Strage di Capaci, trent’anni dopo

DI PINO ARLACCHI

 

Pur non essendo più titolare di capacità investigativa, e dovendosi tenere lontano da qualsiasi indagine in corso per non fornire pretesti ai suoi nemici, Giovanni [Falcone] non resisteva all’attrazione fatale esercitata su di lui dai casi più misteriosi del passato. Anche perché c’erano in campo sviluppi clamorosi, come la rivelazione del segreto su Gladio fatta da Giulio Andreotti alla fine del 1990.
La nostra interpretazione dell’evento fu che Andreotti, sentendosi scaricato dalla connection atlantica post 1989, tentava di cautelarsi minacciando. Se non gli fosse stata confermata la copertura delle scelleratezze che lo avevano portato ventisei volte a discolparsi di fronte a commissioni parlamentari e tribunali, avrebbe proseguito sulla strada della violazione di regole e segreti imbarazzanti.
Andreotti aveva le sue ragioni. Il quadro internazionale era allarmante. La matrice della rete Gladio, la Nato, lottava per la propria sopravvivenza. Dopo la caduta del Muro, la perestrojka di Gorbačëv e lo scioglimento del Patto di Varsavia, il Patto atlantico era diventato di colpo obsoleto. Lo scioglimento della Nato era entrato nell’agenda dei governi occidentali e non passava giorno senza che qualcuno parlasse di disarmo e di pace.
Una ricaduta pratica di ciò fu l’indebolimento del ricorso al segreto di stato per contrastare le indagini sulla strategia della tensione e sulla stessa Gladio. Centinaia di agenti segreti, gladiatori, bombaroli, killer, custodi di depositi di armi e di esplosivi rischiavano di finire in prigione. Assieme, ovviamente, a centinaia di uomini d’onore con cui avevano collaborato.
Con la rivelazione su Gladio, Andreotti li aveva scaricati: da quel momento in poi, «ognuno per sé e Dio per tutti». Ma li aveva anche messi con le spalle al muro e obbligati al contrattacco.
La mafia di Stato entrò dunque in allarme rosso nel corso del 1991, e l’allarme raggiunse Cosa nostra alla fine di quell’anno, dissipando la sicumera mostrata dai suoi consiglieri di fronte alle misure antimafia del governo.
Avevamo percepito l’elettricità dell’aria. Ci incontrammo a casa mia, a cena, alla fine del 1991. Falcone era rientrato dalla Sicilia, ed era in preda a una apprensione tale da rifiutarsi di aprire bocca sui fatti all’ordine del giorno finché tutti gli ospiti – magistrati, dirigenti della polizia e il mio carissimo amico Sylos Labini – non si furono congedati. Rimasti soli, Giovanni mi illustrò la sua visione delle cose. «Ho parlato con un po’ di gente dei servizi “deviati” [per noi i deviati erano gli agenti fedeli alla Repubblica] e sono stato a Palermo da Paolo Borsellino. C’è lo scompiglio ovunque, sia in Sicilia sia qui. Temono che Andreotti li abbia mollati per salvarsi la pelle dopo che gli americani hanno preso le distanze da lui. Ha sbattuto loro in faccia Gladio a mo’ di ammonimento. Ma non pare che abbia ricevuto rassicurazioni. Le due mafie sono sul piede di guerra contro Andreotti e contro tutti. Prima di rivalersi direttamente contro di lui sono decisi a farsi sentire alla grande. Contro di noi, ovviamente.» «Chi te l’ha detto? Cosa hanno in mente di fare?» «Abbiamo sondato i pentiti che sono ancora in contatto con i vertici di Cosa nostra e qualche dirigente dei servizi nemico di Contrada. Non abbiamo ricavato niente di preciso, ma tutti fiutano che si sta preparando qualcosa di grosso.» «È chiaro che se vogliono sopravvivere» continuò il giudice, «devono ripetere quanto hanno fatto dieci anni fa, quando si sono sbarazzati di La Torre e Mattarella. Però stavolta è più difficile perché non hanno più le coperture di allora. La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta. Gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza. Gli altri politici sono allo sbando. E i due ministri più cruciali stanno con noi. Non hanno altra strada che attaccare su tutta la linea, far saltare il banco. E devono colpire sia noi sia l’entourage di Andreotti.» «Dobbiamo accelerare le nostre cose: Dia, Dna, leggi sui pentiti, Carnevale, tutto. Li dobbiamo fregare sul tempo. Devi stringere ancora di più su Martelli. Io lo sto facendo con Scotti» affermai guardando Giovanni negli occhi e notando quanto gli facesse bene sfogare i suoi pensieri liberamente.
«Cosa intendi quando dici che vogliono ripetere La Torre e Mattarella?» gli chiesi.
Ne seguì un lungo sfogo, che qui riassumo: «La Torre aveva un conto aperto da decenni con Cosa nostra. Era il nemico più forte che avessero in Sicilia, e gli aveva appena sparato contro una legge micidiale. Ma nel suo omicidio c’entrano anche la P2 e Gladio, i super anticomunisti che lo odiavano per la sua battaglia contro gli euromissili. Per di più, La Torre era diventato debole anche nel suo partito. Non sapeva o non si rendeva conto che il Pci aveva rinunciato a una opposizione frontale ai missili».
«E il delitto Mattarella?» gli chiesi. «Quel delitto è stato un caso Moro bis. L’esecuzione fu opera di
killer mafiosi e di terroristi neri inviati dalla P2 e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani. Sto ancora cercando riferimenti, e ho una buona fonte negli ambienti di destra» concluse
il giudice.
Si era quasi fatta l’alba, e dall’uscio del mio scomodo appartamento, collocato al quinto piano e senza ascensore, vidi la sua figura che scorreva agile lungo le scale guardando ogni tanto in su e rispondendo con il suo sorriso mite e affettuoso ai cenni di saluto che gli indirizzavo. (…)

