Un giallo ancora avvolto nel mistero dopo sedici anni esatti.
E’ la storia del giovane urologo siciliano morto “suicida” nella sua casa di Viterbo, Attilio Manca, il quale – secondo i pentiti – ha operato di prostata in una clinica di Marsiglia il boss latitante Bernardo Provenzano.
Adesso i genitori di Attilio, ossia Angela e Gioacchino Manca, chiedono con forza la riapertura del caso e si rivolgono al presidente della terza sezione penale della Corte d’Appello di Roma, Gustavo Barbalinardo.
Ricostruiamo, per sommi capi, il giallo.
La mattina del 12 febbraio 2004 il corpo del giovane medico viene ritrovato senza vita nell’abitazione di Viterbo. Vengono ritrovate due siringhe. Subito gli inquirenti pensano al suicidio, via overdose di eroina.
Le indagini sono affidate alla squadra Mobile di Viterbo, all’epoca guidata da Salvatore Gava, condannato in via definitiva per falso ideologico e abuso di funzioni in occasione del processo per i fatti al G8 di Genova.
Indagini superficiali, rabberciate. Incapaci persino di appurare delle evidenze. Soprattutto una. Manca era mancino, neanche ambidestro. Faceva tutto con la sinistra. Eppure i fori delle siringhe sono sul braccio sinistro. Come mai nessuno ha voluto approfondire tale fondamentale circostanza?
“Lacunosissima” – come la definisce la Relazione della Commissione parlamentare antimafia – perfino l’autopsia.
Sembra, per certi versi, di ritrovarsi davanti alla scena del crimine nel giallo di Marco Pantani, zeppa di anomalie non riscontrate dagli inquirenti: e Marco fu ucciso facendogli ingerire una dose letale di coca. Ed anche in quel caso svariati pentiti hanno raccontato come sono andate le cose in quel Giro d’Italia 1999 comprato dalla camorra.
Torniamo al caso Manca. Secondo tutti i testimoni non aveva mai fatto ricorso a droghe di alcun tipo, tantomeno cocaina ed eroina.
Ancora. Sulla scena del crimine non è stata rilevata alcuna impronta digitale. Possibile mai? Neanche quelle di Attilio: ipotizzabile che, dopo morto, il giovane medico le abbia cancellate?
Vediamo in rapida carrellata le verbalizzazioni di alcuni pentiti.
Il primo a parlare del caso Manca è stato il boss dei casalesi Giuseppe Setola, ‘O cecato. Nelle pagine della relazione della Commissione Antimafia si legge che Setola “riferì ai magistrati di aver appreso in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti che il giovane medico era stato assassinato dalla mafia dopo che era stato coinvolto nelle cure all’allora latitante Provenzano”.
Passiamo al pentito di Bagheria Stefano Lo Verso, il quale in un’udienza del Borsellino quater fa riferimento ad “una statuetta che egli aveva ricevuto dal boss corleonese e che, per la sua provenienza, poteva aiutare a far luce sull’assassinio di Manca”.
Eccoci al collaboratore di giustizia di Barcellona Pozzo di Gotto (da rammentare che anche Attilio era nato nello stesso comune, ndr), Carmelo D’Amico. “D’Amico – viene scritto nella Relazione – sentito dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Messina sul conto di Rosario Pio Cattafi, ha dichiarato che Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese ‘Corda ‘Fratres’, era stato coinvolto nelle cure dell’allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato, con la subdola messincena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell’aspetto e la provenienza calabrese”.
Il perfetto identikit di “Faccia di Mostro”, l’ex poliziotto e poi agente dei servizi segreti Giovanni Aiello, implicato in tanti gialli di Stato.
Non è finita. Parla del giallo anche il pentito Giuseppe Campo. “Il quale – secondo la Relazione – ha rivelato di essere stato contattato per l’uccisione di un medico barcellonese, prima di apprendere che la mafia del territorio aveva poi operato diversamente, uccidendo l’urologo nella propria abitazione a Viterbo e simulando una morte per overdose”.
L’unica imputata in tutto il processo-farsa è una conoscente di Attilio, Monica Mileti, che faceva uso di stupefacenti.
I genitori di Attilio chiedono da anni di poter essere ammessi ad un nuovo processo come parti civili. Cosa fino ad oggi incredibilmente negata per il motivo che “non erano danneggiati dal reato di cessione di droga”, di cui era invece imputata la donna.
Insomma. Una fittissima cortina fumogena, ottima per oscurare le piste che portano alla verità.
Dichiarano, ostinati, i genitori di Attilio: “E’ incredibile il fatto che la giustizia italiana possa pronunciare sentenze impedendo che nei processi entrino le prove sui fatti oggetto del giudizio”. E poi: “non si tratta più del suicidio di Attilio, ma del suicidio morale della Giustizia”.
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