Pubblichiamo questo interessante articolo di Gianluigi Paragone uscito sulla sua testata online Il Paragone che invitiamo i nostri lettori a leggere e seguire per la sua originale portata di controinformazione.
Ringraziamo Paragone per aver citato La Voce in questo articolo.
Dal caso Abu Omar ai dossier Telecom.
I segreti della super-spia Marco Mancini possibile vice-direttore dell’Aise
Qualcuno nella maggioranza giallorossa vuole Marco Mancini ai vertici dell’Aise, come vice del nuovo direttore Giovanni Caravelli. Un nome chiacchierato quello di Mancini, a differenza di quello di Caravelli, Generale di corpo d’armata dell’esercito che approda alla poltrona più alta dell’Aise dopo una lunga e apprezzata carriera nei servizi di intelligence. Prima di entrare all’Aise, dove era vice del direttore uscente Luciano Carta, Caravelli ha lavorato nel reparto informazioni e sicurezza dello Stato maggiore della Difesa.
L’Aise è la costola del Dis, il Dipartimento delle informazioni di sicurezza, che si occupa della “sicurezza esterna” e che ha preso il posto del Sismi. E lui, Marco Mancini, 60 anni, ex carabiniere nella sezione speciale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal 1984 nel Sismi ci ha vissuto da protagonista. Si è costruito una carriera trentennale, costellata di successi e promozioni, fino a diventarne per un lungo periodo il “numero due”, nell’era di Nicolò Pollari. Ma anche e soprattutto di episodi oscuri. Perché, nonostante il suo passato opaco , qualcuno nella maggioranza di governo vuole Mancini nella cabina di comando dei servizi segreti?
Marco Mancini, una “super-spia” tra luci ed ombre. Ora quelli che lo vogliono come vice del direttore Aise fanno finta di non ricordare il suo “curriculum”. O meglio, si guardano bene dal farlo sapere. Abu Omar, Nicola Callipari, dossier Telecom per finire con la valanga di Rigopiano. Fatti oscuri che vedono protagonista Mancini, alcuni anche in sede giudiziaria. Il nostro 007 ne è sempre uscito “pulito”, ma le ombre restano e tutte inquietanti. Ve le ricordiamo noi.
Marco Mancini, il caso Abu Omar, il “segreto di Stato”
Abu Omar, cittadino egiziano da anni residente in Italia ed imam della moschea di Milano, fu rapito il 17 marzo del 2003 da dieci agenti della CIA, l’intelligence Usa, per poi essere trasferito e incarcerato in Egitto dove subì poi interrogatori e torture. I servizi segreti italiani erano ovviamente al corrente dell’operazione, svolta in pieno centro di Milano. In più, il rapimento interruppe un’inchiesta della Magistratura italiana che stava indagando sulle connessioni tra Abu Omar e il terrorismo di matrice islamica. A capo degli 007 italiani, il Sismi, nella primavera del 2003 sedeva Nicolò Pollari, mentre Marco Mancini era capo del controspionaggio militare.
Ci fu poi l’inchiesta della Procura di Milano condotta dai Pm Armando Spataro e Ferdinando Enrico Pomarici. Furono rinviati a giudizio 26 agenti della CIA tra cui il capocentro di Roma e referente per l’Italia della CIA fino al 2003 Jeffrey W. Castelli mentre per i servizi segreti italiani, andarono a processo il Generale Nicolò Pollari, vertice del Sismi, il numero due Gustavo Pignero, morto l’11 settembre 2006, Marco Mancini e i capicentro Raffaele Di Troia, Luciano Di Gregori e Giuseppe Ciorra.
Secondo la ricostruzione del sequestro fatta in aula dal Pubblico Ministero Spataro che ha parlato di “prove ineluttabili contro quella che più volte ha chiamato la banda Pollari-Mancini”, il SISMI diretto da Pollari non solo offrì copertura alla CIA nel rapimento dell’ex imam ma collaborò. Il collegamento tra 007 americani ed italiani fu l’agente dal nome in codice “Ombra”, mai identificato. Alcuni degli indagati, durante gli interrogatori, opposero il segreto di Stato e non parlarono. In primo grado ed in appello, gli 007 italiani, incluso Mancini, furono giudicati colpevoli. Ma la Cassazione il 19 settembre del 2012 dispose un secondo appello, annullando con rinvio la sentenza pronunciata nei confronti degli ex vertici del Sismi Nicolò Pollari e Marco Mancini che erano stati dichiarati non processabili, per il segreto di Stato.
