Bella e coraggiosa l’iniziativa di organizzare, a Napoli, il Festival internazionale di giornalismo “Imbavagliati”, per dare voce – come sottolineano i promotori – “a quei giornalisti più volte minacciati, censurati o perseguitati”. Giornalisti che rischiano la vita ogni giorno per raccontare le tragedie dei loro paesi, le dittature che impediscono di vivere e raccontare, le ingiustizie patite quotidianamente. Arrivano dal Marocco, dal Messico, dalla Colombia, dalla Turchia o dal Camerun, per citare solo alcuni paesi di provenienza.
Un tema che nel nostro Paese affronta ogni giorno il coraggioso sito “Ossigeno per l’Informazione” diretto da Giovanni Spampinato, un fratello ucciso dalla mafia che non ha mai avuto giustizia. Ossigeno segnala tutti i casi di minacce, intimidazioni, violenze sui giornalisti, non solo da parte delle mafie, ma a volte provenienti anche dai palazzi del Potere. Negli ultimi mesi ha posto l’accento – anche in vista della nuova legge sull’informazione – sulle intimidazioni che spesso e volentieri arrivano per via giudiziaria, con le citazioni civili milionarie sparate dal potente di turno per chiudere la bocca al giornalista scomodo (spesso un free lance abbandonato al suo destino dall’editore).
Agli organizzatori, invitati e partecipanti di “Imbavagliati”, vorremmo segnalare un piccolo caso, quello della Voce, che dopo trent’anni meno un mese di vita (aprile 1984-marzo 2014) è stata costretta a chiudere. Una storica testata anticamorra, come testimoniano le decine d’inchieste sui Palazzi del potere e soprattutto sulle connection mafie-politica-imprese, dal dopo terremoto dell’80 in poi.
Dopo tante minacce e intimidazioni di Camorra & C. nel corso di questi anni, incredibile ma vero, siamo stati uccisi per mano giudiziaria: una sentenza “civile” – sic – pronunciata dal tribunale di Sulmona che nel 2013 ci ha condannati a 95 mila euro, ora già lievitati a 150 mila. Il motivo? L’articolo di un giornalista Rai, Alberico Giostra (poi autore de “Il Tribuno” su Antonio Di Pietro) pubblicato sulla Voce nel 2008 e relativo alla maturità di Di Pietro Junior, Cristiano, nel quale si parlava di un aiuto ricevuto, per superare la faticosa prova d’esame, dalla preside sulmonese Annita Zinni, storica amica della famiglia Di Pietro. Lesa maestà? Accuse di collusioni mafiose? No, una storia da tutti conosciuta nel Molise e oltre, e già riportata dai media. Bene, la Zinni avverte un “patema d’animo”, certificato da un’amica psicologa (che non serve per attestare danni biologici, come invece succede), il giudice nomina un Ctu (altro psicologo), al processo il teste base risulterà Aura Scarsella, pm dello stesso tribunale, collega e amica del giudice che ci condanna. Peccato che nel frattempo la Zinni sia stata tanto “turbata” da compiere una fulminea escalation in Italia dei Valori, partito che la acclama segretario provinciale dell’Aquila a luglio 2010. Un “turbamento” da risarcire però, stando alla sentenza di Sulmona, con 95mila euro, alla faccia degli operai massacrati sul lavoro che, per ottenere un risarcimento da 15 – 20mila euro, debbono sottoporsi giustamente al severo vaglio di commissioni mediche e militari. Come i 40 mila euro assegnati ad un operaio della Thyssen gravemente ustionato nel rogo, che ha visto ardere uno dopo l’altro i suoi compagni di lavoro. Mentre solo un mese fa i naufraghi del Costa Concordia sono stati risarciti con somme che in media non superano i 30mila euro.
Risultato di tutto? Ci spellano vivi. Veniamo messi al patibolo senza la possibilità di difenderci. Calpestati, violati nei diritti più elementari, spogliati di ogni bene. Possibile? Nel nostro Paese – non in Turchia o in Nigeria – sì. Ci tagliano anche la testata (in attesa dell’Isis per la testa).
Ecco, brevemente, come. Una scientifica strategia di killeraggio senza spargimento di sangue. In guanti bianchi.
