Negli ultimi giorni si sono susseguite critiche molto aspre contro la decisione della Shanghai Pudong New District People’s Court con la quale i giudici cinesi hanno irrogato quattro anni di carcere a Zhang Zhan, cittadina e attivista cinese che, nel febbraio 2020, ha deciso di prendere un biglietto di sola andata con direzione Wuhan per documentare i primi giorni dell’era CoviD-19, spostandosi liberamente tra le strade e gli ospedali della città, nonostante il rigido lockdown imposto da Pechino.
Tra tutti, merita di essere segnalata la presa di posizione dell’Ambasciata britannica a Pechino che, dal suo account ufficiale Twitter, ha tuonato contro la sentenza, sostenendo che il caso Zhang sollevi seri dubbi sulla libertà dei media in Cina, lamentando inoltre difficoltà dell’ambasciatore UK nell’ottenere un colloquio con la Zhang o qualche informazione sul luogo di detenzione. Il tweet si chiude poi con un accorato appello affinché la Cina rilasci tutti coloro che attualmente risultano detenuti per operazioni di reportage.
A ciò si aggiungono colorate ricostruzioni della vicenda dalle colonne dei principali quotidiani europei e USA: il NY Times, ad esempio, riporta la voce di Chen Jiangang, avvocato cinese e attivista politico che sostiene che “ogniqualvolta il partito comunista cinese valuti un caso come politico, ciò che usa è la repressione. Una repressione estremamente cruenta”. Serena Console, dal Manifesto, critica anche lo stakanovismo dei giudici cinesi, segnalando che “nel pieno delle festività natalizie, quando molti paesi occidentali si concedono una pausa, la Cina tiene processi giudiziari per reprimere le voci di dissenso verso il governo centrale. Ma anche per intimorire chiunque voglia raccontare le negligenze del Partito comunista cinese”.
Ma, leggendo l’unitaria alzata di scudi per l’attivista cinese, una domanda sorge spontanea: tutti questi paladini dei diritti civili della Zhang, cosa ci dicono del più pericoloso attentato alla libertà di stampa e di inchiesta perpetrato nell’era contemporanea? Cosa scriveranno il 4 gennaio, quando una corte inglese dovrà pronunciarsi sull’estradizione di Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di carcere per aver rivelato al mondo intero reportage militari segreti che hanno reso di dominio pubblico le terribili atrocità commesse, tra gli altri, dalle truppe a stelle e strisce? Come valutano la gogna giudiziaria e mediatica cui sono stati sottoposti Chelsea Manning o Snowden, considerati ancora oggi come traditori della patria dai principali esponenti della classe dirigente USA?
Non ci sono dubbi: la libertà di stampa e di inchiesta rappresentano baluardi dello stato di diritto in un mondo sempre più globalizzato, ma perché non si risolvano in ipocriti strumenti di pressione e di supremazia politica da attivare all’occorrenza, è necessario che siano garantiti soprattutto dalle principali potenze militari e politiche. Proprio quelle potenze che si considerano “democrazie mature” e che, come tali, dovrebbero sostenere con coraggio un giornalismo che metta a nudo le contraddizioni e i crimini commessi dagli apparati statali e dalle big companies.
Con queste poche righe, e aiutandoci attraverso una testimonianza di alto profilo, come quella del relatore speciale ONU sulla Tortura Nils Melzer intervistato da Republik (la versione integrale dell’intervista è consultabile qui), vogliamo provare a ricostruire la vicenda che, dal 2010, ha causato l’ingiusta detenzione di Julian Assange in territorio europeo, in pregiudizio al suo diritto ad un giusto processo e a condizioni di detenzione rispettose dei diritti umani.
WikiLeaks: le prime pubblicazioni
Tutto inizia nel 2006, quando Assange fonda WikiLeaks, organizzazione internazionale senza scopo di lucro che raccoglie in modo anonimo documenti coperti da segreto di stato e li diffonde attraverso la propria pagina web. Da allora sono stati pubblicati oltre 10 milioni di documenti autentici, tra cui si annoverano registri della guerra in Iraq e in Afghanistan, file contenenti i resoconti di “interrogatori” e “trattamenti” a cui sono stati sottoposti i detenuti di Guantanamo, oltre a rivelazioni su abusi perpetrati da vari governi.
