“Le cause della morte di Paolo Borsellino sono nei 57 giorni che lo separano dalla strage di Capaci e nella gestione del rapporto Mafia-Appalti”.
Sono parole che l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, non solo ha ribadito pochi giorni fa in aula per la sua arringa al processo sul depistaggio, ma che aveva già pronunciato due anni fa, nel corso di un’intervista rilasciata all’AGI.
L’occasione era quella di un altro processo, in cui il superlatitante Matteo Messina Denaro era imputato per essere uno dei mandanti delle stragi del ’92.
“Finalmente – riporta l’AGI – abbiamo un’occasione unica, cioè di processare un vero capo che ha aderito totalmente alla strategia stragista di attacco al cuore delle istituzioni. Noi dobbiamo fare l’analisi delle parole di Borsellino, che ha lasciato detto qualcosa che potesse guidare gli investigatori verso la possibilità di scoprire le ragioni e i motivi della sua morte”.
E aggiunse, due anni fa, Trizzino: “Da quanto ci raccontano i collaboratori di giustizia, la virata avviene tra i 3 e il 20 giugno. Cosa succede? L’autorità giudiziaria di Catania, con il sostituto procuratore Felice Lima, stava interrogando Giuseppe Li Pera del 13-14-15 giugno 1992. Noi dobbiamo capire se alcune di quelle informazioni possano essere finite a Borsellino e questo è importante perché potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccare Borsellino sul fronte del dossier ‘Mafia e Appalti’”.
Sul quale ha appena riaperto, miracolosamente, le indagini la procura di Caltanissetta, come abbiamo raccontato nella prima puntata. 30 anni dopo le stragi, 30 anni dopo l’archiviazione chiesta e ottenuta dalla procura di Palermo, da quel ‘Palazzo dei veleni’ come lo definiva Borsellino. Comunque, meglio tardi che mai e ora, forse, ci saranno le concrete possibilità di capire le trame che hanno portato al “più grande depistaggio di Stato” e, chissà, di mettere finalmente le mani su killer e soprattutto mandanti della strage di via D’Amelio, rimasti regolarmente a volto coperto.
L’INCHIESTA SCIPPATA AL PM FELICE LIMA
Ma torniamo ad una figura strategica, quella del geometra Li Pera, di cui abbiamo scritto soprattutto nella seconda puntata.
Circa tre anni fa Li Pera contatta, via mail, la ‘Voce’, a suo dire una delle rare testate giornalistiche che hanno visto giusto, indicando nel dossier ‘Mafia e Appalti’ del Ros il movente delle stragi, in particolare quella di via D’Amelio.
Racconta di essere stato bistrattato dai pm di Palermo, di aver pagato un duro prezzo, di essere stato totalmente scaricato dai titolari dell’impresa per la quale lavorava, la ‘Rizzani de Eccher’, una delle sigle che compaiono nel rapporto ‘Mafia e Appalti’ per collusioni con i clan.
Invia alla ‘Voce’ una serie di lunghe e dettagliate memorie, in cui affronta una serie di temi bollenti.
A partire dalla strage di Capaci, dove smentisce in toto la versione fornita da Giovanni Brusca e parla senza mezzi termini di intervento dei servizi segreti americani, di forti interferenze della CIA e dell’FBI. Poi fornisce dettagli sul sistema degli appalti che dettava legge in Sicilia e che, man mano, stava assumendo una rilevanza nazionale, per via degli accordi sempre più stretti, dei ‘patti’ tra grosse imprese del Nord e sigle che fanno capo a Cosa Nostra.
Si dilunga sui continui rapporti con il Ros, col capitano Giuseppe De Donno. Fa chiaramente capire, insomma, di aver fornito un ampio materiale informativo ai carabinieri impegnati nella redazione del rapporto ‘Mafia e appalti’: e lui, Li Pera, era una delle fonti eccellenti, “perché degli appalti in Sicilia e non solo so praticamente tutto, come funziona, quali sono gli uomini giusti, le imprese che stanno dentro il meccanismo”, era il suo leit motiv.
Una mina vagante, Li Pera: e forse proprio per questo motivo l’inchiesta portata avanti dal pm catanese Felice Lima gli viene praticamente scippata, e Lima va ad occuparsi di giustizia civile (soprattutto in materia di divorzi), sempre a Palermo.
