In pochi film, come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, è possibile scorgere in maniera così inequivocabile i segni del Destino.
Quel viaggio ad Assisi, innanzitutto, nella primavera del ’63, sui luoghi e tra gli apostoli del messaggio francescano, doveva rivelarsi il contesto ideale non solo per una potente, e presto insopprimibile, spinta creatrice, ma anche per conferire la necessaria profondità di spirito e dottrina ad una religiosità che nell’animo del regista era latente da sempre, e si era manifestata a livello cinematografico – in una forma decisamente originale ed amara ma non del tutto compiuta – appena un anno prima nell’episodio La ricotta del film collettivo Rogopag, introdotto dalla definizione della Passione di Cristo come “la storia più grande che sia accaduta“.
E la “scoperta” dell’interprete del Cristo? Addirittura “drammatica”, l’avrebbe definita più avanti Pasolini. Certo casuale come poche, e decisiva per la vita del giovane protagonista, come lo stesso Enrique Irazoqui e lo studioso Giorgio Manacorda testimoniano nelle inedite interviste appena pubblicate nel libro della collana “Quaderni di Cinemasud” dell’editrice irpina Mephite Pasolini. Scatti rubati, a cura della scrittrice siciliana Cetta Brancato e del fotoreporter e storico di Matera Domenico Notarangelo, che nel ’64 collaborò all’organizzazione del film.
“Fatale”, poi, nell’accezione positiva dell’attributo, si sarebbe rivelato il passaggio di Pasolini a Matera: un seme fecondo di umanità e di cultura, che a più di mezzo secolo – come ben argomenta nella sua ampia testimonianza Notarangelo – rinnova e amplifica il miracolo di un film e di un’identità antropologica che sono da tempo patrimonio inestimabile della comunità internazionale.
LA RELIGIONE DEL SUO TEMPO
A merito di Pasolini va attribuita la straordinaria, profetica capacità di saperli interpretare, e indirizzare in senso progressivo, quei segni del Destino. A partire dalla svolta epocale che si stava prefigurando nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II. Pochi intellettuali del tempo, soprattutto di orientamento marxista ma anche nello stesso mondo cattolico, dimostrarono di saper cogliere con tanta tempestività, e nella sua immensa portata, l’eredità del pontificato di papa Roncalli. Come non ricordare la commossa dedica iniziale del Vangelo secondo Matteo alla memoria di Giovanni XXIII?
Con la sua scelta di realizzare un film su una tematica religiosa, la più ambiziosa e temibile, il poeta-regista di Casarsa riuscì a spiazzare sia l’intellighenzia di sinistra che il clero italiano, contribuendo ad aprire su entrambi i fronti fertili canali di dialogo e rispetto e vistose crepe nelle granitiche contrapposizioni ideologiche.
Da parte marxista questo sforzo venne sottolineato anche da un critico cinematografico severo come Antonello Trombadori, al quale su “Vie Nuove” del 10 settembre del ’64 preme “porre l’accento su quanto il film di Pasolini porta avanti sul terreno delle idee“. Finalmente, sembra suggerire l’intellettuale comunista, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le autorità religiose, poco più di vent’anni prima, avevano condannato la Crocefissione del suo amico Renato Guttuso come “eretica”, bollando l’artista di Bagheria come “pictor diabolicus”.
Le poche (e becere) riserve nei confronti del film vennero soprattutto dagli ambienti della destra, in Italia, e in Francia dai settori radical chic: in una memorabile proiezione a Notre-Dame, davanti a cinquemila persone, il 16 novembre del ’64, toccò a Jean Paul Sartre difendere Pasolini e il suo film dalla contestazione di una parte del pubblico e dagli attacchi del settimanale “Le Nouvel Observateur”.
Davvero significativa, e di portata storica, fu l’accoglienza riservata al film da parte delle autorità cattoliche: dopo il premio per il Vangelo secondo Matteo alla Mostra del Cinema di Venezia arrivò nello stesso 1964 il premio OCIC per il miglior film dell’anno. Non era passato neppure un anno dalle polemiche che avevano accolto La ricotta. Potenza del genio e della poesia di Pasolini. E del coraggio della nuova Chiesa in cammino, per ritrovare il suo popolo.
