LA RIVOLUZIONE MERIDIONALE 90 ANNI DOPO

Un classico come La rivoluzione meridionale di Guido Dorso irradia preziosi bagliori di conoscenza e di pensiero a novant’anni dalla sua prima edizione, che già nel 2003 abbiamo potuto riscoprire grazie all’iniziativa editoriale di Mephite, oggi riproposta in collaborazione con l’Archivio Storico della Cgil irpina.

Una luce che ci illuminerà ancora a lungo, va aggiunto con apprensione più che con compiacimento, considerando il divario che ancora separa – e per molti indicatori si accentua – il nostro Mezzogiorno dal resto d’Italia e da gran parte dell’Europa, come ha autorevolmente ribadito di recente il nuovo rapporto Svimez. E i riflessi che emana, come vedremo, restano tuttora i più limpidi nell’ambito dell’ampia bibliografia dorsiana, dal momento che i numerosi e pur fondamentali scritti risalenti all’ultima fase del secondo conflitto mondiale ed agli albori della Repubblica sono inevitabilmente condizionati dalle emergenze politiche del momento e, in qualche misura, anche offuscati dalla lunga scia di lutti e rancori provocati dalla guerra voluta da Mussolini e, nella vicenda personale dell’autore, da un ventennio di censura e di limitazione della libertà che aveva determinato quella “solitudine” richiamata più volte, con enfasi, dai suoi discepoli prediletti Muscetta e Maccanico.

Questo differente grado di lucidità tra il pre e il post-fascismo nell’analisi dorsiana venne immediatamente percepito all’indomani della Liberazione dalla giovane intellighenzia antifascista: in qualche caso (si pensi al Diario del 1944 di Italo de Feo, all’epoca segretario di Togliatti) con toni di delusione e persino sarcastici, il più delle volte invece con deferenza e rispetto per un intellettuale di ingegno e tempra morale tanto elevati. La riscoperta del capolavoro di Dorso, che non a caso nel ’45 fu scelto per inaugurare la collana Problemi italiani di Einaudi, si inseriva nella lungimirante politica culturale togliattiana – che lo stesso Dorso, come è noto, mostrò di non condividere – di recuperare in senso “progressivo” le esperienze e le figure migliori dell’Italia prefascista, incarnate idealmente, ad esempio, nella figura di Giorgio Amendola, figlio del noto leader liberale Giovanni, che Togliatti giudica con rispetto mentre Dorso, in questo libro, bolla come esponente reazionario e funzionale alla “stretta conservazione di interessi nordici”, concedendogli al massimo di rappresentare “la conservazione intelligente”. Così come resta tuttora aperto e degno di interesse quello che potremmo definire il “caso Rubilli”, il deputato tanto popolare nella città di Avellino e altrettanto stimato dall’intero Parlamento (a commemorarlo al Senato si levò la nobile voce di Umberto Terracini) che Dorso sostanzialmente assimilò ai cascami, la “leva dei morti” – per usare una sua celebre espressione – del liberalismo meridionale.

Se nell’Italia liberata si scelse dunque di ripartire da Dorso, e da Carlo Levi, per conoscere il dramma del Sud – dramma oscurato e rimosso dal Fascismo – non sembri quindi paradossale che anche oggi, a 70 anni dal 25 aprile, occorra ripartire dai veri classici del pensiero meridionalista (da Dorso a Gramsci, da Giustino Fortunato a Rossi-Doria) per dar vita a quel confronto di alto profilo culturale che è condizione necessaria e preliminare per le scelte politiche di portata epocale che si impongono hic et nunc per la sopravvivenza (perchè di questo si tratta) delle zone interne dell’Italia meridionale. E del capolavoro di Dorso, edito da Gobetti, quali aspetti e filoni conservano intatta la loro vitalità?

Inevitabilmente, più che l’analisi dello scenario politico e dei rapporti di forza, o le indicazioni di natura economica e sociale (gli uni e le altre legate ad un contesto lontano e diverso – anche per merito di Dorso – da quello attuale), ciò che rende La rivoluzione meridionale un classico vivo del pensiero meridionalista sono altri fattori, spesso i più trascurati: il linguaggio, il metodo di analisi, la coerenza etica e, più di tutto, la visione alta e nazionale del problema del Sud Italia.

Da tempo ho scritto, sulla scia di alcuni dei suoi più famosi allievi al “Corriere dell’Irpinia”, da Carlo Barbieri a Ricciardetto, che la figura di Dorso meriti un posto di rilievo non soltanto nell’ambito del meridionalismo ma anche nella storia del giornalismo italiano. Perchè la stessa Rivoluzione non sarebbe concepibile, e pienamente comprensibile, senza collegarla alla sua attività di giornalista militante ed alla vivace tradizione pubblicistica di Avellino e dell’Irpinia, pienamente inserita nel dibattito politico e, nelle sue espressioni migliori, in grado di innestarsi su una solida cultura umanistica. Lo stile e il metodo di analisi del capolavoro di Dorso risentono degli studi e degli interessi di ricerca ampi e molteplici del suo autore, ma riescono a raggiungere la mente e il cuore dei lettori di ieri e di oggi grazie a questa familiarità con l’osservazione diretta dei fatti, alla consuetudine all’inchiesta, alla palestra quotidiana del confronto e della polemica politica. Questo suo stile peculiare, concreto e diretto, è quanto di più lontano dal paludato dibattito accademico (dove l’aggettivo “giornalistico” è spesso adoperato in senso deteriore e con malcelato disprezzo), e non credo sia inutile ricordare – nell’Italia di oggi, imbalsamata dall’esibizione di titoli e curriculum – che dei due pensatori più grandi del Novecento italiano, Gramsci e Croce, l’uno era, professionalmente parlando, un giornalista e l’altro non era neppure laureato.