È difficile affermare con certezza se le stragi del 1992 siano state o no un errore fatale di Cosa nostra. Falcone e Borsellino avevano già compiuto il massimo dei danni? Oppure avrebbero completato l’opera dando il colpo di grazia agli uomini d’onore?
La scelta stragista, in realtà, fu una strada obbligata. Dal punto di vista dei vertici della mafia aveva una logica cogente. Le condanne del maxiprocesso avevano messo Riina e soci di fronte al problema di non possedere più alcuna protezione politica. I loro referenti non avevano avuto la forza di mantenere le promesse di impunità, ed erano stati per giunta smascherati e messi nel mirino delle procure e dell’opinione pubblica. Se i capi di Cosa nostra avessero adottato la strategia del calati juncu ca passa la china («piegati, giunco, che passa la piena»), si sarebbero dovuti rassegnare a passare in carcere il resto dei propri giorni, oppure a restarvi per un tempo troppo indefinito per essere accettabile.
Attendere gli esiti del cambio di regime in corso non era consigliabile, perché non si intravedeva un nuovo blocco di potere paragonabile a quello della Dc e dei socialisti. La sagoma minacciosa che si profilava all’orizzonte era piuttosto quella di un esecutivo delle sinistre ancora più ostile alla mafia dei governi di transizione del momento.
Quanto tempo ci sarebbe voluto per ricostruire, all’interno di un nuovo regime, la catena di accordi perversi in grado di garantire la revisione del maxiprocesso e una nuova impunità per gli uomini d’onore? Non era meglio iniziare subito, quando la forza da mettere in campo era ancora consistente?
Il terrorismo mafioso, la sfida frontale allo Stato lanciata attraverso una stagione di attentati, poteva essere la strada per negoziare – se non un ritorno all’antica collaborazione con le istituzioni
– almeno una decente coesistenza con esse. «Si fa la guerra per poi fare la pace» fu il concetto espresso in più occasioni da Riina. L’approdo finale verso lo scontro cruento fu dovuto a due fattori. Il primo fu l’assenza di interlocutori credibili dal lato dello Stato con i quali intavolare una trattativa che rendesse superfluo il ricorso alle stragi. (…) Il secondo fattore che condusse la mafia sulla strada delle stragi fu esterno a essa. La spinta arrivò dagli altri soggetti della grande criminalità, a partire dalla mafia di Stato. I sodali di Cosa nostra all’interno delle istituzioni e nel business che venivano decimati dagli arresti, i massoni coperti, i finanzieri d’avventura, i faccendieri spaventati da Mani pulite e dal vento di pulizia che spirava nel paese non vedevano altra via d’uscita dalla crisi che quella più estrema.
Per molti di loro, solo la licenza di uccidere goduta da Cosa nostra e dai servizi di sicurezza messa a disposizione di un progetto eversivo in grande stile poteva ridurre alla ragione le procure, le sinistre e i movimenti antimafia. Sul governo ormai non si poteva più contare. (…)