Nel cinquantennale del film, lo scorso anno, “L’Osservatore romano” poteva definire con legittima convinzione Il Vangelo secondo Matteo “il più bel film mai girato su Gesù”: le gerarchie e i maggiori intellettuali cattolici, per una volta, lo avevano percepito con immediatezza e senza riserve fin dalla “prima” a Venezia. Non era affatto scontato, come ci ricorda lo storico Guido Crainz, in quell’Italia del ’64.
LO STUDENTE CHE DIVENTÒ CRISTO
“Avevo diciannove anni. Ai tempi della dittatura franchista ero membro del sindacato clandestino e, siccome sapevo un po’ di italiano, fui inviato in Italia per contattare intellettuali che facessero conferenze nell’isola democratica dell’università spagnola. Non avevo mai sentito parlare di Pasolini quando andai a trovarlo. Appena aperta la porta, come mi raccontò poi Ninetto Davoli, si accorse subito che ero il protagonista del suo Vangelo. “Ho trovato Gesù” – disse“.
Così Enrique Irazoqui, oggi professore di letteratura spagnola, ricorda nel libro di “Quaderni di Cinemasud” (in collaborazione con l’Associazione “Pier Paolo Pasolini” di Matera) la sua prima e indimenticabile esperienza di attore, sul set del Vangelo di Pasolini.
Dal punto di vista di Pasolini quell’incontro casuale fu altrettanto decisivo.
Dalla sua testimonianza, riportata in Le regole di un’illusione, edito nel ’91 dal Fondo Pier Paolo Pasolini, risalta l’enfasi per quel che allora gli parve una sorta di miracolo: “Una scoperta che avvenne in modo quasi drammatico. Avevo rinunciato già a molti attori, avevo visto migliaia di persone, ormai mi ero arreso. Stavo per prendere un attore teatrale tedesco, quando improvvisamente entro in casa e me lo vedo seduto su una poltrona: eccolo lì, Cristo! Enrique Irazoqui: uno studente catalano che aveva scritto delle cose su Ragazzi di vita e voleva conoscermi. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni“.
Se il Vangelo secondo Matteo rappresentò una svolta per la vita di Irazoqui, l’epifania di Irazoqui a Roma risultò a sua volta determinante per il successo del film.
“Fu un incontro di quelli che soltanto il Destino riesce a combinare – commentò a buon diritto su “l’Unità” David Grieco nel testo dell’edizione in vhs del film. “Perchè Irazoqui, con il suo volto piatto come un’effigie e misterioso come una scultura dell’isola di Pasqua, resta di gran lunga il Cristo più intenso, più magico e più iperrealista che mai si sia visto al cinema. Al confronto, attori pur bravi e sensibili come il Robert Powell del Gesù di Franco Zeffirelli o il Willem Defoe dell’ Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese paiono soltanto dei volgari impostori. A tutt’oggi, la storia del cinema non ha altro Cristo all’infuori di Irazoqui”.
IL SUD DI PASOLINI
Nel volto di Irazoqui, inoltre, il poeta-regista friulano ritrovava quell’archetipo umano di un mondo arcaico e non corrotto che, nella sua preoccupata e lungimirante visione, era destinato ad una imminente estinzione.
In un’ampia recensione a Scritti corsari e alla raccolta di poesia La nuova gioventù, pubblicata su “Il Mondo” il 14 agosto del ’75, lo scrittore Enzo Siciliano (che fu tra l’altro – con Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto ed altri letterati – una delle “partecipazioni speciali” del Vangelo) collocava il rimpianto pasoliniano per la cultura contadina non in una metafisica età dell’oro, quanto verso una reale “età del pane”, quando “gli uomini erano consumatori di beni estremamente necessari”, evocando in questa recensione il Freud del Disagio della civiltà e il sentimento del limite dell’umanità in La Ginestra di Leopardi.
A sua volta testimonia lo storico Giacomo Scotti, che ha ripercorso le tracce del rapporto di Pasolini con la Jugoslavia, e segnatamente con l’Istria: “Era ossessionato dalla minaccia incombente di un “universo orrendo” del potere e del consumo, nel quale avrebbero finito per estinguersi le “storie particolaristiche” e nazionali, sarebbero state crudelmente represse le “diversità”, liquidati il “sentimento”, l'”avventura”, il “romanzesco”, la bellezza; un mondo di “omologazione” tecnologica e di consumismo che avrebbe scatenato l”aggressività individuale'”.
