera cercando di tradurre il consenso politico in presenza sui territori per poter contendere al PD l’egemonia del campo, non certamente largo, ma quello progressista attento alle questioni sociali e ambientali. Di fronte al balbettio delle opposizioni la destra opera non solo sul piano delle politiche economiche ma anche sul piano della cultura politica provando, cosa non difficile visto il vuoto, di diventare egemone.
Gerardo Lisco
La Destra al Governo e la possibile opposizione.
Dai discorsi del Presidente Consiglio Giorgia Meloni, tenuti alla Camera e al Senato, si evince in modo chiaro il progetto politico e la visione di società della destra – centro al governo. La sintesi perfetta del profilo politico e del progetto che anima il governo egemonizzato da Fratelli d’Italia l’ ha fatta Conte quando lo ha definito non solo reazionario ma anche neoliberale e tecnocratico. Fratelli d’Italia è l’erede del Fascismo della RSI e del MSI – DN che , guidato da Giorgia Meloni, è diventato un partito conservatore e liberale. La vittoria alle recenti lezioni politiche è per Fratelli d’Italia il punto di arrivo di un processo politico iniziato con Alleanza Nazionale, passato attraverso le acque burrascose rappresentate dalla fusione con Forza Italia, per risorgere grazie al trio rappresentato dalla Meloni, La Russa e Crosetto. Per questa semplice ragione non c’è da meravigliarsi se troviamo tutti e tre in posti chiave alla guida Paese. Dicevo la Meloni arriva al Governo dopo un percorso che ha visto la progressiva adesione, di un ceto politico di origine fascista, alla cultura politica dei partiti liberali e conservatori ( nel Parlamento UE si presentano come il Gruppo dei “ Conservatori e dei Riformisti Europei” ) che in diversi Paesi dell’ex blocco sovietico sono la prima forza politica al governo del proprio Paese. Sulla scia di quanto hanno fatto i gruppi dirigenti di partiti politici come il polacco PiS, la Meloni ha scelto in campo internazionale l’Atlantismo ossia gli USA, si mostra critica quel tanto che basta verso l’UE, è conservatrice in materia di valori culturali ed è neoliberale in materia economica. Pensare pertanto che la Meloni sia arrivata al governo grazie alla benevolenza degli USA, i quali da oggi potranno contare su un alleato ancora più fedele, e ai buoni auspici dell’establishment economico e finanziario mediati da Draghi è legittimo. Come giustamente ha evidenziato nel suo intervento Conte, il Governo Meloni, è in piena continuità con l’Agenda Draghi Sarà questa continuità che garantirà alla Meloni, su temi scottanti come quelli economici e sociali, la non belligeranza sia da parte del PD che di Azione e Italia Viva. Draghi , da Presidente del Consiglio, ha piantato, sul piano delle politiche economiche e finanziarie, una serie di paletti che di fatto vincolano nei prossimi anni l’azione del governo da qui il disegno neoliberale, tecnocratico e reazionario presente nei discorsi tenuti alla Camera dei Deputati e al Senato dalla Meloni. Ha riproposto le solite politiche offertiste fondate su riduzione del carico fiscale, del cuneo fiscale, decontribuzione per chi assume, riduzione della pressione fiscale commisurata al fatturato per le imprese che pur investendo in innovazione tecnologia labor saving non riducono il personale occupato o addirittura ne assumono di nuovo. Come dimostra quanto verificatosi in questi anni nessuno dei provvedimenti sopra proposti varati in questi anni ha prodotto una crescita reale dell’occupazione. Ad essere cresciute, con i provvedimenti sopra elencanti, sono state: povertà, precarietà e disuguaglianza. Pensare che queste come altre proposte tipo il Sud hub energetico dell’Europa e l’aumento dell’estrazione del gas siano in grado di favorire la ripresa economica, una maggiore occupazione ponendo un freno un freno all’esodo dei giovani dal Sud verso il Nord e l’estero provano che il neonato governo di destra – centro non va oltre la difesa degli interessi dell’establishment economico e finanziario nazionale. La proposte del Presidente del Consiglio Meloni e del suo Governo, a parte la passione oratoria, sul piano dei contenuti, ha riportato indietro di diversi decenni l’orologio della Storia. Le proposte di politica economica e sociale avanzate non è da escludere che possano trovare sponda tanto nel PD quanto nel “Terzo Polo”. Oltre che sulle questioni economiche sia il varo del regionalismo differenziato che il semipresidenzialismo potrebbero attecchire tanto nel PD quanto nel “Terzo polo”. Da quanto detto dalla Meloni evinco che l’idea sia quella di attribuire allo Stato centrale competenze esclusive e rafforzate in materia di ordine pubblico, difesa, energia, grandi opere infrastrutturali, ambiente, digitale; alle Regioni tutto il resto. Il presidenzialismo bilanciato dal regionalismo differenziato con l’elezione di Draghi a Presidente della Repubblica è il punto di mediazione che vedrebbe concordi tanto il PD quanto il Terzo Polo. Un tale possibile scenario è necessario per consentire al Governo Meloni la realizzazione delle politiche economiche delle quali ha parlato in questi giorni. La necessità di mettere in campo una opposizione adeguata e la sfida politica. Con questo obiettivo il 22 ottobre u.s., a Roma, su iniziativa di Fassina, De Petris, Pecoraro Scanio, Cento ed altri è stato presentato il Coordinamento 2050. All’assemblea hanno partecipato intellettuali e semplici militanti di quel “ Popolo” di sinistra alla ricerca di una “Patria”. Tra i partecipanti Domenico De Masi, Antonio Floridia, Moni Ovadia, Onofrio Romano , Paolo Borioni ne cito solo alcuni scusandomi con tutti gli altri presenti. All’Assemblea è intervenuto il Presidente del M5S On. Giuseppe Conte. All’insegna di “Sinistra è chi sinistra fa” Fassina, pur richiamando la gloriosa storia della sinistra, ha invitato tutti a mollare gli ormeggi per veleggiare verso la ricostruzione della sinistra che ha come obiettivo non la formazione di un nuovo partito ma, attraverso la collaborazione con il M5S, la costruzione un’area progressista capace di contrapporsi ad una destra neoliberale, tecnocratica e reazionaria. Nel suo intervento il prof. De Masi ha evidenziato come bisogna che il M5S in modo chiaro e netto definisca la sua identità politica. Sempre per De Masi a un governo chiaramente di destra neoliberale e reazionaria deve opporsi una forza politica socialdemocratica capace di rappresentare le fasce sociali subalterne rappresentate dai milioni di italiani che pagano sulla propria pelle politiche antisociali. Lavoro, riduzione dell’orario di lavoro, un piano di assunzioni nella P.A, Reddito di Cittadinanza, Salario minimo legale, riduzione dei costi energetici per le famiglie, transizione ecologica, digitalizzazione, azione diplomatica dell’Italia a favore della pace, sono alcuni dei punti di una piattaforma alternativa ad anni di politiche neoliberali riproposte in modo acritico dal nuovo Governo di destra – centro. A conclusione dei lavori l’Assemblea ha approvato un documento che prevede la realizzazione, su tutto il territorio nazionale, di coordinamenti locali di percorsi civici, ecologisti e di sinistra con il coinvolgimento di rappresentanti del M5S. Il Coordinamento 2050, in conclusione si presenta, come punto di partenza per una reale e concreta opposizione al governo di destra – centro guidato dalla Meloni a maggior ragione dopo gli interventi degli esponenti del PD, Azione e Italia Viva.