Le bombe del 1993 si sono rivelate espressione della medesima strategia. Nel primo episodio, avvenuto a Roma nel maggio di quell’anno, la vittima doveva essere il giornalista Maurizio Costanzo. Con questo attentato Cosa nostra riconosceva la rilevanza assunta dal sistema dell’informazione nella battaglia contro di essa, perché il noto giornalista si era fatto interprete di sentimenti antimafia molto diffusi.
L’eccidio di Firenze (cinque vittime) e gli attentati di luglio a Roma e Milano (sei morti) hanno sancito invece l’inizio di una fase terroristica «pura». La fisionomia è stata qui interamente politica, perché era venuta meno la valenza tattica dell’evento, cioè la volontà di eliminare obiettivi specifici.
Si è trattato di megaintimidazioni, organizzate in tempi e luoghi tali da non coinvolgere, se non casualmente, vittime innocenti.
Il loro scopo era multiforme: dimostrare la capacità offensiva della mafia. Instillare il timore di azioni ancora più devastanti. Provocare una caduta del consenso verso l’azione antimafia dello
Stato. L’opinione pubblica doveva essere indotta a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il «costo» della lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. La scelta della piazza adiacente alla basilica di San Giovanni in Laterano a Roma per l’esplosione dell’ordigno era anche un monito all’intera Chiesa, e una risposta al viaggio del papa in Sicilia.
Gli attentati del 1993 avvennero, inoltre, nel corso di una campagna di delegittimazione dei pentiti che non raggiunse gli esiti sperati ma che fece molto rumore. Totò Riina dichiarò in tribunale che i pentiti venivano manipolati. Un folto gruppo di parlamentari democristiani presentò un esposto alla Procura di Roma per denunciare un presunto uso scorretto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Non mancarono neanche azioni di disinformazione e depistaggio da parte della mafia di Stato. Un’agenzia giornalistica collegata al Sismi tentò di confondere le acque indicando i fondamentalisti
islamici come i veri mandanti delle stragi.
Gli attentati del 1993 non sono stati opera esclusiva della mafia: Buscetta ci avvertì subito che la scelta di luoghi notissimi dove collocare gli ordigni (la Galleria degli Uffizi, San Giovanni in Laterano), la dimestichezza con i codici delle comunicazioni di massa, nonché la capacità di sondare gli ambienti della politica non erano all’altezza di Cosa nostra.
Erano il prodotto di menti più raffinate, come emerso dalle indagini sul falso attentato al treno «la Freccia dell’Etna» del settembre 1993, che misero in luce la partecipazione di un alto dirigente del Sisde. Altre indagini sulle decine di attentati minori che si svolsero quell’anno in Italia confermarono questo quadro.
I servizi di sicurezza sono stati il più plausibile regista dell’Addaura, di Capaci e di via D’Amelio. Occorreva seguire la firma apposta da loro stessi un’ora e mezzo dopo la strage di Capaci. La
prima rivendicazione fu quella della Falange armata, una sigla che faceva capo al servizio segreto militare e che fu usata per rivendicare tutte le stragi e gli attentati di mafia del 1992-1993, nonché
come veicolo di messaggi e minacce alla politica, ai media e agli apparati di polizia. La Falange armata poteva ricondursi a una divisione del Sismi, la settima, composta da esperti in esplosivi e
tecniche di guerriglia urbana che aveva allarmato Paolo Fulci. La settima divisione faceva capo alla rete Gladio, ed era su di essa che indagava Falcone poco prima di morire.

 

PINO ARLACCHI


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