Il Sud di Pasolini è storico, più che geografico; anzi, per essere più aderenti alla sua Weltanschaung, è un Sud pre-storico, arcaico, con i caratteri e il fascino del mito. E’ ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato. Un topos letterario, dunque, che affiora fin dalla raccolta Le ceneri di Gramsci, nel poemetto intitolato L’Appennino, laddove Pasolini sente di ritrovare nelle “meridionali voci” il mondo contadino del Friuli della sua infanzia. Dal Friuli alle borgate romane, al Meridione d’Italia, all’Africa, all’India, fino allo Yemen e all’Iran “si sono susseguite in Pasolini le tappe di un’ininterrotta epifania del Mito, ovvero della ricerca di nuove incarnazioni della mitologia di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati”, rileva Guido Santato in Pasolini: quale eredità? (2005), primo volume dei nuovi “Quaderni di Cinemasud”.
Nel Mezzogiorno appenninico Pasolini era riuscito a trovare le ultime tracce di quel mondo contadino, altrimenti scomparso nell’Europa occidentale, come dichiara nella famosa intervista a Oswald Stack: “Bisogna ricordare che l’Italia era, ed è ancora, in una posizione abbastanza insolita nell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è completamente scomparso nei maggiori paesi industrializzati come la Francia e l’Inghilterra (dove non si può parlare di contadini nel senso classico di questa parola), in Italia, invece, esso ancora sopravvive, sebbene recentemente si sia verificato un suo declino…Il mio rapporto col mondo contadino è molto diretto, come per molti Italiani: quasi tutti noi abbiamo avuto almeno un nonno contadino, nel senso classico di questa parola”.
Ben presto anche l’Italia avrebbe subìto in maniera irreversibile gli effetti dell’omologazione consumistica, e Pasolini mostra di intuirne l’esito fin dai tempi de La ricotta, come rileva nel saggio dello Speciale Pasolini di “Quaderni di Cinemasud” (2004) la giornalista e studiosa di cinema Marika Iannuzziello: “La morte di Stracci sembrerebbe suggerire che il mondo decantato da Pasolini si stesse estinguendo, per lo meno in Italia, tant’è che negli anni successivi l’autore si recherà con sempre più frequenza nei Paesi del Terzo Mondo a ricercare quei volti, quelle facce non ancora segnate dalla nova religione dell’uomo moderno, il consumismo“.
MATERA COME GERUSALEMME
Chissà se Pasolini era a conoscenza di quel dipinto di Carlo Levi – altro nume tutelare del popolo lucano e dell’identità storica di Matera – risalente agli anni del confino, a sud di Eboli, oltre i confini del mondo civilizzato: Grassano come Gerusalemme.
Certo è che trent’anni dopo, anche se per circostanze in parte fortuite, Pasolini si convinse di ritrovare a Matera – più che nella stessa Palestina – l’atmosfera, i luoghi ed i volti dell’epoca di Cristo. La città dei Sassi, scrive David Grieco, divenne nel film di Pasolini l’epicentro di “un Terzo Mondo quasi extraterrestre che porta i nomi di Matera, Gioia del Colle, Crotone, Orte, Montecavo, Barile, Massafra, Catanzaro e la Valle dell’Etna“.
All’epoca fu soprattutto Trombadori, nella citata recensione su “Vie nuove”, a percepire la contaminazione tra linguaggio cinematografico e dimensione antropologica nel film di Pasolini, in particolare “la sua limpida sintesi di mito e di realtà nel quadro d’una ambientazione della vita di Cristo al livello del nostro Mezzogiorno più contadino e sottoproletario – quello stesso Mezzogiorno che Carlo Levi dipinge nel suo quadro Matera (sic) come Gerusalemme e nel suo libro famoso prima che Cristo, vale a dire la moderna civiltà, avesse varcato i confini di Eboli, e che ancora in tanta parte è rimasta tale”.
Un decennio più tardi, su “Il Mondo”, Siciliano avrebbe indicato anche un’ulteriore e peculiare chiave di lettura del Vangelo di Pasolini: la scelta degli “ultimi” da parte di Cristo prendeva corpo nel film attraverso i volti degli interpreti, dai protagonisti alle comparse: “L’aspetto fisico degli uomini, dei “poveri parlanti in dialetto”, era tutt’uno con la loro coscienza morale: l’aspetto della povertà è l’aspetto della bellezza, e insieme quello di un registro di valori che resisteva da secoli“.