Nel 2010, grazie a Chelsea Manning, analista dell’intelligence delle forze armate statunitensi, WikiLeaks pubblica circa 400.000 report sulla guerra di invasione in Iraq, dai quali risultano chiare le responsabilità dei militari USA per abusi perpetrati nei confronti di civili (guerra, vale la pena ricordarlo, dove sono stati registrati circa 109 mila morti tra gli iracheni).
Tra questi, si ricordi l’uccisione dei 700 civili che si erano “avvicinati troppo” ad un checkpoint militare o il famoso attacco del 2007 a Baghdad (documentato nel video “Collateral Murder” pubblicato da WikiLeaks) in cui l’equipaggio di un elicottero ha letteralmente falciato un gruppo di 19 cittadini iracheni inermi, inclusi due impiegati dell’agenzia di stampa Reuters. Melzer, a riguardo, ci riferisce che “potrebbe anche darsi che una o due di queste persone fossero armate, ma ci sono dei feriti presi di mira deliberatamente. Questo è un crimine di guerra. «È ferito,» si sente dire a un soldato. «Sto sparando.» E poi ridono. Poi arriva un furgone per salvare i feriti. Il guidatore ha due bambini accanto a sé. Si possono sentire i soldati dire: Beh, è colpa loro se portano i bambini in guerra. E poi aprono il fuoco. Il padre e i feriti vengono uccisi all’istante, mentre i bimbi sopravvivono con gravi ferite. Attraverso la pubblicazione del video, siamo diventati testimoni diretti di un massacro criminale ed irragionevole”.
Le accuse per molestia sessuale in Svezia
E dal 2010 la vita di Julian Assange cambia: nell’agosto di quell’anno, infatti, le autorità svedesi aprono indagini preliminari per presunte molestie sessuali a danno di due donne. Il reato contestato consisteva nell’aver avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti, con A.A. (militante femminista, segretaria dell’associazione “Brotherhood Movement” e autrice di una “Guida alla vendetta contro il partner” pubblicata sul web) e S.W., e di essersi successivamente rifiutato di sottoporsi a un controllo medico sulle malattie sessualmente trasmissibili, condotta considerata criminosa dalla legge svedese.
Ebbene sì: accuse gravi e infamanti che hanno causato ad Assange 7 anni di arresti domiciliari, archiviate definitivamente con un nulla di fatto solo nel 2017.
Provando a ricostruire i fatti di quel lontano 2010 attraverso il racconto di Melzer, ci accorgiamo che la vicenda – in cui si susseguono depistaggi, fughe di notizie, interpretazioni e interpolazioni delle deposizioni, oltre a silenzi assordanti delle autorità svedesi – è a dir poco agghiacciante:
“Il 20 agosto 2010 una donna di nome S. W. entrò nella stazione di polizia di Stoccolma assieme ad una seconda donna chiamata A. A.
La prima donna, S. W. disse di aver avuto un rapporto sessuale con Julian Assange, ma che lui non aveva usato il preservativo. La donna temeva di essere stata contagiata dall’HIV, e voleva sapere se fosse possibile obbligare Assange a fare un test per l’HIV. Disse di essere davvero preoccupata. La polizia prese nota della sua deposizione e ne informò immediatamente il pubblico ministero.
Ancora prima che l’interrogatorio fosse finito, S. W. fu informata che Assange sarebbe stato arrestato con l’accusa di stupro. S. W. rimase scioccata e si rifiutò di continuare con l’interrogatorio. Mentre era ancora nella stazione di polizia, inviò un messaggio ad un amico dicendo che non voleva incriminare Assange, voleva soltanto fargli fare il test dell’HIV, ma che la polizia sembrava interessata «a mettergli le mani addosso». (…) Ciononostante, due ore dopo, è apparso un titolo sulla prima pagina dell’Expressen, un tabloid svedese, che diceva che Assange era sospettato d’aver commesso ben due stupri (…)”.
