35 anni dall’omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista-coraggio ammazzato per mano di camorra.
Oggi un diluvio di commemorazioni, a cominciare dal solito robot-Mattaralla, che non perde occasione per scoprire l’acqua calda e discettare dell’ovvio.
Ma Giancarlo morì solo. Intorno a lui collusioni, complicità & omertà.
“Doveva Morire”, come è successo per i Moro, i Falcone, i Borsellino. Aveva scoperto – pur così giovane – quello che non avrebbe mai dovuto scoprire: ossia i legami che si facevano sempre più stretti fra politica, affari e camorra.
Troppo presto, quel 1985, dal momento che le fortune di tanti pezzi da novanta della politica made in Campania si stavano consolidando proprio allora, a 5 anni dal fatidico terremoto del 1980, il vero spartiacque perché venisse siglato quel patto scellerato.
La magistratura, anni dopo, consegnerà ai familiari e alle cronache una sentenza che fa giustizia soltanto a metà: condannati gli esecutori materiali di quell’orrendo delitto, gli spietati killer; sempre a volto coperto i mandanti, come del resto è successo in tanti, troppo gialli di casa nostra.
Come mai nel corso degli anni seguenti non è stato fatto alcun passo per andare oltre? Per far luce completa sull’assassinio del giovane cronista del Mattino che aveva osato troppo?
Per assestare un colpo decisivo a quel patto scellerato tra politica & clan che avrebbe poi devastato il tessuto sociale, economico e politico della Campania e non solo?
Vediamo di riavvolgere il nastro e raccontare per sommi capi ai lettori una verità che sui media di regime, sui mezzi d’informazione sempre più omologati e capaci solo di coprire e insabbiare, non ha mai fatto capolino.
I DUE SUPER TESTI SNOBBATI
Le prime indagini, dopo l’assassinio avvenuto in una centralissima piazza del Vomero, cercano di sbattere subito il mostro in prima pagina.
Si tratta di un giovane pregiudicato – l’Agnello per poche settimane sacrificale – che poi risulterà del tutto estraneo al caso.
Tanto basta, a botta calda, per dare ai cittadini l’idea che le forze dell’ordine e soprattutto la magistratura si muovano. Ma non è così.
Tutto fumo. E c’è già il primo odore di depistaggi. Che si confermeranno nei mesi seguenti.
Sarà infatti un frenetico brancolare nel buio, cervellotiche piste seguite, mentre altre, assai più credibili, neanche battute.
E testi cardine, come si suol dire a Napoli, ‘arronzati’, o neanche mai sentiti.
Stiamo parlando, in particolare, di Amato Lamberti e Alfonso Di Maio. Due docenti universitari che conoscevano molto bene Giancarlo, lo stavano frequentando in quel periodo ed erano a conoscenza di tasselli fondamentali che avrebbero subito potuto indirizzare nel senso giusto le indagini. Invece niente.
Storico docente alla facoltà partenopea di Sociologia, per due volte presidente della Provincia di Napoli (di gran lunga il migliore nella storia di quella istituzione), Lamberti è stato il fondatore del mitico “Osservatorio sulla Camorra”, al quale aveva cominciato a collaborare da un paio d’anni Giancarlo. Era il suo pupillo, per lo scrupolo nelle indagini e per la passione civile che infondeva nelle sue ricerche.
La sera prima di essere ammazzato Giancarlo telefona a Lamberti. “E’ bene se domattina presto ci vediamo, ho delle cose da dirti”, taglia corto il giovane cronista. Lamberti coglie nelle sue parole dei segnali di preoccupazione, che cerca poi di illustrare agli inquirenti. I quali, però, non gli danno retta, né ci tengono ad approfondire quanto il sociologo rivela, soprattutto sul fronte delle indagini che Giancarlo stava svolgendo per conto dell’Osservatorio in tema di dopo terremoto & appalti pubblici.
Va ancora peggio a Di Maio, docente di Storia sempre all’Università di Napoli. Cerca per ben due volte di parlare con uno dei magistrati (l’altro è Arcibaldo Miller) ai quali vengono affidate le indagini, il sorrentino Guglielmo Palmeri, ma non ci riesce. Fa anticamera per due volte e viene rispedito al mittente.
Incredibile ma vero.
LA CONTROINCHIESTA DELLA VOCE
E’ la Voce a raccogliere, anche su una cassetta audio, la dettagliata e sconvolgente testimonianza rilasciata da Di Maio. Dove si parla per filo e per segno di un libro choc sugli appalti del dopo sisma che Giancarlo stava per dare alle stampe, mentre a brevissimo era prevista l’anticipazione su un grosso settimanale nazionale.
Una miscela più che esplosiva: quindi il cronista “doveva morire” e del libro perdersi ogni traccia. Tutto studiato perfettamente a tavolino.
Quando l’inchiesta della magistratura è fresca di archiviazione per via delle non-piste inutilmente seguite, a dicembre 1991 esce lo scoop della Voce (titolo della cover story “Il Super Teste”) con le rivelazioni bomba di Alfonso Di Maio, il teste che la procura di Napoli non ha mai voluto ascoltare. E anche con un’intervista ad Amato Lamberti, l’altra autorevole fonte ‘arronzata’.