Il secondo processo di appello ha condannato Nicolò Pollari a 10 anni di reclusione e il suo numero due Marco Mancini a 9 anni riconoscendo quindi la tesi della Cassazione sulla portata troppo ampia e parzialmente illegittima del Segreto di Stato. Ma non è finita qui. Sull’operazione Abu Omar, il governo Prodi prima, i governi Berlusconi e Monti poi, hanno mantenuto il segreto di stato. Solidarietà bipartisan nel coprire le malefatte delle “spie”, insomma. Sulla seconda sentenza di appello il governo Monti chiede la pronuncia della Corte Costituzionale. Il 24 febbraio 2014 la Corte di Cassazione, recependo la sentenza della Corte suprema annulla senza rinvio la sentenza di condanna per gli 007 italiani. Nicolò Pollari, Marco Mancini e gli agenti Giuseppe Ciorra, Raffaele di Troia e Luciano di Gregori vengono assolti in via definitiva, poiché l’azione penale non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato”.
La morte di Nicola Calipari
Un’altra delle vicende oscure in cui è rimasto invischiato Marco Mancini da capo del controspionaggio militare è quella della morte di Nicola Calipari, suo collega e a capo della divisione ricerche del Sismi fino al 4 marzo 2005, giorno in cui perse la vita in Iraq. Calipari morì perché colpito dai colpi d’arma da fuoco di un militare Usa ad un posto di blocco a Baghdad. Era sull’auto con Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto da lui appena liberata. Quindici anni non sono serviti a portare luce sulla vicenda. Calipari è rimasto vittima degli intrighi tra servizi segreti italiani e Usa. Che coincidenza vero? Ancora una volta in pochi anni dopo il caso Abu Omar.
Calipari era stato arruolato al Sismi da Nicolò Pollari e affidato alle “cure” del suo numero due Marco Mancini. Quel Pollari andato a processo per il rapimento di Abu Omar e accusato da molti, tra cui la vedova Calipari, di una gestione machiavellica ed opaca dei servizi. Nel libro intervista Il mese più lungo scritto a quattro mani con l’ex direttore del Manifesto Gabriele Polo, Rosa Calipari descrive la direzione del Sismi ad opera di Pollari “ambigua, che agiva machiavellicamente su due linee strategiche opposte e alla fine contrapposte, un gioco che costerà la vita a Nicola”.
Sostiene il libro che all’interno del Sismi c’era una divisione netta tra Nicola Calipari, direttore della ricerca del Sismi, e Marco Mancini, capo del controterrorismo, controspionaggio militare e criminalità organizzata transnazionale, su come agire per risolvere il sequestro di Giuliana Sgrena in Iraq. Calipari era a favore della trattativa, opzione invisa agli americani, mentre Mancini era per il blitz. Come racconta la storia passò la linea di Mancini, ma qualcosa nelle comunicazioni tra i servizi italiani ed Usa, ancora una volta, non funzionò. Il motivo resta oscuro, ma certo è che l’ambiguità della gestione Pollari-Mancini fu purtroppo determinante nel causare il tragico epilogo della vicenda.
Ambiguità che proseguì anche nelle ore immediatamente successive alla morte di Calipari. Ai colleghi del direttore della ricerca, racconta il libro della vedova, fu negata da Pollari la possibilità di recarsi in Iraq per recuperare il corpo di Calipari. L’unico che ebbe accesso all’ospedale militare Usa e potè vederne il cadavere fu proprio Marco Mancini. Insomma, un rapporto privilegiato il suo quello con i servizi americani. Proprio come quello con una certa destra politica che lo ha sempre “protetto”. Rosa Calipari, nel suo libro, sostiene che Pollari le confidò che “Mancini gli era stato imposto (come numero due, ndr) dalla politica”, in quanto nel Sismi da molti anni (dal 1984) e perché gradito agli ambienti della destra.
La bomba a Reggio Calabria
C’è un episodio in particolare, ancora una volta inquietante, che descrive in modo ancor più plastico l’ambiguità di Mancini e suoi rapporti con certi ambienti della destra che hanno sempre navigato nell’oscurità. La bomba ritrovata a Reggio Calabria il 6 ottobre 2004, nei bagni di Palazzo San Giorgio, sede dell’amministrazione comunale. Reggio Calabria, città di Nicola Calipari dove l’agente del Sismi aveva iniziato la sua carriera in Polizia.
Reggio Calabria ha una storia di rapporti inquietanti con la destra eversiva. A partire dai moti del 1970 capitanati da Ciccio Franco per passare alle liaisons pericolose delle cosche di ‘ndrangheta con la destra eversiva di Pierluigi Concutelli, tramite il boss di Canolo Totò d’Agostino. Costui, ucciso a Roma nel 1976, era confidente del magistrato Vittorio Occorsio, ucciso nello stesso anno proprio da Concutelli, mentre indagava sui rapporti tra Ordine Nuovo e ‘ndrangheta reggina. D’Agostino, secondo le successive indagini, avrebbe messo al corrente il giudice riguardo a un flusso di denaro arrivato dai sequestri e convogliato in Calabria per essere utilizzato in azioni eversive e per finanziare omicidi eccellenti.