Drammatici risultati per la ‘sinistra’ al voto del 25 settembre.
Un PD che esce con le ossa rotte, facendo segnare una sconfitta epocale. Letta non si dimette subito e vuol traghettare al Congresso, che c’è da augurarsi possa svolgersi nel più breve tempo possibile. Intanto fanno capolino le prime autocandidature per la futura segreteria e già circolano i soliti nomi della nomenklatura che ha portato allo sfascio (tranne la novità Elly Schlein) o i soliti ‘uomini’ dei ‘Territori’ (perfino il renziano sindaco di Firenze Nardella).
Per fortuna i 5 Stelle risorgono dalle previsioni catastrofiche in cui i media di regime li avevano sprofondati. Ora come ora, rappresentano l’unica anima realmente progressista in campo, per arginare la marea nera.
In attesa, appunto, di un altro PD, totalmente cambiato: nella sostanza, nei programmi, nelle facce e auguriamoci anche nel nome.
Da oggi apriamo un dibattito, intendiamo ospitare una serie di contributi, di opinioni, di pareri per cercare l’identità di una nuova sinistra. Che non può essersi volatilizzata: c’è, esiste, è nei fatti, nella realtà, nelle cose. Va riscoperta, resa di nuovo possibile, va organizzata. Cerchiamo, insieme, di capire come.
Di seguito due primi interventi.
Il primo, tratto da ‘Nuova Atlantide’ è firmato da Gian Franco Ferraris e s’intitola “Il suicidio del PD e il futuro nero dell’Italia”.
Il secondo, tratto da ‘terzogiornale’, firmato da Michele Mezza, s’intitola “Una sinistra difficile da farsi”.
Buona lettura e vi sollecitiamo ad inviarci contributi e riflessioni al nostro indirizzo mail lavocedellevoci@gmail.com
Il suicidio del Pd e il futuro nero dell’Italia
Al disastro elettorale del Pd corrisponde uno stato di totale confusione mentale, una vera follia che ha colpito tutti i dirigenti e i militanti sui social: ieri, all’unisono, tutti erano preoccupati per il carattere eversivo della destra e del rischio che corre la Carta costituzionale democratica e d’altra parte tutti, proprio tutti avevano alzato un muro contro i 5 stelle e si sono presentati accompagnati dal solo Di Maio alle elezioni. E’ matematico che con una legge elettorale truffa (fatta dal Pd al tempo di Renzi) che premia le coalizioni, se al Pd non andava bene l’alleanza con Conte significa che si apriva una autostrada, “un campo largo”, al governo della Meloni. Adesso sostengono che il pericolo è quello della destra, del fascismo?
La destra con il 44% non avrebbe certo vinto, anzi stravinto, le elezioni se il Pd avesse fatto una alleanza elettorale con il Movimento 5 Stelle. Letta si è presentato insieme a Fratoianni e Bonelli, che hanno sempre votato contro il governo e sulle scelte sulla guerra. Incomprensibile. Anche la motivazione addotta, cioè che i 5 Stelle hanno fatto cadere il governo Draghi, è una fandonia (come ha spiegato Conte, il decreto non approvato dai 5 Stelle era evidentemente una provocazione). Il Pd avrebbe pareggiato e forse vinto le elezioni, perché l’elettorato di Conte e quello del Pd sono non solo compatibili ma addirittura complementari; il M5S è radicato soprattutto al sud e il Pd nelle città, fatto che avrebbe consentito di vincere la maggior parte dei collegi uninominali.
Nella giornata di ieri i capi corrente del Pd si sono detti d’accordo nell’anticipare il congresso. I nomi dei candidati alla sostituzione di Letta si rincorrono da mesi: il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, il sindaco di Bari Antonio De Caro, il vicesegretario Peppe Provenzano, la new entry Elly Schlein (non tesserata).
Bonaccini, da tanti indicato come il favorito, già ieri tentava di togliersi di dosso il volto dell’ex renziano e indossava la maschera del leader che sostiene la necessità di ricostruire anche con il Movimento di Conte.
L’unità del partito faticosamente e fragilmente raggiunta con la segreteria di Enrico Letta (che è il più idoneo del Pd a fare il segretario ed era stato richiamato in modo accorato dall’esilio dignitoso a Parigi – dopo la coltellata di Renzi), al tempo della rielezione di Mattarella e delle amministrative di primavera, rischia di trasformarsi molto presto nell’ennesimo “tutti contro tutti”.
Questa volta, tuttavia, non basterà cambiare un altro segretario, questa volta il Pd rischia di sparire.
Il Pd è un partito malato dalle radici. Il Pd a un passaggio cruciale: o riflette su se stesso e cerca di capire quali sono stati gli errori compiuti in questo decennio, oppure rischierà di scomparire. Questa volta non basterà cambiare un altro segretario.
Nei 14 anni di vita del Pd sono cambiati ben 10 segretari, alcuni sono scappati senza neanche una riunione (Veltroni, Zingaretti), Bersani ancora poco dopo il tradimento dei gruppi parlamentari sulla elezione del Presidente della Repubblica che ha condotto inopinatamente al Napoletano bis, ha salvato la pelle per un pelo. Il Pd era malato dapprima dell’avvento di Renzi, che è solo stato il frutto di un albero malato. No, non basterà cambiare segretario.
A fronte del cambiamento continuo di segretari c’è stato un andamento elettorale penoso:
PD 2008: 12.095.306 voti
PD 2013: 8.646.034 voti
PD 2018: 6.161.896 voti
PD 2022: 5.282.444 voti.
Non solo, in queste elezioni il Pd ha potuto contare sull’appoggio di tutte le principali testate giornalistiche (che hanno attaccato Conte in modo indecente) e sulla benevolenza della Tv di Stato – Ahimè!