Una raffica di pignoramenti, come uno tsunami, arriva non solo a noi, ma a tutte le banche e istituti finanziari italiani e presso i cosiddetti terzi. Esito. Rastrellano i pochi spiccioli che abbiano sul conto corrente di Banca Etica, nonché le 10 azioni in nostro possesso (sic) e l’unico ossigeno rimasto, ossia quel piccolo fondo stanziato dalla presidenza del consiglio per rimborsare le spese della carta. Per il resto, terra bruciata: non possiamo più avere rapporti con le banche, siamo braccati come neanche i peggiori mafiosi, e tutto ciò – ricordiamo, per una sentenza di primo grado – sarà a vita, visto che qualsiasi entrata presente e futura verrà automaticamente sequestrata, pena per noi la galera fino ad un anno. Ma in Iran – ci chiediamo – può mai succedere una cosa del genere? Quasi certamente no, visto che la tv di Stato iraniana ha dedicato un ampio servizio al caso Voce delle Voci (http://www.presstv.ir/Video/2015/08/11/424199/Italy-antimafia-commission–journalists-).
Abbiamo osato chiedere che il giudizio di appello si possa svolgere nel più breve tempo possibile, i “motivi d’urgenza” invocati perchè un giornale che non esce muore ogni giorno. Sapete la risposta di lorsignori, le toghe del tribunale dell’Aquila? Multa a noi da 1000 euro per il disturbo, non c’è urgenza, e fissazione – senza aver mosso neanche una carta – a settembre 2016. 2016!
Al tribunale di Napoli, sezione esecuzioni, si dovrà intanto discutere della “vendita all’asta” della testata, come richiesto dalla signora Zinni.
Speriamo ancora nella procura di Campobasso che dopo la nostra denuncia su tutte le anomalie del processo inviata al Csm, al ministero di Grazia e Giustizia, alla procura Generale della Corte d’Appello e, per competenza territoriale, anche alla procura di Campobasso, ha aperto un fascicolo a carico del giudice Massimo Marasca, che ha firmato la sentenza di primo grado. Non da poco l’imputazione: abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. La decisione del gip è attesa per settembre. Speriamo ancora in un giudice a Berlino.
Intanto la Voce non esce da marzo 2014. Dopo quasi trent’anni di battaglie e di controinformazione è stata zittita. Imbavagliata. Sequestrata. La vogliono vendere all’asta, come una partita di provoloni. Perchè tale è ormai, in Italia, il valore dell’informazione.
E hanno sequestrato le nostre vite. La nostra salute. Il nostro lavoro. La nostra professione. Il giornale per il quale abbiamo dato tutto in questi trent’anni. Saranno ben contenti, lorsignori, che una “Voce nel deserto” come la definiva nel 1992 Giorgio Bocca nel su mitico “Inferno”, possa finire, non dar più fastidio ai manovratori, a quella politica ormai arci mafiosizzata, quel blocco unico super istituzionalizzato, le aree grigie, i colletti bianchi, quello Stato fisiologicamente (non patologicamente come un tempo) deviato.
Siamo stati mandati davanti al plotone di esecuzione senza una sentenza definitiva. Un primo grado civile, oggi, in Italia ti può uccidere. Succede – per vie “legali” – in altri paesi? Lo vorremmo sapere dai tanti colleghi “imbavagliati”.
P.S. Siamo felici che ad organizzare l’evento partenopeo ci sia anche Paolo Siani, fratello del giovane cronista ucciso dalla malavita organizzata, autentico simbolo del vero giornalismo contro tutti i poteri mafiosi. Lui certo ricorda che la procura di Napoli archiviò tutto. E fu solo a fine anni ’80 che il pm Lucio Di Pietro riaprì il fascicolo, dopo un’intervista della Voce a un teste chiave, il docente universitario Alfonso Di Maio, guarda caso mai sentito dai precedenti pm, nonostante le sollecitazioni. A raccontare per filo e per segno tutta la storia un bellissimo libro di un altro vero giornalista anticamorra, Bruno De Stefano, nel suo “Giancalo Siani. Vita e morte di un giornalista scomodo”. Il Mattino per il quale Giancarlo ha dato la vita, in quei giorni cosa scriveva? Pista fasulla, si va verso l’archiviazione. Poi il fascicolo è passato ad altri pm, per finire nelle mani di Armando D’Alterio, che ha assicurato alla giustizia i killer. Restano, come al solito in Italia (vedi Falcone e Borsellino su tutti) a volto coperto i mandanti. A quando una Giustizia vera?
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