Un elemento davvero esplosivo emerge dalla relazione finale elaborata dalla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage del ‘Moby Prince’, che 31 anni fa causò la morte di 160 innocenti, tra passeggeri e membri dell’equipaggio.
Sulla scena del massacro non c’erano solo il Moby e l’Agip Petroli, del gruppo ENI, ma anche una terza imbarcazione ‘fantasma’, circostanza MAI emersa fino ad oggi.
Potrebbe trattarsi di un grosso peschereccio di costruzione italiana ma battente bandiera somala, il ‘21 Octoobar I’ di proprietà della SHIFCO. Ossia la società armatrice di Mogadiscio sulla quale stavano indagando Ilaria Alpi eMiran Hrovatin prima di essere ammazzati.
Incredibile ma vero: due grandi misteri d’Italia, due buchi che più neri non si può, una strage e un duplice assassinio possono forse trovare un denominatore comune?
Ma esaminiamo i fatti e le news procedendo per steps.
COMMISSIONE SUL ‘MOBY’, ESITO CHOC
Partiamo dai risultati che scaturiscono dall’ultima commissione d’inchiesta, presieduta da PD Andrea Romano.
Scrive l’AGI lapidariamente in un suo lancio: “Non fu un errore del comandante, né la nebbia a causare il disastro. Ma una terza nave, mai identificata. E’ ‘lo scenario più possibile’ per la tragedia del 10 aprile 1991 secondo le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta”.
Quella notte – secondo la ricostruzione effettuata dai membri della commissione suffragata da perizie tecniche – ci fu un cambio di rotta improvviso del Moby, che virò a sinistra nel giro di 30 secondi a causa della comparsa di una terza nave. “Una manovra d’emergenza – viene scritto nella relazione – che la portò a collidere con la petroliera Agip Abruzzo”; la quale, a sua volta, era avvolta in una nube di vapore acqueo dovuta alla probabile avaria dei sistemi idraulici.
Ma eccoci alle parole di Andrea Romano: “Fu una terza nave di cui non è stato finora possibile accertare l’identità a provocare l’incidente. E’ stato stabilito in maniera inequivocabile che non ci fu alcuna esplosione a bordo del Mobyprima della collisione”.
Proseguiamo con il dispaccio AGI: “La presenza di una terza nave apre ad altre ipotesi di reato. Una è legata ad un’imbarcazione, un ex peschereccio battente bandiera somala, ’21 Octoobar I’, che era nel porto di Livorno per delle riparazioni. Su questa nave – afferma Romano – abbiamo acquisito tutta la documentazione e svolgiamo nella relazione finale delle supposizioni”.
L’altra pista seguita è quella delle ‘bettoline’. La illustra Romano: “Sappiamo che si fa riferimento ad esse già nelle comunicazioni radio del comandante Renato Superina dell’Agip Abruzzo, il quale dice nei primi momenti: ‘C’è venuta addosso una bettolina’. Qui facciamo riferimento ad altri elementi, come quello di un tubo che fuoriusciva dall’Agip e che potrebbe rimandare ad attività di bunkeraggio clandestino in cui potrebbero essere coinvolte delle bettoline”. Pista, anche questa, non da poco e che concerne traffici illeciti di chissà quale natura.
Conclude Romano: “Il nostro non è un giudizio sulle sentenze, ma sulla solidità di quelle sentenze che oggi sappiamo essere ampiamente infondate. Il rammarico è che se fosse stato fatto un lavoro diverso nell’immediatezza della strage, avremmo avuto risposte ben più vicine alla realtà fin da subito. Abbiamo dovuto percorrere un percorso tortuoso”.
Ma vediamo, più in dettaglio, alcuni passaggi salienti della relazione finale.
I PASSAGGI CLOU DELLA RELAZIONE
Partiamo dalla AGIP Abruzzo, che – hanno documentato i periti – si trovava quella sera ancorata in una posizione impropria: in soldoni, non doveva stare lì.
Scrivono i commissari: “Il rinvenimento di una manichetta bruciata innestata sull’Agip Abruzzo nei pressi della cisterna numero 6 centrale e trovata aperta, non è mai stata processualmente considerata e ciò ha consentito negli anni la formulazione dell’ipotesi che, prima dell’impatto, sulla petroliera la situazione non fosse ordinaria come più volte descritta dall’equipaggio della petroliera, ma fossero invece in corso delle operazioni di travaso di idrocarburi”.
Operazioni, evidentemente, illecite.
Ancora. “Nel corso delle proprie attività di indagine questa Commissione ha avuto conferma della valutazione, pienamente condivisibile, fatta dalla Commissione senatoriale (la precedente Commissione, ndr) in merito al comportamento di ENI, connotato da forte opacità. Opacità riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione della effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno, comportamento certamente opaco che questaCommissione ritiene di biasimare”.
Rammentiamo che, a pochi chilometri nell’entroterra livornese, è acquartierata la strategica base italo-americana di Camp Darby. E che proprio quel giorno, il 10 aprile, era appena terminata la prima guerra d’invasione statunitense in Iraq; e che nei mari tirrenici c’era un gran via vai d’imbarcazioni d’ogni tipo.