Ricordo infine che tutti coloro che si sono alleati negli anni con il Pd sono morti: Psi, Alleanza democratica, Di Pietro, Sel, Articolo Uno. E ogni volta il Pd è sopravvissuto sempre più malconcio. Come se il Pd guidasse un’automobile in modo scellerato e gli altri seduti di fianco o sul sedile posteriore, picchiando contro un muro, ci lasciano la pelle mentre l’autista sopravvive con la testa sempre più malata. Quindi, sia Conte che Calenda forse sono scappati (al di là degli episodi) per istinto di sopravvivenza.
L’antipatia che suscitano i leader e i militanti del Pd andrebbe studiata in modo approfondito: scontentano l’elettorato di sinistra ma sono ritenuti “comunisti” da Calenda e da quelli di destra. Un mistero e se si legge lo statuto del Pd non c’è alcun riferimento alla sinistra e neanche all’uguaglianza tra gli uomini, il principale principio fondante della sinistra. Un incubo della società italiana attuale.
Per gli italiani il presente e il futuro sono a tinte fosche, hanno votato (26%) la Meloni, ma porteranno quella croce sulle spalle, non tanto per un ritorno al fascismo (la democrazia corre un rischio ancora maggiore con il pensiero unico Mainstream), ma per le ricette della loro politica: meno tasse e maggiori spese, come se lo Stato avesse risorse illimitate, autonomia differenziata delle Regioni. Se applicheranno le loro proposte sarà un disastro, non solo per le fasce popolari ma per tutta l’Italia.
L’unica novità di queste elezioni è stato il risultato del 15% del Movimento 5 Stelle con cui si è rigenerato su posizioni, candidati e un programma elettorale genericamente progressisti e una agenda sociale rispettabile. Il Pd si trova in un paesaggio politico mutato, nel proprio campo si trova non cespugli ma una forza politica consistente. Conte gode dal tempo del governo di buona popolarità, solo un poco appannata dopo attacchi di una violenza inaudita e subdola dei mass media, inoltre ha superato gli assalti di Di Battista e Casaleggio, l’ingombrante presenza di Grillo e le insidie quotidiane di Di Maio che evidentemente marcia a braccetto con Draghi ed esponenti del Pd, non si spiegherebbe altrimenti la sua fuoriuscita sul voto di fiducia a Draghi e l’alleanza dissennata con il Pd alle elezioni. Conte è stato un camaleonte, ha cambiato pelle: dal Conte 1, al Conte 2, alla campagna elettorale, ma ha dimostrato una tempra singolare e ha sempre mantenuto i nervi saldi e l’educazione. Questa è una flebile speranza, basta? No di certo.
Oggi il compito principale di un’azione politica che voglia essere qualcosa di più e di meglio che un impadronirsi del potere per soddisfare interessi personali e di gruppo, di ‘lobbies’, come si dice, più o meno lecite, è quello di interpretare i nuovi bisogni e i nuovi diritti, specie di coloro che le nostre società affluenti tendono a trascurare. La speranza che nuove generazioni di giovani intraprendano una nuova strada e condividano i valori essenziali della sinistra a partire dall’uguaglianza degli uomini e di difesa delle istituzioni democratiche. Il cammino sarà lungo, lunghissimo e irto di difficoltà nell’Italia attuale Ma per costruire qualcosa di buono l’unico modo è quello di mettersi coraggiosamente per strada, e di non lasciarsi frenare dagli ostacoli frapposti degli interessi costituiti.
Una sinistra difficile a farsi
Da Stoccolma a Roma, una cortina reazionaria sta calando sull’Europa. Si potrebbe parafrasare il celeberrimo ammonimento di Churchill sulla cortina di ferro per dare un contesto più organico e completo alla vittoria della destra in Italia. Quanto è accaduto domenica, infatti, non è l’effetto di insipienze e pasticci di dirigenti incapaci o inadeguati; tanto meno l’effetto di prodigiose campagne elettorali. Certo, è anche questo – ma, come sempre in politica, la soggettività segue l’oggettività, e la fragilità dei vertici è la proiezione di ambiguità ed eclettismi della base sociale. Se continuiamo ad avere questo atteggiamento tipicamente conservatore, per cui la politica la fanno i leader, questo è già un modo per ratificare la vittoria dei postfascisti. Dobbiamo essere di sinistra proprio nella fase dell’analisi e della lettura delle dinamiche sociali; altrimenti, come diceva Albert Einstein, “se continuiamo a fare le stesse cose, accadrà quello che è sempre accaduto”.
In un magnifico film di Luigi Magni, In nome del Papa re, un grande Manfredi che interpreta un abate di curia, parlando con un cardinale alla vigilia di Porta Pia, gli dice: “Eminenza, qui non è che finisce tutto perché arrivano i piemontesi, qui arrivano i piemontesi perché è finito tutto”. Cerchiamo allora di capire cosa e dove sia finito tutto prima dell’arrivo dei barbari.
Lo spostamento consistente e diffuso dell’elettorato italiano a destra è un processo che viene da lontano, e soprattutto ha una dimensione globale. Se proprio vogliamo dare un giudizio sintetico circa quanto è accaduto, potremmo dire che in Italia è cambiato poco dal 2018: i voti, che già videro una prevalenza delle componenti più populiste, si sono concentrati verso un’area più strutturalmente reazionaria, ma il campo della sinistra è rimasto sostanzialmente quello, dopo le mille contorsioni di questo quadriennio, in cui pandemia, guerra e recessione economica sembrano essere passate come acqua su vetro. In realtà, è cambiato il mix di interessi e di composizione sociale del voto di destra, così come lo è stato in Europa. La novità è la scelta vandeana della tranquilla imprenditorialità lombarda e veneta, ma anche questo è un dato tutto europeo.
Le elezioni – sia nella Francia del dualismo fra Macron e Le Pen, sia in Germania, dove alla debolezza del partito di governo di Angela Merkel non ha corrisposto un’avanzata della sinistra socialdemocratica, e ancora in Inghilterra, con il coriaceo radicamento di un governo apertamente classista, o nella radiosa Svezia del welfare, dove la socialdemocrazia si vede accantonata da una forza chiaramente radicalizzata a destra – ci dicono che il tramonto, ormai irreversibile, del vecchio patto fra capitale e lavoro ha lasciato un cratere che la sinistra non riesce a colmare.
Questa è la matrice della sconfitta, non i balbettii di Letta o l’amalgama non riuscito del Pd. Siamo nel gorgo di una riclassificazione degli interessi di classe, in base alla collocazione di ceti e individui nei processi produttivi, che non hanno più niente a che fare con il lavoro come lo ricordiamo.