Due stupri perché anche la seconda donna, A.A. ha raccontato agli inquirenti di aver avuto un rapporto consensuale con Assange. Durante il rapporto, tuttavia, Assange avrebbe intenzionalmente rotto il preservativo utilizzato dalla coppia, “ma la donna disse anche di essersi accorta della rottura del preservativo solo più tardi. Questa è una contraddizione in termini che avrebbe dovuto assolutamente essere chiarita. Se non se ne era accorta, allora non poteva sapere che lui l’avesse rotto intenzionalmente. Neanche una singola traccia di DNA appartenente ad Assange o ad A. A. fu trovata sul preservativo che venne presentato come prova”.
Assange viene a conoscenza delle accuse di stupro direttamente dalla stampa e riesce ad ottenere un colloquio per rilasciare una deposizione sulla vicenda solo nove giorni dopo la pubblicazione della notizia sui giornali, quando l’accusa di aver stuprato S.W. era già stata da quest’ultima ritirata. Aggiunge Melzer: “la testimonianza della donna fu in un secondo momento modificata dalla polizia di Stoccolma senza che lei fosse coinvolta, in modo da rendere perlomeno plausibile l’accusa di stupro. Ho con me tutti i documenti, le email, i messaggi”.
A questo punto è necessario ricorrere nuovamente alle parole di Melzer per comprendere le ragioni dell’atteggiamento delle autorità svedesi: “Il tempismo è decisivo: sul finire di luglio, Wikileaks aveva pubblicato il «Diario di guerra afgano». Fu una delle più grandi fughe di notizie nella storia dell’esercito americano. Gli Stati Uniti chiesero immediatamente che i propri alleati inondassero Assange di cause penali. Non siamo al corrente di tutta la corrispondenza, ma sembra che la Stratfor, una società di consulenza per la sicurezza che lavora con il governo USA, abbia consigliato ai funzionari americani di sommergere Assange con cause penali d’ogni tipo per i successivi 25 anni (…).
Dobbiamo smettere di credere che ci fosse un reale interesse nel condurre un’indagine sulle molestie sessuali. Quello che ha fatto Wikileaks rappresenta una minaccia alla classe dirigente di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Russia in egual misura. Wikileaks ha pubblicato delle informazioni segrete di stato — loro sono contrari alla classificazione di documenti. E in un mondo dove, anche nelle cosiddette «democrazie mature», la segretezza è diventata dilagante, questa è vista come una fondamentale minaccia”.
Il mandato di arresto internazionale e la prima richiesta di estradizione
Ma torniamo ai fatti: nel frattempo Assange, che si era recato in Svezia per un convegno, fa ritorno a Londra, dove, il 18 novembre 2010, viene raggiunto dalla notizia di un mandato di arresto internazionale spiccato dalle autorità svedesi a suo carico.
Il 7 dicembre 2010 Assange decide quindi di presentarsi spontaneamente negli uffici di Scotland Yard dove viene arrestato per i fatti contestati. Contestualmente, le autorità svedesi ne chiedono l’estradizione.
In un primo momento, attraverso i suoi legali, Assange “propone al pubblico ministero diverse date utili per un interrogatorio in Svezia – questa corrispondenza esiste.
Poi accade questo: Assange viene a conoscenza del fatto che negli USA è stato aperto un procedimento segreto contro di lui. All’epoca, la cosa non è stata confermata dagli Stati Uniti, ma oggi sappiamo che era vera. Da quel momento in poi l’avvocato di Assange ha cominciato a dire che il suo cliente è pronto a testimoniare in Svezia, ma chiede prima la garanzia diplomatica che la Svezia non lo estradi negli Stati Uniti”.
