La resa di Nicola

Leggo dell’exploit al vetriolo dello straripante Fiorello (a tratti insopportabilmente accentratore nel surreale vuoto pneumatico dell’Ariston), ovvero quanto fedelmente riportato dalle migliaia di dissertazioni festivaliere, su cui si è tuffato l’intero media system, in euforia per la feconda alternativa alla narrazione quotidiana al tormentone Covid. Ha detto Fiorello: “Non è un buon momento per me, non è un monologo comico, sono affranto. Sono affrantissimo, mi ero limitato a due battutine su Zingaretti. E lui si dimette, per due battutine. ‘Mi dimetto perché qui si parla di poltrone’. E di cosa vuoi che si parli Zingaretti? Mi sento in colpa. C’è il Pd, amici del Pd, senza segretario. Il ministro della cultura Franceschini diventa segretario del Pd. Un consiglio per Zingaretti, o ti candidi sindaco di Roma o fai l’opinionista dalla D’Urso”. Che dire, anche le pulci, alimentate da notorietà, finora meritata, debordano per mancato auto controllo.

Il fulmine, a cielo tutt’altro che sereno, del forfeit di Zingaretti è cosa di evidente gravità. Spiazza i precari equilibrismi di Draghi, nodo incombente e non ancora pienamente esplicito, di un esecutivo che mette insieme lana e seta, perciò esposto a intenzioni disfattiste in agguato, a tiri mancini in crescendo dei ‘congiunti in matrimonio’, che fingono ravvedimento democratico, ma disseminano l’accidentato percorso del governo di trappole (leggi Salvini, ndr). L’eclettico Fiorello, potenziale collega dei cantanti in gara per il serial Festivaliero numero 71, deborda e spreca il consenso che gli è dovuto per le autorevoli performance canore. Passi, solo per generosità, il malvezzo della provocatoria licenza verbale con cui ha sdoganato in televisione le nobili parole ‘culo’ e ‘cazzo’.  Il peggio è altrove, nell’insolente ironia di una gag di dubbia legittimità sull’addio di Zingaretti. Svilisce un evento di grave impatto sul delicato, oneroso compito del governo.

Di là dagli effetti collaterali delle dimissioni, che squarciano un velo pietoso, steso per nascondere lo stato precario di salute etica, oltre che politica dei democratici, l’impulso destabilizzante di Zingaretti a sbarcare dalla nave in avaria del Pd, è un insieme di coraggio e di impotenza. Nicola, navigato uomo della politica, ha percepito sicuramente di non impersonare il ruolo di leader carismatico. Forse nasce da questa inconsistenza il disagio di dover dominare la discordia tra componenti pressoché incompatibili interne al Pd e il serio disappunto per risse per nulla ideologiche, innescate (parole di Zingaretti) da voracità per poltrone di prima fila nel parterre del potere. La quieta, al tempo stesso trascinante saggezza di Cuperlo, coerente ideologo dem (perciò ai margini del partito?) invita il segretario, non per mera empatia, a rivedere l’irrevocabilità delle dimissioni, consapevole che nel day after, a colmare la vacanza del ruolo sarebbe lo stesso gruppo dirigente e forse un nuovo assalto al forte di Renzi, rottamatore seriale.

Nel dna di questo Pd, c’è ancora un residuo di appartenenza alle idee guida della sinistra? Rispondere ‘no’, convinti di essere nel giusto, provoca lo choc del pensiero “compagni, basta poltrone, attacchi personali, correnti l’una contro l’altra armate” che conclude il ciclo Zingaretti. Insomma, il ‘no’ rischia di annunciare un futuro di discontinuità dell’Italia democratica, preda di soggetti come Salvini, Meloni, di partner collaterali come Casa Pound, Forza Nuova e neofascismo sparso, per ora dormiente, o quasi.


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