È davvero singolare che nessuno rammenti che Mirafiori, ancora dodici anni fa, era abitata da cinquantamila lavoratori, e oggi sono meno di ottomila; oppure che nel collegio di Sesto San Giovanni, nell’ex cintura operaia milanese, dove la figlia del fondatore di Ordine nuovo, Pino Rauti, ha battuto il figlio del deportato Fiano, al posto di trentamila lavoratori, occupati in cinque fabbriche, ci sono trentamila persone che lavorano in aziende che, al massimo, hanno un numero di dipendenti non superiore a tre.
Mentre ci si diletta con il folclore delle battute di Berlusconi su Tik Tok, ignoriamo che trentotto milioni di italiani quotidianamente affidano le proprie relazioni e linguaggi agli arbitrati di un algoritmo, che non è né di destra né di sinistra, ma sicuramente neanche neutro. È in questo intreccio fra social e mutazione genetica del lavoro che la sinistra si è dissolta – come dice Aldo Bonomi.
Insomma, abbiamo subito una sconfitta marxista, legata ai rapporti di produzione, a un cambio di mulino, avrebbe detto il grande vecchio di Treviri, e non alla psicologia di qualche candidato fragile. Una sconfitta che inizia nel 1989, quando con il Muro di Berlino crolla ogni possibile narrazione di una sinistra che ha voluto, o potuto, al massimo cambiare indirizzo e nominativo, ma certo non cultura, radicamento e identità. Siamo rimasti quelli delle feste dell’“Unità”, con il macabro paradosso di celebrarle senza “l’Unità”. E nel frattempo si automatizzava la vita, la produzione diventava un algoritmo, il consumo una profilazione, la politica un social.
Socialisti e comunisti si disperdevano, e poi sparivano ovunque nel mondo; e in Italia, come al solito, abbiamo pensato di essere più furbi di tutti, avendo anticipato il colpo, con il sotterfugio di cambiare il nome del Pci prima degli altri per non pagare dazio. Eppure avevamo pagato già duramente: prima nel ’94, con la discesa in campo di Berlusconi, e poi, successivamente con mille rimaneggiamenti e annacquamenti, fino a portarci in casa la mutazione genetica con la segreteria Renzi, che tagliò il cordone ombelicale con gli esecutori testamentari del Pci, ma senza che il nuovo potesse sostituire il vecchio che moriva – per tornare a Gramsci.
Ogni volta, avevamo l’alibi dell’emergenza per coprire il buco della rappresentanza sociale, con una pensata geniale per le elezioni: prima Prodi, poi il pragmatismo di Fassino, seguito dal famoso I care di Veltroni; successivamente, il tatticismo di Franceschini, quindi il velleitarismo di Bersani e l’ombra di D’Alema, che ne sapeva sempre una più del diavolo. Il partito si squagliava, e la sua evanescenza veniva coperta imbarcando avventurieri, questuanti, cacicchi e governatori. Le città diventavano musei della memoria, dove la sinistra si basava su anziani percettori di spesa pubblica, assediati da plebi delle periferie che cercavano – come diceva dei totalitarismi Hannah Arendt – di giocarsi un ruolo nella storia, anche a costo della propria distruzione.
La Lega rubò i secondi e i penultimi alla sinistra, che si illudeva di reggere con l’alleanza illuminista fra i primi e gli ultimi. Poi vennero i reazionari di massa, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, dove élite speculative si basavano sul consenso di moltitudini di emarginati, in cui ognuno era povero a modo suo.
In questo scenario – che caratterizza l’Occidente, da Trump alla Brexit –, in cui i ceti disagiati pensano e votano da ricchi rancorosi contro i privilegi delle élite liberal, attraversiamo le tempeste della pandemia e della guerra rinserrati nei nostri centri storici. La destra tesse una nuova trama di sovversione sociale, connettendo “no tax” a “no vax”, e indicando nella ipocrita democrazia occidentale il nemico di classe.
È la borghesia imprenditoriale, che apre la strada all’eversione di massa: la mascherina diventa, come il reddito di cittadinanza, l’emblema di un assistenzialismo parassitario. Qui sia la chiave di volta del ciclone Meloni: una solida alleanza sociale che combina l’antistatalismo predatorio della piccola e media azienda con l’assistenzialismo senza leggi dei ceti più periferici. Il lavoro non parla in questo gorgo, e, quando parla, riflette le ambiguità di essere parte di questa alleanza in componenti non limitate, come dimostra l’ambiguità della Cgil sui vaccini. Illuminante è una riflessione di Franco De Felice, alla fine degli anni Ottanta, quando coglie il formarsi di schieramenti sociali ibridi, attraversati da venature parassitarie e corporative di cui le aree operaie sono parte: “Il modo di procedere della crisi del welfare in Italia sembra risolversi nella definizione di due grandi schieramenti. Il primo comprende settori più colpiti dalla riorganizzazione e conversione industriale, ed anche quelle fasce sociali, o parti di esse, che hanno svolto un ruolo importante nella creazione di quel sistema di garanzie del reddito che tendono a difendere: uno strano intreccio tra sezioni del movimento operaio, settori produttivi maturi o tradizionali ed ampi strati burocratici o professionali, che hanno nei grandi apparati gestori della politica sociale le proprie radici. Un secondo schieramento annovera i settori più dinamici del capitalismo (soprattutto la piccola e media impresa) ed ampi strati sociali non tutelati, o vivacemente critici delle forme in cui le politiche sociali hanno trovato attuazione: un altro intreccio, non meno strano e singolare, ma non inedito nella storia italiana, fra liberismo privatistico e antistatalismo popolare-democratico. Si fa più chiaro che la crisi del welfare è un fattore di accelerazione di quella dello Stato-nazione” (Franco De Felice, La nazione italiana come questione. Dimensione e problemi della ricerca storica, 1993).
Una citazione lunga, ma che fotografa proprio il momento del big bang. Siamo appunto qualche anno dopo il fatidico ’89, in cui la classe operaia perde il suo ruolo di movimento complessivo politico scomponendosi in ceti rivendicativi e neocorporativi: la politica diventa una gilda, in cui ognuno cerca un proprio sindacalista che tuteli l’interesse momentaneo. Ogni elezione diventa, dunque, il confronto fra queste neocorporazioni che danno e ritirano la delega ai brand politici. La cosiddetta volubilità elettorale è l’effetto di questa dinamica di sindacalizzazione della politica.