La Svezia non ha mai accettato di fornire ad Assange tale garanzia e, anzi, aggiunge Melzer: “gli avvocati dicono che, durante i quasi sette anni nei quali Assange ha vissuto nell’ambasciata ecuadoregna, hanno presentato più di 30 richieste per organizzare una visita in Svezia di Assange in cambio della garanzia di non estradizione negli USA. Gli svedesi hanno sempre rifiutato di concedere tale garanzia dicendo che gli Stati Uniti non avevano presentato alcuna richiesta formale di estradizione”. Melzer precisa che nella prassi diplomatica e giudiziaria tali garanzie vengono accordate di frequente, soprattutto in assenza di richieste formali di estradizione.
Il 16 dicembre 2010, dopo nove giorni di carcere, Assange viene rilasciato su cauzione e il 2 novembre 2011 l’Alta Corte di Londra dà il via libera all’estradizione richiesta dalla Svezia.
Concessione e revoca dello status di rifugiato politico: lo strano caso dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra
Nel giugno 2012, dopo che la Corte Suprema britannica ha rigettato il ricorso presentato contro l’estradizione, Assange decide di recarsi presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, chiedendo asilo politico in quanto perseguitato.
Dal 16 agosto 2012 (data in cui il governo del socialista Rafael Correa gli concede lo status di rifugiato politico), Assange rimane per oltre 7 anni confinato all’interno dell’ambasciata ecuadoregna, costantemente presidiata da militari UK. A ciò si aggiunga che, come emerso solo nel 2019, durante gli anni della permanenza in ambasciata, le autorità britanniche hanno sottoposto Assange a un sofisticato sistema di spionaggio quotidiano che ha interessato anche i momenti di colloquio con i suoi avvocati.
Nel 2019 cambiamenti ai vertici governativi in Ecuador causano una repentina e inusuale revoca dell’asilo politico: nella prima mattinata dell’11 aprile 2019, agenti della polizia metropolitana di Londra entrano nell’Ambasciata e prelevano Assange contro la sua volontà, conducendolo in carcere.
Anche su questo punto, Melzer: “nel 2017 in Ecuador fu eletto un nuovo governo con il quale gli Stati Uniti erano pronti a collaborare. C’era ovviamente molto denaro in gioco, ma restava un ostacolo da superare: Julian Assange.
La collaborazione tra le due nazioni sarebbe stata possibile solo se l’Ecuador avesse consegnato Assange. A quel punto, l’ambasciata ecuadoregna cominciò ad aumentare la pressione su Assange. Fecero di tutto per rendergli la vita difficile. Ma Assange resistette. Allora l’Ecuador annullò la sua amnistia e diede il via libera al Regno Unito per arrestarlo. Visto che il governo precedente gli aveva concesso la cittadinanza ecuadoriana ad Assange fu revocato anche il passaporto, perché la costituzione dell’Ecuador proibisce l’estradizione dei propri cittadini. Tutto ciò ebbe luogo da un giorno all’altro senza alcun procedimento legale. Assange non ebbe la possibilità di rilasciare dichiarazioni né di fare ricorso. Quello stesso giorno fu arrestato e portato davanti a un giudice inglese, che lo condannò per violazione dei termini di cauzione”.
Sul punto riportiamo la farneticante analisi di Andrea Romano, deputato PD che, l’11 aprile 2019 – con un tempismo da record e confermando che tra le fila del PD ci si ricorda di essere garantisti solo tra amici – definiva Assange come “una spia russa” al soldo di Putin che, come tale, meritasse di essere consegnata alla sacra giustizia del padrone a stelle e strisce.
Belmarsh e la seconda richiesta di estradizione
Il 2 maggio 2019, per aver violato nel giugno 2012 i termini della libertà su cauzione essendosi recato nell’ambasciata ecuadoregna, Assange è stato condannato quasi al massimo della pena dal giudice Deborah Taylor della Westminster Court, 50 settimane (la metà in prigione e il resto in libertà condizionata) da scontare nel carcere di massima sicurezza HM Prison Belmarsh, definita come la Guantanamo britannica.
