Un’étoile del pianoforte nemmeno trentenne, che dopo aver suonato nei teatri di mezzo mondo, da Vienna a Boston, da Londra a Salisburgo (dove attualmente vive), oggi torna ad esibirsi al Massimo della sua città, il San Carlo di Napoli.
Giovane e già affermato anche come compositore, allievo prediletto di Paul Badura-Skoda, scomparso appena pochi giorni fa, Lorenzo Pone dedica il concerto del prossimo 6 ottobre al suo maestro.
«Doveva essere un dono per i suoi 92 anni, che ricorrono proprio quel giorno – dice emozionato – ora sarà un omaggio alla memoria di questo grande artista, che tanto ha dato alla musica di tutti i tempi».
In prima fila ci sarà l’altro maestro che lo ha formato e «al quale, parimenti, devo tantissimo», il musicista partenopeo Francesco Mariani. Su tutto, una presenza virtuale che non potrà mai mancare accanto a Lorenzo, quella di Domenico Rea: non un nonno come gli altri, ma un gigante della letteratura italiana del Novecento, che ai nipoti Lorenzo e Fiammetta ha dedicato tante delle sue opere.
Ma quanto ha inciso, nella crescita artistica di Pone, l’aver respirato per tutta l’infanzia e l’adolescenza l’atmosfera, la presenza fisica di grandi come Eduardo De Filippo, Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria e i tanti altri che ha conosciuto nella mitica casa di Rea, a picco su Palazzo Donn’Anna e il suo mare?
«Avrebbe potuto essere un peso, quel grande nome, capace di farmi sentire piccolo piccolo. Invece è stato la marcia in più che mi ha permesso di capire, fin dalla primissima infanzia, cosa realmente volevo. Avevo forse quattro o cinque anni quando, ascoltando accanto al nonno un brano di Bach, dissi a me stesso che intendevo essere così, in grado di comporre ed eseguire musica capace di superare spazio e tempo».
Anche perché, lo ricordiamo, nelle lunghe ore in cui Rea scriveva, ascoltava spesso musica classica…
Ma non solo, a undici anni conoscevo già a memoria alcuni dei tanti testi musicologici che prendevo dalla sua immensa libreria e divoravo avidamente. Anche mio padre e mia madre sono appassionati di musica classica e sinfonica, che è stata quindi una presenza costante nella nostra vita, per me un richiamo irresistibile».
Veniamo al programma del concerto di domenica prossima. C’è un filo conduttore nei brani che eseguirà?
Apro con un omaggio al San Carlo eseguendo la Sonata in Fa minore n.10 di Lodovico Giustini, pubblicata negli stessi anni in cui veniva fondato il Teatro. Una scelta dettata anche dalla felicità per questo mio “ritorno a casa”, che mi fa sentire piccolissimo al confronto con i geni della musica che si sono esibiti qui, ma perfettamente a mio agio, grazie alla magnifica accoglienza di tutti, dal sovrintendente Rosanna Purchia al direttore artistico Paolo Pinamonti e gli altri, nessuno escluso. E poi la straordinaria ricorrenza con la nascita di Badura-Skoda, 6 ottobre 1927.
Nel 2017, dopo aver allevato intere generazioni di pianisti, Badura-Skoda disse in pubblico che la considera il suo erede spirituale…
Un’iperbole, certo, per me un inestimabile dono. Ma questo concerto lo dedico anche al maestro Mariani, senza il quale non sarei mai arrivato fin qui.
Ecco appunto: anni di sacrificio, ore e ore di studio quotidiano… ma ce la fa a vivere oggi un giovane musicista e compositore come lei?
Mi considero molto fortunato perché io, dedicando tutta la mia vita alla musica, grazie all’aiuto iniziale della mia famiglia e agli incontri giusti, ce l’ho fatta. Oggi ho contratti e commissioni, sia come pianista che come compositore, che mi permettono di vivere. Ma penso ai tanti con la stessa passione, che sono costretti a lasciare.
Dipende anche dalla carente attenzione che le istituzioni italiane dedicano ai giovani talenti musicali?
E’ un fattore che sicuramente incide e sul quale bisognerebbe lavorare. Tanti sono sfiduciati, non credono più in se stessi perché non trovano i mezzi per andare avanti. Più in generale, però, credo molto in ciò che diceva Rubinstein: se c’è talento, questo è una sola parte, le altre 9 sono impegno, studio, applicazione.
E alcuni talenti, come lei, vivono una duplice personalità artistica. Voglio dire, si sente più pianista o compositore?
Non c’è una componente che predomina sull’altra, sono due aspetti alla pari della mia personalità. Certo, sono partito, nell’infanzia, con l’istinto di comporre. E ancora oggi questo mi dà immense soddisfazioni, al momento sto lavorando a due brani per un ensemble di musica contemporanea attivo a Salisburgo, i Names.
Una sua composizione alla quale si sente particolarmente legato?
Le “Quattro canzoni giapponesi”, ispirate ad una forma poetica spirituale di soli tre versi. Mi interessa la contaminazione, provare a fondere le tradizioni musicali extra europee con strumenti classici del mondo occidentale.
A chi si ispira, in particolare, fra i grandi?
Tra i pianisti, oltre a Badura-Skoda, ci sono Horowitz, Benedetti Michelangeli, Cherkassky ed altri, ma ho una autentica idolatria per un musicista come Andrés Segovia, che ha portato la chitarra dalla strada alle sale da concerto. Lo considero in qualche modo un modello ideale di artista, perché sento che il pianoforte non è uno strumento percussivo, ma ha invece molte affinità con le risonanze della chitarra.
Oggi lei vive in Austria e gira mezzo mondo. Le manca Napoli, la città in cui è cresciuto muovendo i primi passi al Conservatorio di San Pietro a Majella?
Quella di andare all’estero per me è stata una scelta, non un obbligo o una necessità. Se fossi nato a New York sarei andato via anche da lì. La vita, la musica, è movimento. Napoli mi ha dato tanto ed ho già suonato nei suoi teatri. Ma certo, tornare oggi con un concerto da solista al San Carlo, è un’emozione grande.
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