In quest’ottica, la sequenza delle giravolte degli elettori, in questi anni, diventa più decifrabile e meno eccentrica. La massa dei lavoratori senza più missione diventa la base sociale di una vandea antistatalista, preda dei ceti più intraprendenti che, a cavallo della spesa pubblica, estraggono rendite dai nuovi servizi, decentrando la produzione prima al Terzo mondo, poi all’automatizzazione. A chi si parla nel deserto di Mirafiori, come si organizza il formicaio di Sesto San Giovanni? A queste domande non si risponde perché nessuno le formula. Si esorcizza la propria irrilevanza sociale con la visibilità, oppure il dinamismo digitale, sostituendo la rappresentanza con i click. Il partito è solo retrovia degli eletti, e il territorio lascia ai linguaggi emotivi della rete il compito di alfabetizzare chi vuole essere in prima linea.
Salvini coglie questa mutazione – e sposta il leghismo dall’eccezione regionale alla dimensione nazionale: una federazione di rendite per privatizzare lo Stato. È il modello della sanità lombarda, che miete migliaia di vittime nella pandemia, ma che nessuno denuncia come crimine contro l’umanità. Anzi, viene oggi declamato con la candidatura di Moratti al vertice della regione caldeggiata da Meloni. L’infatuazione per la Lega nazionale dura poco. In qualche mese si passa dal 30 % delle europee al precipizio dell’8%.
Nel Sud, il trasformismo ex Dc, che aveva puntato su Salvini, si trasferisce in parte sulla carovana postfascista, ma il nodo riguarda il Nord: perché il tappeto di imprese lombardo-venete, connesse all’indotto tedesco, che pure registrano fatturati stratosferici nei mesi successivi alla prima ondata pandemica, butta a mare Draghi per la Meloni? Questo è il quesito che dà nerbo alle elezioni: perché quel capitalismo molecolare, che aveva trovato un equilibrio, entra in agitazione e segue l’ondata sovranista? Siamo dinanzi a una nuova marca di capitalismo locale, opposto alla globalizzazione finanziaria internazionale, che vuole protezione e sostegno per sganciarsi anche dalla servitù tedesca. Il sogno è tramite le nuove tecno-strutture e una logistica concorrenziale, pronte addirittura ad affiancarsi se non a sostituire la locomotiva tedesca. Le banche del marco sono il nemico, non più il gigante da arruffianarsi con l’imitazione del modello bavarese. In questa svolta, c’è molto della svolta reazionaria: si immagina un modello olandese di spesa pubblica senza Stato, di sostegno senza programmazione, di innovazione senza socializzazione. E soprattutto senza fisco e sindacato. Siamo a un capitalismo estrattivo – come scriveva Mariana Mazzucato nel suo ultimo saggio Il valore di tutto (edito da Laterza).
Tre sono le strade per contrapporsi alla deriva olandese: il sindacalismo neocorporativo, quello che i grillini hanno inaugurato, quasi a loro insaputa, con i micro-contratti per il reddito di cittadinanza al Sud, in cui si cerca un capitalismo compassionevole che dia mance alle aree marginali di lavoro nero; la rincorsa di Calenda a un inesistente ceto medio riflessivo, che eredita parte del voto liberal del Pd, ma non morde la base sociale moderata, che ormai si è radicalizzata strutturalmente; infine la ricostruzione di una sinistra del conflitto cognitivo, che ridisegni la sua base sociale nei processi di assemblamento del capitalismo tecnologico, ritrovando negoziato e mediazione politica nell’organizzazione dei processi di contesa della titolarità dei saperi e delle tecnologie di relazione sociale. Stiamo parlando di un partito che si combini nelle università con i patti territoriali, nei distretti con le reti della logistica produttiva, nelle città con la competizione diretta con le metropoli europee. Un partito che assuma la questione sanitaria come base di un’idea di diritti universali e di scienza condivisa. Un partito che, sulla base di una capacità di conflitto e contrasto, possa poi anche estendere la sua tutela ai ceti marginali e periferici, integrando i reparti del lavoro in alleanze territoriali per uno sviluppo trasparente e programmato. Certo, un partito difficile, articolato, organizzato sui processi di partecipazione alle decisioni e non alle consultazioni. Un partito che produca e sostituisca costantemente i propri dirigenti, ogni volta che viene raggiunto un obiettivo.
Il congresso che Letta ha appena lanciato, cercando di renderlo precotto nei tempi lunghi, per un atterraggio morbido del suo contrattato successore, andrebbe convocato subito e tenuto permanentemente aperto: un congresso che sia un forum di accesso e partecipazione alle decisioni di un apparato sempre più spalmato sul territorio. Una vera costituente dei saperi e dei mestieri autonomi e trasparenti. Un congresso dei Grundrisse e non più della memoria del Capitale. Una follia – dirà qualcuno –, ma di quante cose apparentemente concrete e funzionali siamo stati vittima? Il comunismo, secondo Brecht, è quella cosa facile a dirsi ma difficile a farsi. Anche il riformismo lo è.
PREPARARE L’ORDINE NUOVO
di Andrea Zhok
Rompere il blocco euroatlantico, il socialismo torni ad essere un alternativa
La Rete dei Comunisti nelle prossime settimane promuoverà incontri e dibattiti pubblici in varie città per confrontarsi sulle alternative possibili e necessari al piano inclinato sul quale le classi dominanti stanno trascinando il mondo e il nostro paese.
Inevitabile che ogni cambiamento passi attraversi delle rotture del quadro esistente, a cominciare dalla gabbia euroatlantica in cui le classi dirigenti in Italia e in Europa vincolano e subordinano ogni ipotesi alternativa di un futuro diverso per le priorità sociali, politiche, economiche e la collocazione internazionale del paese.
Ma se si parla del futuro possibile e necessario, è tempo di rimettere in campo una soggettività comunista e il Socialismo del XXI Secolo come scenario alternativo a quello esistente, e inquietante.
Qui di seguito pubblichiamo il documento che presenta e accompagna la riflessione alla base della campagna di assemblee pubbliche nelle varie città.
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Rompere la gabbia euroatlantica
Mentre i suoi aguzzini lo condannavano nel tribunale speciale Antonio Gramsci dichiarò con coraggio e lungimiranza: “Il fascismo porterà il paese alla rovina, spetterà ai comunisti ricostruirlo”.
Nel momento peggiore, uno dei più lucidi dirigenti comunisti non lanciava solo la sfida ai suoi nemici che in quel momento disponevano delle chiavi della sua cella, ma indicava il ruolo generale dei comunisti nella ricostruzione di un paese e della sua società in rottura e alternativa al quadro esistente. Il ruolo dei comunisti nella Resistenza, nella ricostruzione del dopoguerra e nella stagione dell’antagonismo di classe degli anni Settanta li hanno visti all’altezza della situazione.