E qui ricominciano le assurdità. Per una violazione della libertà su cauzione: 50 settimane di detenzione in un carcere di massima sicurezza, isolamento del detenuto, nessun accertamento sulle condizioni psico-fisiche (che gli avvocati descrivono come in acclarato degrado), spionaggio costante di qualsiasi comunicazione con i legali (non previsto neppure in regime di 41bis). Tale trattamento è stato fortemente criticato anche dall’Human Rights Institute dell’International Bar Association, ovvero dalla più grande organizzazione mondiale di professionisti del settore legale, perchè incompatibile con quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
Nel frattempo, Assange è stato raggiunto da un’altra richiesta di estradizione proveniente, questa volta, direttamente (e formalmente) dagli Stati Uniti. Ad Assange vengono in questo caso contestati ben 17 capi di imputazione per la violazione di numerosi articoli dell’Espionage Act e del Computer Fraud and Abuse Act, per un totale complessivo (in caso di pena massima) di 175 anni di reclusione.
Perché l’estradizione di Julian Assange non deve essere concessa
Il 4 gennaio l’Inghilterra sarà chiamata a pronunciarsi su questa richiesta di estradizione. Cosa spetterà ad Assange se venisse accordata?
Oltre ad una pena spropositata, giudicata anche da Amnesty International e dal Relatore Speciale ONU, come “inumana” (e ben lontana dai 4 anni irrogati alla Zhang), si deve aggiungere che non gli verrà concesso un procedimento conforme allo stato di diritto.
Sempre Melzer: “Questa è un’altra ragione per cui non dobbiamo permettere che sia estradato. Assange sarà processato da una giuria ad Alexandria, Virginia — dove opera la famosa Corte di Spionaggio che tratta ogni caso di sicurezza nazionale negli Stati Uniti. La scelta del luogo non è casuale, perché i membri della giuria sono scelti in rapporto alla popolazione locale, e l’85% dei residenti di Alexandria lavora nel contesto della sicurezza nazionale — nella CIA, nella NSA, nel Dipartimento della Difesa e nel Dipartimento di Stato. Quando qualcuno viene processato per aver compromesso la sicurezza nazionale davanti ad una tale giuria, il verdetto è già scritto fin dall’inizio. I processi avvengono sempre davanti allo stesso giudice, a porte chiuse e sulla base di prove riservate. LÌ nessuno è mai stato assolto per un caso simile. Di solito finisce che la maggior parte degli imputati raggiungono un accordo, in cui ammettono una parte della colpa per ottenere una pena ridotta”.
Se Assange venisse estradato, quindi, non avrà alcuna possibilità: non gli verrà concesso di difendersi, come non gli è stato concesso negli ultimi 10 anni. Finirà in qualche carcere di massima sicurezza nel quale passerà il resto della sua vita, nel migliore dei casi.
E il messaggio che passerà sarà chiaro: un giornalismo di inchiesta che riveli verità scomode deve essere punito e ridotto al silenzio. Un giornalismo di inchiesta che metta gli Stati di fronte alle proprie responsabilità storiche e politiche sui metodi di esercizio del potere deve essere portato al silenzio. Rivelare crimini di guerra è un crimine terribile, molto più grave di quello perpetrato dal criminale in divisa che ha ucciso, sogghignando, civili e bambini inermi.
Difendere, quindi, la libertà di Julian Assange non significa solo occuparsi del suo caso individuale. Non significa neppure solo difendere la libertà di stampa. Difendere la libertà di Julian Assange significa pretendere che gli apparati apicali statali, le agenzie di intelligence, i militari, i giudici siano responsabili del proprio operato. Significa pretendere che questi soggetti si muovano ed operino secondo i principi dello stato di diritto. Significa garantire la libertà di soggetti che, a proprio modo, pongano limiti all’azione delle principali potenze (siano esse di natura pubblica o privata), per evitare che queste si muovano alla stregua degli stati assoluti, svincolati dal rispetto della legge e protetti da una rigida coltre di segretezza.
Tratto da
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