….In attesa di risvegliarci da un sinistro incantesimo che ci fa vivere in un paese che rifiuta la guerra e respinge l’energia nucleare salvo poi ospitare in casa sua senza nemmeno accorgersene interi arsenali di ordigni nucleari vietati dalla Costituzione e che è costretto a miliardi di spese militari a sue spese e a suo danno, al servizio e a vantaggio di un esercito “occidentale” comandato da un generale che ha ricevuto i gradi a Washington e prende ordini dalla Casa Bianca, guardiamoci intorno. Quali sono, in realtà e nel concreto, i “valori dell’Occidente”, al di là di un certo livello di libertà individuale peraltro superficiale e apparente e di un certo livello di comfort e di comodità disponibili soltanto però da parte di chi se li può permettere, vale a dire di strati e ambienti sociali che di giorno in giorno si riducono a vista d’occhio in un contesto di concentrazione della ricchezza, di restringimento dei ceti medi e di allargamento a macchia d’olio della base proletaria-sottoproletaria?
Quel ch’è certo è che le vecchie contrapposizioni sociopolitiche e socioculturali non esistono più. Il processo di globalizzazione, avviato ormai mezzo millennio fa, si è quasi concluso. Lo “stile di vita” e i “modelli culturali” del cosiddetto Occidente sono ormai patrimonio di tutte le upper classes del mondo, le alternative sono ridotte a nicchie per la maggior parte illusorie, l’antitesi Occidente-Oriente è un ferrovecchio. Ma se accettiamo l’equazione Occidente = Mondo della Modernità progressiva e del Privilegio, allora bisogna ammettere che buona parte della nostra Europa – quella del cristianesimo, dell’umanesimo, della philosopie des Lumières – non esiste più, per quanto abbia lasciato alcune patetiche tracce giuridicoformali e psicolessicali. D’altra parte, se all’interno del cosiddetto Occidente paragoniamo il concetto di libertà individuale statunitense (che a destra è libertarian, a sinistra è liberal) a quel pur pochissimo che ancora ci resta di libertà come sinonimo di coscienza civica e di senso di giustizia e di condivisione sociale (nonché, aggiungiamo pure, di “qualità della vita”) ancora vivi in parte della cultura europea, si è costretti piaccia o no a concluderne che l’equazione di cui prima dicevamo non esiste più, che bisogna smetterla di considerare Occidente ed Europa come sinonimi.
Parliamo allora di noi, qui e adesso. “Questa guerra c’insegna a punir”, cantava una vecchia canzone libertaria del ’15-’18 risolta in feroce e disperata parodia della Saga di Santa Gorizia. Ebbene, questa guerra iniziata non già nel 2022, come pur molti ancora gonadocefalicamente ripetono, bensì nel 2014 e forse ancora da prima, c’insegna – ci deve insegnare – a scegliere nuovi parametri e nuovi schieramenti. L’Europa è il piccolo apice nordoccidentale del grande continente eurasiatico: ma dall’indomani della seconda guerra mondiale un’alleanza presentatasi come “difensiva” e rivelatasi ormai come una mostruosa macchina politico-militare di istruzione delle sovranità e in prospettiva delle identità, la NATO sorta come organizzazione di difesa nordatlantica che a suo tempo ha spostato gli USA dalla sua tradizionale area egemonica sul Pacifico e si è quindi profondamente dislocata nel Mediterraneo, in Europa centrale e orientale, nel Vicino e Medio Oriente rischia ora davvero di “annullare l’Atlantico”, o meglio di spostarlo su una linea fluviale che almeno nei disegni di qualcuno mostra di ambire a coincidere con la linea Don-Golfo Persico (non dimentichiamo né la questione israelo-palestinese né la vergogna yemenita).
Dinanzi a tutto ciò, bisogna scegliere: non subito magari, gradualmente e saggiamente senza dubbio, ma con un rigore che ancora non è chiaro a tutti ma che lo diventerà. Ora che l’unanimismo artificiale e forzato “pro-Ucraina” (cioè pro-NATO) comincia a mostrar segni di metabolizzazione mentre sempre più evidente appare che pagheremo noi europei buona parte del peso delle demenziali sanzioni alla Russia, che sono direttamente o indirettamente dirette anche contro di noi, nonché di quelle del riarmo di un esercito “nostro” che noi non comandiamo e che non agisce dietro nostro ordine, resta la decisione di fondo che spetta a noi e solo a noi: se accettare in quanto europei di essere d’ora in poi “ameuropei” (ricordate America amara di Emilio Cecchi?) oppure riprendere un cammino millenario ch’era nostro fino dall’antichità e con sempre più severa consapevolezza dirci “eurasiatici”. Proposta paradossale? Meditate sulle carte geografiche che illustrano il piano One Belt one Road elaborato dal presidente Xi Jinping fino dal 2013; considerate il ruolo che in esso hanno Mediterraneo e Mare del Nord; richiamate quel che a suo tempo De Gaulle e Gorbaciov, in differenti occasioni, ebbero a definire “Casa Comune”; guardatevi dallo scegliere di restar vassalli della grande potenza più indebitata del globo, di rassegnarvi a esser parte di una decadenza che affonda abbracciata a un’altra decadenza in un matrimonio d’interesse stipulato più di sette decenni or sono e che non presenta più alcuna attrattiva. In politica internazionale non esiste vincolo nuziale indissolubile: e quello di allora, benedetto dallo stesso presidente statunitense che aveva premuto il bottone delle bombe di Hiroshima e di Nagasaki.
Oggi, ciascuno di noi europei è chiamato a scegliere se preferisce vivere nella periferia occidentale dell’Eurasia o in quella orientale dell’Ameuropa. Il sole è sempre sorto ad oriente, è sempre andato a morire a occidente. Decidiamo.