Ma c’è un altro magistrato che, non si sa bene a quale titolo, interroga Li Pera. Si tratta nientemeno che di Antonio Di Pietro, il quale sente il geometra nel carcere romano di Rebibbia. Nessuna traccia mai di quei verbali d’interrogatorio. E Li Pera minimizza: “Mi fa delle domande generali sugli appalti, ma niente di particolare. Mi sarei aspettato molto di più da uno come lui che sapevo essere un investigatore che vuol tirare fuori tutto dai suoi inquisiti”.
Sembra un po’ il copione di un altro interrogatorio eccellente. Quello fra lo stesso Di Pietro e Chicchi Pacini Battaglia, ‘l’Uomo a un passo da Dio’ che sa tutto della maxi tangente Enimont, dei mega appalti e soprattutto di ‘Alta Velocità’. Tutta la storia del ‘depistaggio’ operato da Di Pietro sulle inchieste TAV è raccontato magistralmente, per filo e per segno, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel loro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, di cui ieri abbiamo riportato ampi stralci.
In sintesi, i due autori ricostruiscono lo ‘scippo’ delle carte romane sull’inchiesta TAV, e la possibilità di gestire in toto Pacini Battaglia. Il quale, però, dirà e svelerà ben poco, evidentemente grazie alla bravura dell’avvocato che lo difende: uno sconosciuto Giuseppe Lucibello che arriva da Avellino ma ha un grande asso nella manica, la forte amicizia proprio con Di Pietro!
MAXI INCHIESTE IN FLOP, DA ROMA A NAPOLI
Passiamo adesso a due grosse inchieste, una condotta dalla procura di Roma e l’altra da quella di Napoli: clamorosamente finite in flop. Eppure si parlava di Grandi Appalti, di Alta Velocità, delle solite imprese, ma anche di pezzi da novanta della mafia, come Angelo Siino, e di big della massoneria. Fili, con ogni probabilità, da non toccare…
Partiamo dalla prima, condotta con grande efficacia, per un paio d’anni, dal pm capitolino Pietro Saviotti (dopo qualche anno muore, giovanissimo, per un ‘infarto’). Ne scrive la ‘Voce’ in un ampio reportage pubblicato a novembre 1999, proprio a ridosso dell’uscita in libreria di ‘Corruzione ad Alta Velocità’. Titolo dell’inchiesta ‘mICLA male’, con riferimento all’impresa del cuore di ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, acchiappatutto nel settore degli appalti pubblici, TAV compresa.
Ecco un passaggio: “L’inchiesta del pm capitolino Pietro Saviotti ha portato al clamoroso arresto, lo scorso giugno, di pezzi da novanta dell’imprenditoria e del sottobosco politico-affaristico. Sono emersi tutti i business sui quali, in mezza Italia ma soprattutto in Campania, la nuova piovra affaristica sta mettendo le mani ed emergono tante connection sulle quali occorrerà lavorare sodo e che la dicono lunga sulla presunta fine della corruzione nel nostro Paese”.
Tra gli arresti eccellenti – in base all’ordinanza da 102 pagine del gip Otello Lupacchini – quelli dei timonieri (insieme a Massimo Buonanno) dell’ICLA, ossia Agostino, Sandro e Vittorio De Falco; di Vincenzo Maria Greco, l’alter ego di ‘O Ministro Pomicino; di Giannegidio Silva, ex manager ICLA poi passato a dirigere la pubblica ‘Metronapoli spa’ al centro di scandali a non finire; Paolo Pizzarotti, numero uno della impresa parmense di costruzioni; quindi vertici bancari e del ministero del Tesoro, nonché big di Alleanza Nazionale a Napoli, come l’ex presidente della Giunta regionale Antonio Rastrelli.
E sapete come è finita la maxi inchiesta romana? Una autentica bolla di sapone. Pochissime condanne, per pesci piccolissimi solo alcuni autotrasportatori.
Come nello stesso periodo ha fatto registrare un clamoroso flop la maxi inchiesta sul dopo terremoto in Campania, avviata dopo che, nel ’91, la ‘Commissione Scalfaro’ (così chiamata perché a presiederla c’era proprio Oscar Luigi Scalfaro) ne aveva tirate fuori di tutti i colori, anche sul solito versante dei rapporti, sempre più organici, tra politici, imprenditori e camorristi.