Le conseguenze della restaurazione capitalista a livello mondiale, la controrivoluzione globale, la dissoluzione delle esperienze statuali socialiste, venti anni dell’egemonia globale del capitalismo, hanno riportato all’indietro la ruota della storia, fino a quando la storia si è rimessa in marcia riproponendo e accentuando tutte le contraddizioni irrisolte e i limiti del Modo di Produzione Capitalista.
I punti di caduta dell’intero sistema dominante hanno visto intrecciarsi sia la crisi irrisolta dell’economia capitalista dagli anni Settanta a oggi, sia la rottura della mondializzazione realizzata negli ultimi trenta anni come tentativo di fuoriuscita dalla crisi del Modo di Produzione Capitalista. La tendenza alla guerra come scenario terminale della crisi è tornata ad essere una possibilità reale a ottanta anni dalla Seconda Guerra Mondiale.
Siamo dentro un salto di fase storica, una rottura della storia che richiede una conseguente analisi della nuova realtà e una assunzione di responsabilità soggettiva da parte dei comunisti, anche in un paese integrato nella catena imperialista occidentale come l’Italia.
Nei paesi a capitalismo avanzato dell’Occidente – e tra questi l’Italia – sono ben visibili recessione economica e sociale, ricorso alla guerra, infarto ecologico, perdita di credibilità come classi dirigenti e modelli dominanti, che stanno rimettendo in discussione la realtà che abbiamo conosciuto negli ultimi trenta anni.
Dal 1992 gran parte della società italiana ha pagato il prezzo dell’aspetto economico del “vincolo esterno” sancito dall’adesione al Trattato di Maastricht e poi dai trattati europei successivi e sempre più vincolanti. In pratica, in nome dell’unificazione europea, i gruppi capitalisti più forti hanno consapevolmente scatenato “una guerra all’interno” contro le classi popolari e i settori più deboli dello stesso capitalismo italiano.
Con la guerra in corso in Ucraina adesso la società italiana sta pagando anche il prezzo dell’aspetto politico e militare del “vincolo esterno” rappresentato dall’adesione alla Nato e la subalternità agli USA, scatenando “una guerra all’esterno”, per ora contro la Russia ma di cui la prima sperimentazione è stata la guerra in Jugoslavia.
Incalzati dalla crisi economica, dalla frammentazione del mercato mondiale e dai rischi di guerra, questi due aspetti del “vincolo esterno” sono stati costretti a sincronizzarsi nel Blocco Euroatlantico e i fronti della guerra all’interno e della guerra all’esterno si sono unificati. Le conseguenze sul nostro paese le stiamo vedendo ormai chiaramente: odioso aumento delle disuguaglianze sociali, economia di guerra, militarismo, liquidazione della democrazia rappresentativa, devastazione ambientale, regressione civile e ideologica.
In sostanza l’avventurismo delle classi dirigenti sta riportando il paese alla rovina. Diventa dunque necessario impedirglielo rimettendo in campo una alternativa complessiva di sistema, quella che noi definiamo come socialismo.
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La regressione sociale complessiva del nostro paese è sotto gli occhi di tutti. Parlano i fattori economici e sociali, parla l’arretramento sul piano civile e politico, parla la durezza di uno scontro ideologico – che si voleva ormai neutralizzato- tra modelli e visioni antagoniste della società, parla infine il rischio di coinvolgimento diretto in una guerra in Europa di grandi dimensioni.
Le reazioni al declino e alla regressione del paese si manifestano in mille modi diversi, ma in esse stenta ancora ad affermarsi una prospettiva alternativa a tutto campo, quella che noi rivendichiamo e intendiamo come il Socialismo del XXI Secolo.
Su questa difficoltà pesa la natura del capitalismo italiano, la mancanza di esperienze rivoluzionarie significative nella storia del paese, la disgregazione sociale e ideologica delle classi subalterne.
L’Italia è un paese capitalista avanzato ma con troppe asimmetrie sia qualitative che territoriali. La piccola dimensione della maggioranza dell’apparato produttivo e lo sviluppo disuguale tra Nord e Sud, da un lato lo rendono una economia capitalista avanzata ma subalterna, dall’altra alimentano ambizioni verso paesi più deboli (vedi le delocalizzazioni produttive all’est o le pretese di potenza nel Mediterraneo).
L’illusione che la modernizzazione capitalista trovasse la risposta nell’integrazione europea dell’Italia e che le ambizioni da media potenza regionale potessero trovare spazio nella collocazione atlantica, hanno alimentato l’egemonia borghese sulla società ma stanno innescando anche brusche disillusioni.
Nell’articolata struttura del capitalismo italiano, da almeno trenta anni è in corso uno scontro che non farà prigionieri. Di questo scontro uno dei fattori decisivo è il ricorso e l’imposizione del “vincolo esterno”.
E’ uno scontro tra i settori del capitalismo che si reggono solo sul mercato interno (fatto di consumi, salari, rendite spesso parassitarie) e i settori più internazionalizzati e integrati a livello europeo e multinazionale, quindi proiettati più sul mercato mondiale che su quello interno.
Questo scontro è stato ben delineato da Draghi quando ha decretato che le “imprese zombie” (troppo piccole, troppo indebitate, troppo limitate) devono morire per fare posto ai gruppi più forti, a concentrazioni, fusioni, chiusure per mettere il capitalismo italiano all’altezza della competizione globale, almeno nel contesto europeo. Dunque il blocco di interessi del capitalismo italiano più internazionalizzato ed europeo non avrà pietà né dei lavoratori ma neanche dei propri simili meno attrezzati.
L’Italia nel Blocco Euroatlantico, per le sue asimmetrie interne del capitalismo e per le contraddizioni che ne derivano, è un potenziale “anello debole” della catena imperialista dell’Occidente.
Non è il solo e non è il più debole, ma è quello in cui i comunisti in Italia sono chiamati ad agire politicamente.
L’indebolimento di un anello della catena imperialista è il contributo maggiore che possono svolgere sul piano dell’internazionalismo verso gli altri popoli. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia, la Rivoluzione Cinese e la Rivoluzione Cubana sono state anche e soprattutto questo. Le loro onde lunghe si sono diffuse nel mondo per più di settanta anni e, ad esclusione dell’Occidente capitalista, ancora agiscono concretamente e positivamente.
Agire sull’anello debole per indebolire il Blocco Euroatlantico significa agire su tutti i fronti e con tutti i mezzi a disposizione: il conflitto sociale e sindacale; le elezioni come strumento per la ricomposizione e la costruzione di una rappresentanza politica del blocco sociale antagonista; il lavoro ideologico per ridare identità politica e un punto di vista generale agli sfruttati; una comunicazione adeguata per fornire indicazioni di lotta e chiavi di lettura della realtà.