Emblematica in tal senso è in questo volume la testimonianza di Notarangelo, che sul set del film di Pasolini a Matera, nel 1964, fu anche attore, nel ruolo del centurione, ma soprattutto collaboratore all’organizzazione ed al casting. Fu a lui che il regista affidò il delicato compito di reperire attori non professionisti per interpretare i persecutori di Cristo: “Bisognava cercare una cinquantina di volti che potessero svolgere il ruolo dei sacerdoti e dei farisei. Io avevo una mia idea di come dovessero essere quelle facce. Dovevano essere, mi precisò Pasolini, “facce stronze e fasciste”. Appunto come le intendevo anch’io“.
Le facce, i luoghi, il carisma di Pasolini e la sua scelta di veridicità – insieme alla fotografia di Tonino Delli Colli, alle musiche, allo straordinario doppiaggio di Irazoqui con la voce di Enrico Maria Salerno – furono i veri “effetti speciali” di una pellicola realizzata con legittime ambizioni ma risorse relativamente limitate per quei tempi. Quella magica fusione di poesia e realtà rivive oggi nella testimonianza e nel percorso iconografico che Domenico Notarangelo ha ricostruito da anni, attraverso scritti, pubblicazioni – Il Vangelo secondo Matera (Città del Sole, 2008) e Pasolini Matera (Giannatelli, 2013) – mostre, sollecitazioni culturali rivelatesi determinanti per la ricomposizione di quel patrimonio di documenti, memorie, rapporti umani che oggi fanno di Matera un polo della cultura europea.
“Io ricordo e rivedo Pasolini – scrive oggi in questo volume di “Quaderni di Cinemasud – nei giorni in cui dirigeva il film nei Sassi di Matera e sulle rocce brulle della Murgia. Lo vedevo sempre assorto nel lavoro, mai distratto, sempre concentrato. Lo notavo mentre confabulava con Enrique Irazoqui fra una scena e l’altra, in un’atmosfera di massima concentrazione, come se stesse recitando o scrivendo i versi di un poema. Sì, a distanza di tempo riesco a rivivere quell’atmosfera come fosse oggi, tutti noi immersi in una calura spietata e in un silenzio assordante e intorno a noi la storia millenaria di caverne dove fino a pochi anni prima c’era stata la vita, dove una volta si avvertivano i rumori e i ragli degli asini, dove si percepiva l’odore del pane fatto in casa e l’umore forte delle vinacce e il tanfo violento dei letamai e delle muffe, gli strilli dei mocciosi e i lamenti delle nonne. Il popolo dei Sassi portava addosso i panni della miseria, sulle facce della gente erano evidenti i solchi delle rughe e dei patimenti. E c’era la disoccupazione di massa. Quel popolo si offriva alla perfezione a rigenerare le folle che seguivano Gesù nell’osanna e nella passione. A quel popolo Pasolini non concesse benefici economici poiché misero era il compenso, ma diede lustro e identità, mostrandolo agli occhi del mondo nella nudità della sua condizione di vergogna nazionale e di custodi della dignità umana“.
Di quel popolo e di quella storia (davvero – possiamo dire parafrasando La ricotta – una delle più grandi accadute a Matera e nel Sud) e dei protagonisti del film, primo fra tutti Pasolini, le fotografie di Notarangelo ci restituiscono una icastica dimensione di verità e quella corporeità concreta, umana, lontana anni-luce dalla mitografia eppure capace di trasmetterci una sensazione ineffabile di emozione e poesia. La stessa avvertita con intensità dai visitatori della sua mostra sul Vangelo secondo Matteo da Parigi a Bologna, da Roma a San Pietroburgo, da Trieste all’Irpinia che grazie a Pasolini vide nascere il festival del cinema neorealistico “Laceno d’Oro” e che nel suo nome ha ripreso nel cinquantennale del Vangelo il suo nuovo percorso.
La testimonianza in forma di ricordo e di immagini di Domenico Notarangelo, unita nel volume di “Cinemasud” ad avvincenti interviste e ai notevoli saggi di Cetta Brancato, Angelo Fàvaro e Salvatore Ferlita, rappresenta un contributo originale e prezioso per far rivivere la magia di quel film straordinario e la realtà di un’epoca consegnata alla Storia. Con una memoria tenace e commossa, intensamente partecipe ma sempre veritiera e concreta, del tutto in sintonia con la sensibilità ed il rigore intellettuale di Pier Paolo Pasolini.
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