Sulla terza nave ‘fantasma’, ma non poi troppo, scrivono i commissari: “La distanza temporale dei fatti, l’assenza di accertamenti esaustivi e diretti svolti nell’immediatezza dei fatti dagli inquirenti e alcuni fraintendimenti, rendono tecnicamente impossibile il preciso accertamento dell’identità del terzo natante. La conclusione anticipata della legislatura ha impedito alla Commissione di proseguire con gli accertamenti ed in particolare di verificare con esattezza le presenze e i movimenti di tutte le unità navali riscontrabili nella rada di Livorno il 10 aprile. Il solco di indagine su cui la Commissione stava operando al momento dell’interruzione dei lavori di indagine, riguardava alcune imbarcazioni che erano state oggetto di attenzione da parte della procura di Livorno nella cosiddetta ‘Inchiesta Bis’ (2006-2010), su cui la Commissione stessa ha ritenuto opportuno acquisire ulteriore documentazione tecnica”.
Ed eccoci al momento clou: “Questa verifica – scrivono i commissari nella relazione finale – ha nuovamente evidenziato alcune incongruenze relative alla ‘21 Oktoobar II’, nave peschereccio di costruzione italiana, battente bandiera della Somalia, di proprietà della società armatrice SHIFCO di Mogadiscio”.
‘SHIFCO’, LA CHIAVE DI TUTTI I MISTERI
Il nome della società SHIFCO ricorre a piè sospinto nei tanti fiumi d’inchiostro versati sul giallo di Ilaria e Miran e fa capolino nelle tante inchieste giudiziarie mai arrivate ad una sentenza, se non quella – aberrante – che per 16 anni ha spedito in galera un innocente, Hashi Omar Assan, guarda caso saltato per aria nella sua auto due mesi fa proprio a Mogadiscio.
La ‘Voce’ ne ha parlato tante volte nelle sue inchieste; il legale storico della famiglia Alpi, Giovanni D’Amati, la vedeva come la pista più attendibile e concreta per arrivare a killer e, soprattutto, mandanti del duplice omicidio.
Qui di seguito vi proponiamo i passaggi salienti di un significativo reportage di Daniele Mastrogiacomo, scritto per ‘Repubblica’ il 10 aprile 2015, guarda caso l’anniversario della strage del Moby Prince.
“Ilaria e Miran avevano smascherato il traffico d’armi clandestino portato avanti da due noti broker internazionali: il siriano Manzer al-Kassar e il polacco Terzy Dombrowsky. Il tutto controllato dall’altro signore della guerra somalo, Mohamed Ali Mahdi, su cui avevano puntato gli USA. Un traffico condotto per conto della CIA e gestito dalla flotta Shifco, donata dalla cooperazione italiana alla Somalia per incrementare l’industria peschiera nell’Oceano Indiano del Corno d’Africa”.
Continua Mastrogiacomo: “Ilaria e Miran si erano avvicinati troppo ad un traffico che doveva restare segreto: riguardava anche la spedizione in Somalia di una partita di 5.000 mila fucili e 5.000 pistole da parte degli USA. Ufficialmente. Ma in realtà, attraverso una triangolazione che aggirava l’embargo decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 2002, si trattava di una partita destinata alla neonata federazione croato-bosniaca durante la guerra nella ex Jugoslavia”.
“Due differenti carichi, trasferiti da navi della Lettonia a navi della Shifcosempre al largo della Somalia, sono segnalati in due rapporti delle Nazioni Unite del 2002 e del 2003. Il primo avviene il 14 giugno del ’92; il secondo a marzo 1994: è identico rispetto a quello registrato a bordo della ‘21 Oktoobar’, l’ammiraglia della flotta Shifco, la cui rotta è tracciata dai Lloyds fino al porto iraniano di Bandar Abbas. Di qui, avrebbe preso il largo verso la Croazia e bordo di un’altra nave. Ilaria e Miran moriranno pochi giorni dopo”.
E ancora: “La ‘Farax Oomar’, l’altra nave della Shifco, con a bordo due italiani, e ormeggiata a Bosaso, e sulla quale indagava Ilaria, era ostaggio del clan di Ali Mahdi. Serviva come garanzia del pagamento della tangente per il traffico d’armi USA-Italia destinato a Zagabria. Ilaria ignorava tutto questo. Ma aveva dei sospetti. Cercò di chiarirli nel corso della sua ultima intervista al ‘sultano’ del Bosaso: gli chiese se la ‘Farax Oomar’ ormeggiata in porto era sotto sequestro. Una domanda fatale”.
Per leggere articoli e inchieste della ‘Voce’ sia sulla strage del ‘Moby Prince’ che sul duplice omicidio Alpi-Hrovatin, basta andare alla casella ‘cerca’ nella barra a destra, e digitare il nome della persona o della società. Ne potrete ritrovare delle belle.
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