Fresca di stampa, una copia della Voce viene consegnata dal suo direttore, Andrea Cinquegrani, nelle mani del procuratore Lucio Di Pietro, esperto di camorra. Cinquegrani consegna anche la cassetta contenente la registrazione del colloquio con Di Maio e verbalizza su alcuni aspetti della vicenda, nonché sull’incontro con il docente universitario che ha portato alla clamorosa intervista.
Nei giorni seguenti titola il Mattino: “Si va verso l’archiviazione della nuova pista”.
Incredibile ma vero. Il quotidiano al quale collaborava con tanta passione e professionalità Giancarlo, gioisce circa l’eventuale archiviazione di una pista che avrebbe potuto contribuire a far luce sul giallo!
Cosa rivelava di tanto grosso Di Maio? Di seguito potete leggere il contenuto dell’intervista del dicembre 1989, quindi 4 anni dopo l’omicidio di piazza Immacolata.
LA BOMBA DEGLI APPALTI POST TERREMOTO
In sostanza, Di Maio forniva ampi e articolati dettagli su una grossa inchiesta che avrebbe rappresentato la spina dorsale del libro al quale Giancarlo aveva appena terminato di lavorare: la pista di un’impresa di Torre Annunziata, IMEC, impegnata nel settore dei prefabbricati e in pole position per gli appalti nel dopo terremoto. Una sigla che aveva, of course, i suoi padrini politici più che eccellenti: ruotanti nell’entourage gavianeo e per la precisione riferibili all’ex sottosegretario DC per la Marina Mercantile Francesco Patriarca, alias Ciccio ‘a promessa. Una cui nipote, guarda caso, all’epoca lavorava come giornalista proprio al Mattino.
Ed il quotidiano partenopeo, per un breve periodo, finì nell’occhio del ciclone (e tuttavia ‘rispettato’ dai media ‘avversari’, sic). Quando venne alla luce che dal cassetto personale di Giancarlo erano sparite l’agenda che portava sempre con sé (riecheggia un po’ la storia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino) e addirittura le bozze del libro.
Non se ne è mai saputo, ovviamente, più nulla.
Ma torniamo a bomba. Ossia all’inchiesta della procura di Napoli che a questo punto parte di nuovo, con Lucio Di Pietro (era stato già alla ribalta per il caso di Enzo Tortora), il quale non si sbraccia più di tanto.
Passano inutilmente i mesi, lui va ad occupare un’altra poltrona giudiziaria. Il fascicolo viene smistato nelle mani di una toga che se ne interessa per alcuni mesi e poi viene trasferita a Bologna.
Al suo posto subentra Armando D’Alterio, il magistrato della svolta. Il quale ha la fortuna di poter contare su fresche collaborazioni di pentiti.
In particolare una: quella di Salvatore Migliorino, grazie alle cui rivelazioni viene luce un possibile scenario.
Giancarlo, con i suoi ultimi articoli, aveva dato molto fastidio al clan Gionta di Torre Annunziata, referente dei potentissimi Nuvoletta di Marano. I quali si sarebbero addirittura rivolti a Cosa Nostra per ottenere l’ok per l’esecuzione del giornalista ficcanaso.
Una ricostruzione un po’ troppo arzigogolata, soprattutto nel movente: come mai uccidere un cronista per quello che ha già scritto? Perché attirarsi addosso i riflettori per vendicarsi di quanto già messo nero su bianco dal giornalista scomodo?
Non era ben più pericoloso quel sarebbe a breve uscito? Ciò che non era ancora di pubblico dominio?
Fatto sta che l’impalcatura giudiziaria del pm D’Alterio regge alla prova dei gradi di giudizio. Quindi in galera i killer.
Ma mandanti mai.
LA PISTA DI VIA PALIZZI
Da rammentare comunque – nel caso Siani – un’altra pista, battuta soltanto nelle fasi iniziali, in seguito al flop della primissima che vedeva coinvolto il balordo.
E’ la pista “a luci rosse”, quella che portava in via Palizzi, nel cuore chic del Vomero, dove si trovava una nota casa di appuntamenti, frequentata soprattutto da big della politica, dell’imprenditoria, della magistratura.
E all’epoca salì alla ribalta delle cronache un personaggio inquietante, Giorgio Rubolino, avvocato di belle speranze, amico di parecchie toghe e impelagato in legami & ambienti non proprio adamantini (il suo corpo verrà dopo anni sepolto addirittura in Vaticano!).
Quella pista parlava di innominabili incontri – di cui Rubolino era a conoscenza – tra giovanissime escort e vip. Roba da far saltare i palazzi del potere e da stroncare la carriera di non pochi rampanti papaveri (soprattutto ‘cattolici’) della politica di casa nostra e non solo.
Sulla pista indagò più volte “Telefono Giallo”, la trasmissione inventata da Corrado Augias. Ma non è mai stata battuta dalla magistratura: forse per questioni omeopatiche.
Sarebbe valsa la pena di dare almeno una sbirciatina.
P.S. Vasta la pubblicistica su Siani. Vi segnaliamo l’unico libro di autentico significato, sia per la ricostruzione del caso sotto il profilo giudiziario che per la memoria di Giancarlo. Si tratta di “Giancarlo Siani – Passione e morte di un giornalista scomodo”, firmato da Bruno De Stefano.
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21 Settembre 2015 di Andrea Cinquegrani
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L’Inchiesta della Voce di dicembre 1991
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