Nella selva di commenti sul funerale del boss Casamonica, divenuta ormai un insopportabile chiacchiericcio, l’unica parola di verità ci sembra quella pubblicata dal parroco che ha celebrato il rito funebre sul sito web della parrocchia: “Ma che, dovevo arrestarlo io?”. “ Se era un uomo tanto pericoloso – non ha mancato di aggiungere il presule – perché era libero?”.
Mentre il mondo gira intorno alle impronunciabili verità di questo episodio, il prete in poche, fulminanti battute ha sintetizzato lo squallido scenario di una magistratura complice, connivente, asservita, quale quella che ha rilasciato i permessi. E ora si gira dall’altra parte facendo spallucce, sicura come è dell’ennesima prova di impunità e di intoccabilità per una casta ormai superata solo da quella dei mafiosi.
Certo, perché la seconda verità che ci racconta il funerale dai petali di rosa, è proprio questa: nessuno, nemmeno Dio, può giudicare o punire le toghe che colludono, ammazzano, devastano apparati produttivi, sterminano la vita dei poveri cristi, Nessuno. Tranne i super boss. Quelli, s’intende, del calibro di un re di Roma, di un monarca assoluto che da decenni tiene in pugno non solo la capitale, ma anche i tutori dell’ordine pubblico della capitale. E molto altro ancora.
Ci siamo imbattuti nei Casamonica di striscio, cinque anni fa. Stavamo ricostruendo la vicenda di un apparato industriale del casertano che dava lavoro ad oltre cinquecento persone, una delle tante imprese desertificate già nei primi anni della crisi, che un imprenditore venuto da Roma stava cercando di rivitalizzare. Progetto ambizioso: un polo scientifico e tecnologico, in partnership con un ateneo del Sud, pronto a sfidare l’egemonia dei casalesi sul territorio (gli unici, ormai, ad amministrare in zona i posti di lavoro).
Un ordine di cattura per presunta evasione fiscale ha portato agli arresti l’imprenditore. Quasi un anno di custodia cautelare, uffici e documenti sequestrati, privazione totale, per lui, di accedere alla documentazione sul proprio operato, che gli avrebbe consentito di dimostrare in tempi rapidi la sua innocenza.
Il progetto industriale va a monte. I 500 operai, che aspettavano di ritornare al lavoro, vanno ad allungare la fila dei disperati. Quanto all’imprenditore, solo un anno dopo riceve dagli inquirenti un documento dal quale risulta che quella evasione fiscale non c’era mai stata. Si era trattato di un errore nelle verifiche.
Ma intanto tutto il suo patrimonio (non solo l’impresa nel casertano, ma anche altre aziende ed immobili) erano stati affidati dal Tribunale ad un curatore fallimentare. Un nome che va per la maggiore a Roma ed oltre. Lo stesso che era diventato famoso per la curatela dei beni sequestrati ai Casamonica. Hotel, ristoranti, interi palazzi nella capitale, studi medici e tanto altro.
Non sappiamo che fine abbia fatto tutto il ben di Dio del defunto boss e della sua famiglia.
Per quanto ci risulta, invece, i beni dell’imprenditore ingiustamente arrestato sono tuttora sotto sequestro. Decine di imprese sono state chiuse. E i posti di lavoro persi sono oltre un migliaio.
Perciò torna e si fa più assordante la domanda del prete: ma lo doveva arrestare lui il boss Vittorio Casamonica, che Dio lo abbia in gloria? O doveva pensarci la magistratura? Perché era libero, se si trattava di persona tanto pericolosa?
Qualcuno, ora, tiri fuori i nomi dei magistrati. Quelli che sapevano. Quelli che lo lasciavano nella reggia dai rubinetti d’oro.
Tanto, a loro non succederà niente. Ma noi avremo almeno la soddisfazione di conoscerli, quei nomi. Non possono toglierci anche questo.
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