Quanto alla coerenza etica di Dorso, essa è troppo nota e acclarata per andare in questa sede oltre un rapido cenno: tanto brillante e lineare, la sua coerenza politica e ideale, da suscitare un’ammirazione pressochè unanime e da sembrare in alcune circostanze (soprattutto nel tumultuoso scenario del ’43-’44) persino parossistica, in un’Italia dominata dal trasformismo e dai compromessi di potere.

Qualche riflessione in più merita invece quella che già illustri estimatori di Dorso, primo fra tutti Vittorio Foa, individuarono lucidamente come la peculiare e nuova visione meridionalistica del pensatore avellinese. Una visione che sapeva coniugare il dato locale e meridionale con il contesto italiano ed europeo, e che oggi definiremmo “glocal”. Lo spiega con efficacia uno dei più noti e ascoltati teorici della politica del Novecento, Franco Rodano, in una recensione del 1945 (non ancora disponibile al “Centro Dorso” ) che verrà pubblicata a settembre nel primo dei nuovi “Annali di letteratura italiana” editi da Mephite in collaborazione con l’Archivio di Cultura Contemporanea ArCCo. Scrive Rodano: “Dorso, indubbiamente per primo, ha saputo affrontare in modo veramente nazionale il grosso problema del Mezzogiorno, la famosa questione meridionale”: ossia privo dei limiti angusti della visione “grezzamente unitaria” come della maniera “parossisticamente autonomista, che appartiene al chiuso e settario meridionalismo minore“.

Autonomismo settario che oggi rivive nelle forme, intriganti e perciò ancor più pericolose, della vulgata neoborbonica e del “meridionalismo ruffiano” che tanto successo riscuote nella pubblicistica e tra i giovani. Sull’onda di questa vorticosa regressione dell’analisi sul Mezzogiorno – speculare e non meno infondata rispetto alla miseria intellettuale della propaganda protoleghista – anche alcuni “studiosi” si sono spinti ad affermare che “la questione meridionale è nata con l’Unità d’Italia: prima non esisteva”. Un’affermazione che avrebbe fatto inorridire Dorso, e prima di lui Salvemini, o Giustino Fortunato (che in uno scritto del 1902 definì l’unità nazionale “il fatto più nobile di tutta la nostra storia da 13 secoli in qua“)), per non dire di De Sanctis e degli altri liberali esuli in Piemonte o di Carlo Poerio e degli altri martiri che a stento sopravvissero alla “galera eccezionale” di Montefusco alla quale li aveva destinati il penultimo monarca borbonico.

Prima dell’Unità d’Italia, nel Regno delle Due Sicilie, un intellettuale libero e coerente come Guido Dorso non avrebbe potuto scrivere impunemente un libro come questo, nè condurre inchieste e polemiche giornalistiche. E non è neppure vero che, pur mancando un Nord, non esistesse anche nelle Due Sicilie una “questione meridionale”, annosa e grave. Per che cosa era stato ribattezzato “re Bomba” Ferdinando II, se non per i terribili bombardamenti della flotta napoletana sulla città di Messina che coltivava, come l’intera Sicilia, il sogno dell’autonomia? Che cosa aveva spinto tutto il popolo della Calabria ad aderire con entusiasmo alla spedizione dei Mille ed a trascinare letteralmente Garibaldi fino alla capitale, se non il secolare risentimento contro il centralismo oppressivo della monarchia borbonica? E come non ricordare l’invettiva sull’ignoranza e la corruzione delle istituzioni del Principato Ulteriore (“Dappertutto un odore di ladri…”) formulata dal De Sanctis al suo ritorno ad Avellino, da esule a governatore della provincia?

Si abbia almeno la decenza di non richiamarsi ai nomi di Dorso, Giustino Fortunato e De Sanctis se si vuol condividere l’assurdo e anacronistico progetto di una rilettura superficiale, infantile e tendenzialmente omertosa della questione meridionale.

Nella Rivoluzione meridionale Dorso ci insegna che i nemici del Sud stanno anche, e soprattutto, al Sud, e che il riscatto del Mezzogiorno si costruisce saldando le forze migliori della nazione, con investimenti economici gestiti da una classe dirigente all’altezza della sfida, in nome di quei valori di libertà, onestà intellettuale, meritocrazia che per troppi anni, prima e dopo la stagione di Dorso, e ancora oggi, sono mortificati dalle pratiche di una gestione dissennata e oscura della spesa pubblica, di un clientelismo asfissiante, dell’appartenenza partitica o peggio ancora correntizia, del servilismo verso chi detiene il potere, e soprattutto dalla paura delle presunte classi dirigenti (nei partiti come nelle Università, nei Comuni come nelle scuole) nei confronti di chi lavora, pensa e agisce in autonomia e coerenza morale.

Sotto questo profilo, e anche qui va sottolineato con apprensione più che con compiacimento, il capolavoro di Dorso risulta ancora di straordinaria attualità…

 

 


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