Abbiamo chiesto al professor Giulio Tarro di dare una risposta scientifica ai tanti quesiti che assillano i cittadini di tutto il mondo ed in particolare gli italiani. Lo ringraziamo per questo prezioso “vademecum”, scritto per i lettori della Voce.
Fino a meno di 20 anni addietro i coronavirus rappresentavano una famiglia virale che durante il periodo invernale causava dal 10 al 30% dei raffreddori. Adesso il nuovo coronavirus COVID-19 da una malattia febbrile con impegno nei casi più severi di una polmonite che può avere la necessità perfino di un respiratore. L’epidemia in Cina è terminata. Come secondo paese spetterà a noi, purtroppo pagando un tributo maggiore di vittime soprattutto basato sulla confusione che regna tra i governanti, i tuttologi e l’informazione che non distingue la verità dalle fake news. Se guardiamo a Milano che è sempre stata il fiore all’occhiello della sanità italiana, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Noi dobbiamo sperare da una parte nell’ambiente, sicuramente l’ambiente è migliore e quindi contrario al virus. E soprattutto alle esperienze precedenti, in cui non abbiamo dato i numeri, nel senso che siamo riusciti a passare il colera, il male oscuro, la salmonellosi, l’inizio dell’Aids, e le varie influenze che si sono alternate, in cui a un certo punto abbiamo fatto più diagnosi degli altri, e quindi per questo avevamo più casi. Diciamo pure che l’anno scorso abbiamo avuto un’influenza per sei milioni di italiani, con 10.000 morti. Se l’Istituto superiore di sanità dice che praticamente il 98% dei morti sicuramente non muore per il coronavirus, c’è stato un concentrato di pazienti che hanno bisogno di terapie intensive, che ha fatto scoppiare il problema sanitario.
- Dobbiamo avere l’esperienza commisurata altrove. In Cina è iniziata a novembre-dicembre, ed è stata comunicata ufficialmente il 31 dicembre dall’Organizzazione mondiale della sanità. Abbiamo avuto un picco sicuramente che è stato a gennaio, sempre a crescere, e a febbraio. Poi è cominciata a scendere, e ora in Cina l’epidemia non c’è più. Perché noi dovremmo avere un aspetto diverso? Ponendo i dati su un grafico di coordinate cartesiane si vede benissimo che il numero dei nuovi casi è incominciato a livellarsi nella Corea del Sud, mentre i nuovi casi in Italia sono continuati a crescere in maniera esponenziale. Le misure restrittive imposte alla popolazione daranno il loro effetto quando questo picco comincerà la sua discesa come sembra avvenire dal 22 marzo e poi dal 28. D’altra parte l’epidemia in Cina è già terminata.
- Abbiamo un bollettino di guerra. Anziché dire cosa è successo e perché è successo, perché non hanno detto che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letti per la terapia intensiva, passati da 575 per 100.000 abitanti, a 275 attuali? Questo per una politica che ha sbagliato, a livello sanitario, dal 1997 al 2015. Ci si è messi in queste condizioni, come se venisse un terremoto e uno non sapesse cosa fare, perché non ha usato il cemento armato. E lo stesso vale nel nostro caso. Nemmeno quando è scoppiata l’epidemia attuale in Cina abbiamo fatto niente per raddoppiare i posti letto, come hanno fatto i francesi. Non è stato fatto niente. La Cina ha fatto tre ospedali in due settimane, noi stiamo ancora a fare distinzioni se dobbiamo soccorrere prima i giovani o gli anziani, che sono pieni di problemi. Abbiamo delle situazioni a livello non solo culturale, ma etico, proprio indecenti.
Per permettere alle strutture sanitarie interventi mirati dobbiamo fare a meno di una informazione che provoca ansia e piena di falsi appelli “a non farsi prendere dal panico”, perchè a questo punto anche una influenza stagionale non dico dell’anno scorso, ma di quegli anni in cui effettivamente è stato notato un incremento dei casi – vedi l’aviaria, la suina, quella stessa di quest’anno – avrebbero potuto portare ad una simile emergenza. Napoli ha l’esperienza del colera, del male oscuro, delle salmonellosi, dell’inizio dell’AIDS quando non esisteva la terapia, delle influenze recenti, l’aviaria e la suina quando i valori dei contagiati e le stesse mortalità ne hanno fatto la prima regione italiana, distinguendosi però per la buona sanità, ossia una diagnosi vera rispetto al resto dell’Italia.
- Il periodo di incubazione esteso fino a 14 giorni rappresenta non solo il tempo necessario per la replica virale e quindi la sintomatologia, ma anche per stabilire la sua contagiosità. E’ un fatto che la libera circolazione del virus aumenta le possibilità di contagio ma anche l’immunizzazione e quindi la protezione dalla malattia. Se il virus circola produrrà un’infezione e l’infezione porterà anche la risposta dell’organismo con degli anticorpi, quindi questi soggetti saranno immuni. Il soggetto asintomatico è anche infettante, ma una volta prodotti gli anticorpi il virus viene neutralizzato e pertanto diventa guarito e non più contagiante.
- Un vaccino specifico che prevenga la diffusione di questa epidemia da COVID-19 deve essere preparato con tempi minimi che tengano presente la sicurezza del suo uso e quindi una etica di somministrazione con tempi indicati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) fino a 18 mesi, mentre un vaccino influenzale stagionale può richiedere soltanto alcuni mesi che permettono la protezione di un nuovo continente rispetto a quello dove è originata l’influenza epidemica. Il Remdevisir usato per l’Ebola, la Clorochina (Plaquenil) già come antimalarico adesso di routine in Francia, il Fapilavir (Avigan) prodotto dal 2014 in Giappone, inibitori delle proteasi del virus dell’AIDS come Ritonavir e Lopinavir, Vit C a grammi, Oseltamivir, antifluenzale. Tutti questi sono farmaci per via orale. In particolare l’Avigan nome commerciale del Favipiravir è un antivirale già in uso da alcuni anni nei riguardi di diverse famiglie virali. Il suo uso come antivirale precoce nelle infezioni influenzali ha avuto un riscontro positivo per quanto riguarda in particolare il Giappone dove è stato prodotto. Adesso in Italia verrà utilizzato nella regione Veneto e quella della Lombardia. L’ultima sperimentazione clinica con un prodotto difficile da maneggiare mi lascia perplesso, perché non può certo risolvere il 98% dell’epidemia, il TOCILIZUMAB l’immunosoppressore dell’artritereumatoide, è un prodotto poco malleabile. Non stimo che ne valga la pena, riducendo ulteriormente la risposta immune al virus del paziente e lasciandolo scoperto alla reinfezione.
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