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La rottura del Blocco Euroatlantico torna ad essere la sintesi del nemico da indicare ai settori popolari, democratici, antagonisti, come quello da battere perché esso agisce qui e i comunisti agiscono qui.
Le ambizioni imperialiste cresciute nell’Unione Europea negli ultimi decenni, non sono diverse da quelle degli Stati Uniti, la loro debolezza nei confronti degli USA non ci solleva dalla responsabilità di indebolirle e contrastarle per la minaccia che rappresentano sia per le classi lavoratrici europee che per gli altri popoli.
La realtà ci consegna uno scenario in cui le contraddizioni diventano più nitide e le conseguenze più visibili.
Quello che fu il programma vincente fondato su “Pace e pane” dai rivoluzionari russi, oggi va declinato dentro la realtà del nostro paese.
Il rifiuto del coinvolgimento dell’Italia nella guerra, la difesa dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie dagli effetti della crisi e dell’economia di guerra, lo stop della corsa all’infarto ecologico del pianeta, la riaffermazione della democrazia rappresentativa verso la “democratura” imposta dalle classi dirigenti, sono obiettivi di fase adeguati a far crescere nel paese una controtendenza politica fondata sugli interessi di lavoratori, giovani, donne, ceti popolari e settori democratici dentro cui veicolare – alcune volte apertamente, altre volte cautamente a seconda dei contesti – la questione del socialismo come sistema alternativo a quello esistente che sta portando il paese al declino e alla rovina.
FONTE
https://contropiano.org/news/politica-news/2022/11/23/rompere-il-blocco-euroatlantico-il-socialismo-torni-ad-essere-un-alternativa-0154631
Regionalismo differenziato e UE
Le riflessioni che seguono traggono spunto dalla presentazione del saggio del prof. Gian Paolo Manzella, consigliere SVIMEZ e già sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico con il Governo Conte 2, tenutasi a Potenza lo scorso 2 dicembre ed organizzata dal comitato “Comunità e sviluppo Basilicata” di concerto con la stessa SVIMEZ. Manzella è funzionario del Fondo Europeo per gli Investimenti, quindi, potremmo dire, “persona informata sui fatti”. L’opera si presenta come un saggio di storia della politica regionalista a partire dagli albori della Comunità fino al Next Generation EU. Le differenze e le problematiche territoriali dell’Europa sono tali e tante che la questione regionale è stata centrale sin dall’inizio ed ha influito sugli sviluppi successivi che hanno portato all’attuale Unione Europea. La questione regionale è importante per una serie di questioni che non incidono solo sull’aspetto delle politiche economiche messe in campo dell’UE. Spesso si è fatto leva sulle regioni per ottenere il superamento dei singoli Stati nazionali e poter costruire quella “cosa” che oggi non è uno Stato ma solo un insieme di apparati burocratici e tecnici oltre che di istituzioni politiche, percepita come lontana da diversi milioni di cittadini europei, non solo italiani. Da Maritain fino a De Benoit, pur se con sfumature più o meno marcate, in molti sono coloro che hanno teorizzato il superamento degli Stati nazionali in funzione della costruzione di quelli che per alcuni dovrebbero diventare gli “Stati Uniti d’Europa”. Il regionalismo che contraddistingue l’azione politica dei singoli Governi Europei, dal Trattato di Roma in poi, è motivato dalla necessità di superare i divari e le disuguaglianze tra le varie regioni europee al fine di costruire un sistema coeso capace, appunto, di superare le differenze tra i singoli Stati che progressivamente hanno aderito alla formazione di ciò che oggi è l’U.E. Con il termine regionalizzazione si è inteso quel processo di riforme con le quali il potere centrale dello Stato ha via via trasferito alle istituzioni locali competenze e funzioni. Questo processo ha seguito percorsi diversi a seconda delle istituzioni di ciascuno degli Stati interessati. Il Belgio si è trasformato in uno Stato federale; altri percorsi hanno seguito gli Stati già federali come Germania ed Austria; Italia, Francia e Spagna hanno seguito percorsi propri, vista la tradizione istituzionale di ciascuno di essi. In questi tre Paesi le preesistenti pulsioni autonomiste di alcuni territori sono state incoraggiate dalle politiche regionaliste dell’U.E. In Italia è nata le varie Leghe al Nord mentre al centro, nelle regioni amministrate dalla Sinistra, oggi il PD è a tutti gli effetti una sorta di Lega tosco-emiliana. In Spagna, dove le spinte regionaliste sono emerse all’indomani della fine del Franchismo fino al tentativo di indipendenza della Catalogna. In Francia, invece, il regionalismo è nato a partire dagli anni 80 del 900 sotto la spinta del governo centrale ed anche in questo caso sono emerse le rivendicazioni autonomiste della Savoia e della Normandia. Dalla lettura del saggio di Manzella si evincono chiaramente i vari passaggi che hanno portato alla devoluzione delle competenze degli Stati verso le regioni (o istituzioni equivalenti), si osserva anche come progressivamente è cresciuta la posta finanziaria dedicata a politiche di sostegno a favore delle regioni. Personalmente, dopo aver letto il saggio, ho rafforzato ancora di più la posizione critica, non euroscettica, verso questa UE alla luce del dibattito in corso circa il “regionalismo differenziato”. Pensare che le rivendicazioni regionaliste presenti oggi in Italia non trovino genesi e alimento nelle politiche regionaliste messe in campo a livello Europeo è davvero difficile. La politica europea è mutata dalle origini ad oggi. Come scrive lo stesso Manzella negli anni dal 1989 al 1993 con il “Libro Bianco sul mercato interno” di Delors e il c.d. << Rapporto Padoa – Schioppa>> l’impianto istituzionale europeo e le stesse politiche subiscono un mutamento profondo. Scrive l’autore << Sul piano dell’assetto istituzionale, la riforma del 1988 ridefiniva uno dei punti modali dell’intervento regionale sino a quel momento: quello del rapporto tra i livelli di governo europeo, statale e regionale. Si registra, infatti, un aumento delle relazioni dirette tra livello comunitario e regioni, in un rapporto che Delors definì di compagnonange. …>>( cfr pag. 77) Sono queste innovazioni profonde al punto tale che secondo alcuni si configura come un vero e proprio modello di economia sociale di mercato da contrapporre all’impostazione neo – liberista di stampo anglosassone. È questo un punto nodale dell’intera ricostruzione storica delle politiche regionaliste europee. Pensare che l’U.E. sia un modello ispirato all’economia sociale di