Dispiace che Daphne Caruana Galizia abbia svolto la sua attività di giornalismo investigativo a Malta e non in Italia. Dispiace per la sua vita: in Italia non l’avrebbe perduta per l’autobomba di tre sicari.
Fonti di di stampa confermano in queste ore che i killer, secondo gli inquirenti maltesi, sarebbero stati pagati 150mila euro dall’imprenditore locale Yorgen Fenech per eliminare la coraggiosa cronista.
Peccato. Peccato che Daphne non abbia vissuto ed operato in Italia, lo ripetiamo. Perché nel nostro Paese i giornalisti d’inchiesta non c’è più nessun bisogno di ammazzarli fisicamente, quanto meno dal tempo dell’ultima vittima, Giancarlo Siani, anno 1985, una vita fa e un omicidio sui cui mandanti occulti, in realtà, la magistratura nostrana non ha mai fatto piena luce. Ad essere condannati sono stati solo gli esecutori materiali, nessun vero movente e, anzi, un Nuvoletta che più volte ripete: mai avremmo ucciso un giornalista per attirarci addosso il fuoco di fila degli investigatori.
Comunque sia andata per il giovane e brillante cronista del Mattino, beh, da allora in poi qui da noi non funziona più così. I giornalisti d’inchiesta si sopprimono senza spargimento di sangue alcuno, con operazioni “pulite”, tutte ambientate nelle aule di tribunale. Quasi sempre nelle sedi civili. Si parte col “Bum” è la citazione milionaria: puoi chiedere la somma che vuoi, un miliardo, due… tanto nessuno poi ti presenterà il conto per quella iperbolica minaccia. E’ la legge, da noi funziona così. Se hai soldi, se puoi pagare grossi avvocati civilisti, magari quelli che hanno già buone entrature con qualche strategico, oscuro giudice civile (tanto sono tutti generalmente sottratti ai riflettori dell’opinione pubblica), se il tuo difensore sa come funziona la pagliacciata delle assegnazioni (a Napoli basta aspettare il giorno in cui è di turno il magistrato amico, che riceverà a braccia aperte l’assegnazione fintamente “automatica”), allora sei già a cavallo. Perché perdere tempo a cercare ed assoldare killer, compromettersi con la malavita organizzata (l’unica capace di maneggiare tritolo o armi), rischiare di lasciare tracce, sporcarsi le mani, quando la legge italiana ti offre su un piatto d’argento un metodo infallibile, una citazione civile dal potentissimo effetto intimidatorio, con una sentenza provvisoriamente esecutiva in primo grado, e giù a seguire, istantanei precetti, pignoramenti sul conto corrente da fame, licenziamento, negazione dei diritti civili, fino a privare per sempre il giornalista anche della voglia di vivere? Steso, finito, al tappeto per sempre, pronto a mendicare, se vuole sopravvivere, un posto di commesso supplente in rosticceria.
Quando poi il Fenech di turno, in Italia, si vuole proprio divertire, notifica il pignoramento a tutti gli istituti bancari della penisola. Gli costerà qualcosina in più, ma l’effetto è assicurato: quel giornalista, ormai noto “pregiudicato” nella banca dati Crif (l’implacabile centrale rischi), non potrà mai più aprire un conto corrente, lavorare, operare, nemmeno come netturbino. Marchiato a vita.
Esagerazioni? Sembra un paradosso, ma è già più volte accaduto. Possiamo fare nomi e cognomi di giornalisti d’inchiesta ormai “morti” alla società, al lavoro, alla famiglia, per aver avuto la colpa di raccogliere e pubblicare le prove che inchiodano il boss. Tutti rifugiatisi nell’ombra. Per dignità. E per vergogna. Tutti sostenuti e ricordati, benché ormai fantasmi, dall’ultimo avamposto di lotta rimasto in Italia a difesa del diritto di cronaca e delle libertà costituzionali nel nostro Paese, Ossigeno per l’Informazione
Cara Daphne, ci dispiace tanto per la tua giovane vita, per i tuoi figli, per il tuo lavoro spezzato. Se tu fossi vissuta in Italia oggi saresti ancora viva. Magari una “nota pregiudicata” alla Crif, ma pur sempre qui, con i tuoi bambini e con noi.
Dimenticavo, Dafne. Fino a qualche anno fa lo scempio della vita di un giornalista avveniva solo nelle sedi civili dei tribunali. Da qualche anno ci hanno provato gusto anche le sedi penali. Che comminano al giornalista, oltre alla condanna (spesso con motivazioni illogiche ed acrobatiche, che tanto nessuno censura), una bella “provvisionale”, incancellabile e, ovviamente, immediatamente esecutiva. Fatto sta che solo nell’ultimo anno, nelle sedi penali del Tribunale di Cassino, lo stesso giudicante ne ha comminate tre consecutive al medesimo giornalista, ”reo” di aver osato scrivere altrettanti, documentati articoli: uno riguardava l’appartenenza remota alla massoneria di un alto magistrato (tuttora in servizio, collega e superiore del giudice che ha emesso la condanna), la seconda un generale della guardia di finanza (sempre sia lodato), la terza un faccendiere del Costa Concordia.
Anche quel giornalista è sparito nel cono d’ombra dei dannati, ormai “morto” alla professione. Però non è dentro una fossa come Caruana Galizia, è ancora qui sulla terra con i suoi figli, benché privato di tutti i mezzi di sussistenza, tanto da supplicare qualche avvocato, cui non può pagare la parcella, di costituirsi in Corte d’Appello (per la cronaca, e per fortuna, ha ha trovato un penalista-angelo, sensibile a quel che resta della democrazia nel nostro miserabile Paese).
Per Daphne, a Malta, non è andata così. Peccato, cara, forte e irriducibile collega. Potevi nascere in Italia…
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