Torniamo al 2004 e alla bomba a Palazzo San Giorgio. L’ordigno fu ritrovato grazie ad una segnalazione del Sismi a firma di Marco Mancini, che pure, scrive il Corriere di Calabria, “da operativo non era mai sceso prima più a sud di Bologna”. Il ritrovamento di quella bomba cambiò di molto lo scenario della città dello stretto, alle prese con una transizione politica che vedeva il declino di Giuseppe Scopelliti. Il sindaco della destra più amato e popolare da decenni vedeva la sua popolarità ed il suo consenso politico incrinati dalle prime inchieste giudiziarie.
Ci sono due fatti “singolari” in questa vicenda, che se legati fanno pensare a qualche trama oscura, da “burattinai”. La bomba fatta ritrovare a Palazzo San Giorgio era priva di innesco, non poteva recare dunque alcun danno. Proprio il giorno prima del rinvenimento dell’ordigno, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza riunito a Reggio Calabria, aveva disposto l’assegnazione di scorta ed auto blindata al sindaco Peppe Scopelliti, perché giudicato “a rischio attentato”. Una semplice coincidenza o cos’altro?
I dossier Telecom
Nel dicembre 2006 un’altra “tegola” si abbatte su Marco Mancini e la sua carriera di super-spia. Mancini viene arrestato nell’ambito di un’inchiesta su intercettazioni illegali, svolte per mezzo di Telecom, ai danni di decine e decine di personaggi. Imprenditori, politici e persino calciatori e manager sportivi, tra cui il carismatico Luciano Moggi. Finisce intercettata addirittura la stessa moglie di Marco Tronchetti Provera, allora patron di Telecom e Pirelli, Afef. L’accusa per Mancini è di quelle pesanti: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione del segreto d’ufficio.
L’inchiesta della magistratura chiarì che all’interno di Telecom fu costituta una cellula di spionaggio, per controllare e dossierare i “nemici” di Tronchetti Provera. Di questa cellula, secondo i magistrati, oltre a Mancini, facevano parte anche l’allora capo della Security di Telecom, Giuliano Tavaroli, e l’investigatore privato Emanuele Cipriani. Il team illegale di spioni, scrissero i magistrati milanesi, mette insieme “una raccolta sistematica di informazioni riservatissime in grado di assicurare fiducia nel gruppo Pirelli-Telecom e quindi stabilità al consorzio delittuoso che fondava sui cospicui fondi aziendali per la security il perno della sua poliedrica e multiforme attività illecita”.
Mancini finisce a processo e… viene condannato considerate le massicce prove a suo carico e nei confronti della cellula di spioni Telecom? Certo che no. Perché, ancora una volta, viene invocato il magico Segreto di Stato. Scrive Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci: “Al processo, mentre la gran parte degli imputati chiedono il patteggiamento (ad esempio Tavaroli viene condannato a 4 anni e mezzo e 60 mila euro di multa), il solo Mancini invoca il già sperimentato (nel caso Abu Omar, come abbiamo visto) “Segreto di Stato”. Segreto di Stato, stavolta, sui rapporti Sismi-Telecom. Incredibile ma vero: una faccenda di spiate del tutto private va a finire nel calderone del “Segreto di Stato”, che val la pena di rammentarlo può essere invocato solo per gravissimi motivi inerenti la sicurezza della nostra nazione”. Il tutto, per l’ineffabile 007, si risolve quindi per il meglio in Cassazione. “Segreto di Stato”.
La valanga di Rigopiano
Dulcis in fundo arriviamo al 2017 ed alla valanga di Rigopiano. E cosa c’entra il numero due del Dis con la valanga sull’hotel abruzzese? Nel corso del processo è stato ascoltato un dirigente al ministero dello Sviluppo Economico, Giovanni Savini. Costui, nel 2015, fu aggregato come dirigente alla Protezione civile ed ebbe contrasti con il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso. Questi, ha raccontato Savini davanti ai giudici, si vantava dell’amicizia con un importante 007, Marco Mancini.
“D’Alfonso mi ha detto di conoscere bene Mancini noto alla cronache per essere un vertice dei servizi segreti e che, tramite Mancini, era nella disponibilità delle mie intercettazioni”, ha dichiarato il funzionario davanti ai giudici. “Proprio nei giorni terminali del mio incarico, ho ragione di ritenere che D’Alfonso ascoltasse le mie telefonate, perché mi sono state da lui riferite alcune affermazioni che posso aver fatto solo al telefono e solo con mia moglie”, ha detto Savini in tribunale. Un’altra storia oscura, insomma, che vede protagonista Mancini che tuttavia, è bene sottolinearlo non è indagato – almeno non per ora – per questa vicenda.
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