Come un monito, per noi uomini: leggiamo, meglio se sillabando, per non perdere una virgola di questo ‘stupro’ verbale. “Non è stato uno stupro, non c’è prova che quel marito sia stato un violento perché”, così la pensa una magistrata protetta chissà perché dall’anonimato mediatico, “è considerazione comune degli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nella stanchezza delle incombenze quotidiane tende ad esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale” (la Repubblica). Con questa ultra maschilista motivazione, la magistrata di Benevento chiede che sia archiviata l’accusa contro l’ex marito di una donna costretta a vivere in un centro anti violenza. La Pm definisce il coltello alla gola dell’ex moglie e la minaccia di ucciderla “uno scherzo di cattivo gusto”. La vittima ha denunciato di essere stata stuprata e violenze anche nei confronti dei figli. La magistrata lascia intendere che l’uomo non sarebbe stato consapevole del ‘no’ della moglie, della sua ‘non consensualità’. La delirante formula è evocata sistematicamente da chi commette lo stupro e tenta di discolparsi affermando che la vittima era consenziente. In poche parole: poveri mariti, vorrebbero far sesso con le compagne, ma ricevono un rifiuto. A questo incredibile alibi manca solo l’aggravante dell’accusa alle mogli di aver peccato per non corrispondere alla raccomandazione sacerdotale che invita gli sposi all’obbedienza reciproca.
Il commento di Nancy Brilli (da ‘Leggo’): “Una donna denuncia il marito per violenza sessuale, per il magistrato non c’è violenza ‘perché, si sa, l’uomo deve vincere le resistenze della moglie stanca’. Cerchiamo di capire: il rapporto è stato consensuale? No. È stato ottenuto con la violenza? Sì. Con coercizione? Sì. Ha provocato danni psico fisici? Sì. Stupro, nella definizione dei dizionari è ‘congiungimento carnale imposto con la violenza’. Da sentenza approvata, è ammissibile anzi, è normale brutalizzare la moglie se la stessa è stanca, se non ha intenzione, non ce la fa. Il marito voglioso non cerca di essere delicato, dolce, avvolgente, di provocare in lei una scintilla che possa portare a un atto condiviso, se non d’amore…No. Si piglia quel che vuole, e lei muta. Che poi muta non è stata, ma è stata ammutolita da chi avrebbe dovuto difenderla”.
C’è anche questo a drammatizzare il numero di donne uccise da mariti, fidanzati, compagni: nel mondo circa 90mila in un anno, 1500 in Europa, quattro al giorno, una ogni sei ore, oltre cento in Italia. Ieri l’ultima vittima, la romena Michaela Kliecs. Con trenta coltellate l’ha uccisa nel cagliaritano Sandro Sarais, poi suicida.
Francia, 285 femminicidi nel 2019, 276 in Germania, 111 in Italia. Allucinante il numero di denunce rispetto al numero delle violenze. Meno del 10%. L’Istat stima in 7 milioni il numero delle donne che hanno subito violenza fisica nel corso della vita, a 9 milioni i casi di violenza psicologica. Perché così poche denunce? Perché la maggior parte degli autori rimane impunito? Una delle ragioni è nella mancanza di concrete risposte alle denunce, perciò scoraggiate, nella paura di pericolose ritorsioni prima di ottenere la tutela dai violenti, nel timore di non essere credute, o peggio, di essere oggetto dell’ignobile accusa di ‘esserci state’. Non è infrequente assistere a forme di comunicazione sessiste, che cercano di colpevolizzare le vittime. Un problema nel problema: nel 96% dei tribunali non c’è preparazione a leggere la violenza. Nella maggior parte dei casi il reato viene derubricato a conflitto e così lo pone fra persone che stanno sullo stesso piano, ma la violenza avviene all’interno di una relazione asimmetrica, è violenza, non riconosciuta.
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