L’importanza di chiamarsi Corona

Non è secondario il vantaggio di chiamarsi Corona, Fabrizio Corona, il quale dice addio al carcere e si affida alla benevolenza di don Mazzi, uno tra gli addetti ai lavori mosso a pietas per il disagio procurato al “paparazzo” dalla sentenza di condanna per reati di estorsione, bancarotta fraudolenta, fuga dall’Italia appena dopo il verdetto del tribunale. Ci associamo provvisoriamente al sollievo indotto dalla notizia di un detenuto sottratto alle sofferenze della prigionia nelle carceri italiane che per lo più evocano tetri luoghi di detenzione dei tempi bui di società estranee al principio del recupero.

L’addio di Corona alla cella in cui lo ha spedito il tribunale si deve alla bravura del difensore che, chiesta la perizia psichiatrica per il suo assistito, ha sostenuto soffrisse di depressione e psicosi, avvalorati da un evidente (normale in carcere) dimagrimento. Del caso Corona si è occupato il sistema dei media, con particolare assiduità il settore del gossip, parte dell’opinione pubblica si è schierata contro la pesantezza della sentenza di condanna (ma i giudici hanno esagerato o hanno applicato alla vicenda semplicemente quanto prescrive il codice?). Un famoso cantante, il molleggiato Celentano, e un giornalista rampante, il pungente Travaglio, hanno tifato per la scarcerazione, imitati da don Mazzi, che non perde opportunità per autogratificarsi con episodi di forte impatto protagonistico (soprattutto “comparsate” televisive in talk show nazional popolari): “In fondo di cosa è accusato…”, questa l’esternazione, “ha scattato solo qualche fotografia”.

Il caso Corona sollecita riflessioni globali sul sistema penitenziario italiano che, con l’esclusione di rari esempi positivi, racconta l’orrore di strutture disumane, sofferenze ben oltre la privazione della libertà, il mancato rispetto dei diritti degli stranieri, l’ingiusta permanenza in carcere di detenuti in attesa di giudizio, il sovraffollamento, episodi di violenza fisica e mentale, la disperazione dei più deboli che, superato il limite estremo della capacità di sopravvivenza, si tolgono la vita. Significativo, in Italia, è il rapporto tra suicidi in carcere (nove per cento) e in libertà (poco più dell’uno per cento). A questa moltitudine anonima di detenuti privi di notorietà fanno difetto l’impatto mediatico con l’opinione pubblica, i Celentano, Travaglio, Mazzi e il supporto decisivo di autorevoli collegi di difesa, ma soprattutto l’amplificazione che nel panorama di spettacolarizzazione della cronaca ha tenuto sotto i riflettori di una costante visibilità il caso di Fabrizio Corona, “redento” e graziato da una lunga detenzione.

 

Killer bianco, giovane, razzista: nove morti

ragazzoCosì potente, intoccabile la lobby americana delle armi, così influente da impedire al potente capo di una delle nazioni dominanti la Terra di vietare la vendita di fucili e pistole senza alcuna formalità? Evidentemente sì e le conferme si susseguono con impressionante continuità. Dell’ultima è assurdo protagonista un giovane bianco di 21 anni che nella chiesa della comunità afroamericana di Charleston ha compiuto un strage. Dylann Roof ha sparato all’impazzata e ucciso nove persone. Il padre, in occasione dell’ultimo compleanno, aveva regalato al ragazzo una pistola calibro 45. La polizia ha sciolto ogni riserva: “Non c’è alcun dubbio sul fatto che si tratti di un reato d’odio razziale”, ha detto il capo della polizia di Charleston e questa perentoria affermazione apre un altro vulnus nell’immaginario collettivo degli americani convinti del proprio, indiscutibile protagonismo democratico: non sono per nulla alle loro spalle l’odio e la discriminazione razziale. Troppi e ravvicinati gli episodi di giovani neri, inermi, uccisi da poliziotti con la pistola facile. E questo è un altro difficile capitolo della vita americana che mette Obama di fronte a problemi sociali irrisolti.

In apertura, Fabrizio Corona e, nella foto qui sopra, Dylann Roof


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