Ci ronza ancora nella testa l’eco delle mille e più mille parole che ci hanno inondati durante la settimana dedicata a contrastare la violenza sulle donne. Fiumi di suoni, frasi solenni, artisti in primo piano ad incitare le donne: Denunziate! O a bastonare gli uomini: Cambiate!
La colpa è delle donne che hanno paura di denunziare. No, sono gli uomini incapaci di reprimere il loro lato violento. Macché, la colpa l’abbiamo tutti noi che non abbiamo saputo aiutare le vittime, i media, la società intera, la scuola… E nessuno, mai nessuno, che abbia avuto il coraggio di puntare l’indice contro coloro che, di questo flagello dell’umanità, sono stati complici: quei magistrati che hanno rimesso in libertà i carnefici, quei magistrati che hanno addirittura condannato le donne che avevano denunziato gli aguzzini. Quei magistrati che frettolosamente hanno messo sui loro corpi sfigurati la pietra tombale della parola “suicidio”, perché è la versione più “comoda” e a molti inquirenti evita tanto e tanto lavoro. Un bel “suicidio” e si passa appresso. L’importante è che “le carte” stiano a posto.
La verità è che col timore reverenziale verso la magistratura non si va da nessuna parte e tutto il mare di paroloni, di musiche, di sceneggiature televisive, suona come una beffa per le tante madri che piangono le figlie uccise dai compagni.
Possibile – si domandano ancora, con rabbia – che lo Stato non avesse risorse umane necessarie per comminare punizioni esemplari agli assassini, che suonassero da avvertimento a quelli che tuttora ci provano, ad ammazzarle?
Possibile. Anzi, certo.
Basta ricordare per sommi capi la via crucis di Tiziana Cantone, o meglio di sua madre, che dopo anni non si è arresa e quella pietra tombale del presunto “suicidio”, opportunamente calata da qualche magistrato – più di uno – sull’omicidio della figlia, è riuscita finalmente a farla rimuovere.
A maggio del 2015 Tiziana aveva sporto denunzia per alcuni video che circolavano sul web e la ritraevano durante momenti intimi.
Alla Polizia postale di Barra, quartiere periferico di Napoli, qualcuno ricorda ancora l’andirivieni della giovane donna, sempre in attesa di una risposta da parte del magistrato per la rimozione di quei video. Ma quella risposta sembrava non arrivare mai. Quando arrivò, fu ancora peggio: i video furono in parte rimossi, ma la ragazza fu condannata a risarcire con 20.000 euro i social network.
Da quella mazzata giudiziaria Tiziana non si è più ripresa. Nessuna vittima si sarebbe potuta riprendere. Poco dopo, il 13 settembre 2016, fu rinvenuto il suo corpo esanime appeso ad una pashmina, una di quelle sciarpe indiane che andavano di moda fra le ragazze. E qui arriva la legnata finale: la Procura decretava subito che si era trattato di suicidio. Non così la tenace madre, Teresa Giglio, che a quella versione dei fatti non si è mai arresa. Anche perché nessun magistrato aveva mai disposto, dopo la morte, l’autopsia sul corpo della figlia. Lo ha chiesto lei, pur stravolta dallo strazio, ma alla disperata ricerca della verità. E nel 2020 è riuscita a far accertare che non fu suicidio, che quella pashmina non avrebbe potuto sostenere un corpo come quello della giovane ma, soprattutto, che su quella sciarpa vi sono tracce di un Dna maschile.
Teresa sta ancora lottando come un leone contro quella costola dello Stato che tuttora osa emettere sentenze “in nome del popolo italiano” e pretende di farsi chiamare “Giustizia”. Perché lei, per la fine della sua Tiziana, la Giustizia la vuole davvero, è tutto quello che le resta.
Ma quante Teresa Giglio ci sono in Italia? E quante altre madri, piegate dal dolore, soccombono invece sotto versioni giudiziarie dei fatti che gridano vendetta?
Quante puntate di Chi l’ha visto dobbiamo ancora attendere, perché finalmente si trovi un magistrato dalla schiena dritta che faccia davvero luce sulle tante donne come Tiziana, sepolte sotto l’omertà delle carte giudiziarie e uccise due volte, dai magistrati prim’ancora che dai loro carnefici?
Perciò, vi prego, il prossimo anno basta con la retorica del 25 novembre. Altrimenti questa “Giornata nazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” resterà solo una inutile, beffarda passerella di artisti ed autorità. Di alti moniti ne abbiamo abbastanza, se non si traducono nella individuazione, con nomi e cognomi, dei magistrati responsabili almeno quanto gli assassini. E nella loro severa punizione al cospetto dell’Italia intera.
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