mercato mi lascia quanto meno perplesso. L’economia sociale di mercato o ordoliberalismo teorizzato dalla Scuola economica di Friburgo,che ha in Ropke, Walter Euchen, Muller – Armack, Rustow, Bohm i suoi riferimenti, era già in piena crisi. Nel 1957 si consumò la rottura tra Ropke e von Hayek, (Ropke rinunciò alla presidenza della Mont Pelerin Society) e tale rottura non è indifferente sul piano della elaborazione teorica e degli sviluppi successivi del modello economico neoliberale verso l’economia sociale di mercato. Le politiche economiche ispirate all’economia sociale di mercato hanno raggiunto l’apice negli anni ‘60 del secolo scorso in Germania, ne è prova la rinuncia al marxismo da parte dell’S.p.D. e la sua adesione all’economia sociale di Mercato. L’influenza dell’ordoliberalismo, in quegli anni, va ben oltre i confini tedeschi; per esempio, in Italia tanto DeGasperi che i governi di centro-sinistra guidati da Fanfani, sono stati influenzati da quella filosofia economica. A partire dagli anni ‘70 il contesto mutò. Siamo in presenza della reazione neoliberale che ha un passaggio cruciale con la fine dell’URSS e l’emergere delle differenze tra il modello di capitalismo renano e quello anglo – americano. Il processo di reazione neoliberale investì anche l’Europa che si apprestava a trasformarsi, a partire dal Trattato di Maastricht, in Unione Europea. Quello che sembra un coinvolgimento delle parti sociali e delle amministrazioni territoriali nei processi decisionali non è altro che la logica del mercato applicata ai processi decisionali: si passa dal governo della cosa pubblica alla governance. Il mercato, è cosa nota, non favorisce la coesione ma la destrutturazione del sistema sociale. A leggere i dati che la SVIMEZ, nel suo rapporto annuale presenta, si fa davvero fatica a vedere risultati positivi, almeno per le aree come il Mezzogiorno d’Italia. Gli strumenti finanziari utilizzati dall’UE per superare la disparità tra le varie regioni europee sono i c.d. Fondi di finanziamento UE. In linea di massima i “Fondi” sono risorse finanziarie a fondo perduto che l’UE mette a disposizioni sia di soggetti pubblici che privati per la realizzazione di interventi individuati dalla stessa UE. I bandi pubblicati sulla GUUE contengono la descrizione del programma e la sua dotazione finanziaria, la procedura e i termini di presentazione delle proposte, l’importo del contributo finanziario comunitario, i requisiti minimi per partecipare, i criteri di selezione ed altro ancora. I progetti selezionati devono essere fortemente innovativi e presentare un valore aggiunto europeo nel senso che essi devono contribuire al raggiungimento di obiettivi validi per più Stati membri dell’UE. I bandi stabiliscono inoltre la percentuale di co – finanziamento dei costi progettuali che varia tra il 50 e 100% del costo totale del progetto. In sostanza per attivare le risorse finanziarie previste dai Fondi UE il beneficiario deve poter contribuire con risorse proprie che possono essere: fondi nazionali, sponsor privati, prestiti bancari, apporti in natura quali personale retribuito, uso di locali, infrastrutture ecc. Perciò sostenere che tali forme di finanziamento non rientrino in politiche economiche neoliberali lo trovo a dir poco disdicevole. L’idea di fondo che alimenta le politiche regionaliste dell’UE ricorda molto ciò che sosteneva von Hayek, uno dei maggiori teorici della Scuola economica austriaca. Nello specifico Von Hayek espose la sua teoria sulle relazioni internazionali nell’articolo “Le condizioni economiche del federalismo interstatale”, nel capitolo XII del saggio “Individualismo e ordine economico”. In sostanza Von Hayek sostiene che, per eliminare alla radice le cause che hanno portato ai due conflitti mondiali, bisogna abbattere gli Stati nazionali attraverso una sovrastruttura capace di limitare il potere degli Stati – Nazionali eliminando in questo modo le barriere alla libera circolazione di beni ed individui perché solo il mercato è in grado di porre fine ai conflitti bellici. Coerentemente con questa impostazione l’idea dei “fondi UE” mette a disposizione degli individui (per analogia delle regioni) meno sviluppati risorse finanziarie da attivare al fine di uscire fuori dallo stato di precarietà, povertà ecc. nel quale si trovano. Il concetto è semplice: ti aiuto purché tu, potenziale beneficiario, dimostri di essere in grado con quei fondi, aggiunti a tue risorse, di competere sul mercato. Il presupposto teorico è facilmente criticabile da Sinistra perché, nella pratica, finisce con il favorire le realtà economicamente più forti rispetto a quelle più deboli, alimentando filiere clientelari e posizioni di rendita; ma è criticabile anche da un liberale come Rawls il quale, ad esempio in “Teoria della giustizia”, si era già posto, mezzo secolo fa, il problema dei diseguali punti di partenza rinviando la soluzione a regole universali condivise da tutti, e questo per restare nell’alveo del pensiero Liberale. Nelle aree più arretrate del Mezzogiorno, per esempio la Basilicata, l’accesso ai Fondi UE passa attraverso filiere clientelari dove l’azione politica svolge un ruolo subordinato. Per dirla in modo brutale: se una impresa o uno studio tecnico ha individuato la possibilità di candidare una propria “idea progettuale”,intercetta l’amministrazione pubblica la quale, nella maggior parte dei casi, non avendo né risorse finanziarie,né personale adeguato,tantomeno idee, vede il progetto proposto dalla lobby di turno come una vera manna caduta dal cielo. Un tale processo è coerente con il processo di formazione delle decisioni a livello di UE. Infatti non sono poche le decisioni prese a livello UE su pressione delle lobbies, anzi, più precisamente, degli stakeholder che operano nei palazzi. In conclusione le politiche regionali dell’UE sono un combinato disposto tra le visioni ideologiche, che vogliono cancellate lo Stato – Nazione perché causa di tutti i mali, con gli interessi delle lobbies, che chiedono più mercato perché solo in questo modo possono condizionare meglio le decisioni dell’eurotecnocrazia e nel contempo realizzare profitti sempre maggiori. Per cui pensare che il regionalismo differenziato tragga origine dalle politiche UE mi sembra abbastanza ovvio. La relazione di mediazione che si crea tra euro tecnocrazia e interessi lobbistici trova terreno facile proprio rispetto alla minore capacità che le istituzioni locali hanno di controllare e indirizzare il mercato. La governance non è altro che il mercato applicato alla gestione della cosa pubblica.
GERARDO LISCO
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