Ma ecco che succede il miracolo di San Gennaro. In tanti anni di inchieste operate da un pool di ben 4 magistrati coordinati da Arcibaldo Miller (che poi verrà nominato capo degli ispettori ministeriali) si scopre che della camorra non si parla nei faldoni di carte: ottimo e abbondante pretesto per non prevedere accuse da 416 bis, ossia associazione a delinquere di stampo mafioso, che prevedono tempi di prescrizione molto più lunghi. E così, voilà, tutto dopo 7 anni e mezzo finisce in un tric trac, per via della solita, miracolosa prescrizione: solo condanne lievi, anche stavolta, per pesci sempre più piccoli!
E PARLA ANCHE SIINO
Restiamo a Napoli con l’altra maxi inchiesta che vede in campo di tutto e di più, alle sue battute iniziali: mafiosi, massoni, imprenditori, politici, il solito ‘esplosivo’ mix del copione ‘Mafia e Appalti’. Una garanzia di serietà delle indagini è fornita dal fatto che ad occupare la poltrona di procuratore capo, a Napoli, c’è l’acchiappa-massoni numero uno, Agostino Cordova, arrivato da Palmi.
Scrive la ‘Voce’ a novembre 2000. “Al centro delle indagini, la possibilità di controllare il settore delle commesse per la realizzazione di opere pubbliche arci miliardarie, come i lavori per il treno ad alta velocità e quelli per l’ultradecennale raddoppio dell’autostrada Napoli-Roma. Proprio su questi e altri appalti bollenti (interporti di Nola e Marcianise, aeroporto di Grazzanise, porto turistico di Pozzuoli, assi viari nel napoletano), un anno e mezzo fa ha acceso i riflettori la procura di Roma, con l’inchiesta del pm Pietro Saviotti”.
Continua l’articolo della ‘Voce’ : “A tenere le fila degli intrighi massonici sono Salvatore Spinello da Caltanissetta e suo figlio Nicola, napoletani d’adozione. E’ dalla DIA di Napoli che, a metà ’97, suona il primo campanello d’allarme, quando il faccendiere Francesco Pazienza, nel corso di un interrogatorio, fa riferimento al ruolo ricoperto dagli Spinello nel mosaico della massoneria”.
E i pm partenopei sapete chi vogliono ascoltare per ricomporre le tessere del mosaico? Nientemeno che Angelo Siino, il ‘ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra’. Il quale così verbalizza: “Spinello mi venne presentato intorno al 1987 da un funzionario democristiano del parastato, certo Francesco Salamone. Spinello volevo che io lo affiancassi in alcuni affari, mi disse che voleva creare una superloggia massonica segreta in cui potessero confluire esponenti politici di rilievo, dell’imprenditoria e della criminalità organizzata in modo da creare rapporti di reciproca convenienza”.
Continua il racconto di Siino: “Spinello, in occasione dei vari incontri, vantò rapporti di conoscenza con Craxi e con Martelli, mi disse che aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò l’impresa ICLA che all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada Palermo-Messina , mi parlò di altri due imprenditori a nome Chitis, titolari della Fondedile, mi segnalò un altro esponente politico che venne eletto senatore a Napoli, a nome Lucio Toth, indicato da Spinello come grande amico di Andreotti. Ho avuto altri incontri a Roma con decine di personaggi, Spinello mi portava come una sorta di garante mafioso di accordi. Mi disse nel ’91 che lui poteva decidere sui lavori della TAV perché aveva collegamenti con i personaggi che avevano tutto in mano”.
E Siino raccontò ai pm partenopei quanto Spinello gli disse su Falcone: “Spinello Salvatore mi disse che se Falcone fosse rimasto in Sicilia sicuramente lo avrebbero ucciso, per cui si proponeva come persona che avrebbe potuto favorire il trasferimento di Falcone a Roma. Tale discorso mi fu fatto da Spinello alcuni mesi prima che Falcone fosse trasferito a Roma per l’incarico ministeriale”.
Ma come è finita la story? Il maxi fascicolo di tutta l’inchiesta venne trasferito, non si sa bene per quale motivo, a Roma.
E da allora ne sono perse le tracce. Il solito porto delle nebbie…
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