Gufano, i media, sul prossimo governo guidato da Giuseppe Conte. Tutti tesi a sottolineare le incompatibilità genetiche tra 5 Stelle e Pd, avendo a lungo chiuso gli occhi su quelle ben più abissali tra grillini e leghisti.
E si scatenano in pagelle che sembrano uscire da sgarrupate segreterie scolastiche. Quasi tutti da sei, una piattezza sconfortante.
A questo punto anche noi diamo qualche voto, per fotografare meglio la situazione che, comunque, resta non poco complessa.
VOLTAFACCIA, AUTOGOL E AZIONI ALLA MARADONA
CALENDA 3 – Lascia la barca nel momento della burrasca e delle decisioni da prendere. In realtà l’aveva minacciato già altre volte, Carlo Calenda, di voler lasciare il Pd. Ora finalmente lo fa. E minaccia gli italiani di voler fondare un partito alla destra di quello guidato da Zingaretti: da O,5-1 per cento se gli va alla grande. Tutta l’Italia è in fremito per il varo. Ricorda con nostalgia i tempi alla guida (capo della comunicazione) prima alla Ferrari di Montezemolo e poi all’Interporto di Nola, la creatura dell’ex mister Italo Gianni Punzo. Quindi i fasti ministeriali al governo con l’ora detestato Renzi. Ma soprattutto i ritempranti bagni nelle piscine trentine in compagina dei cigni.
CONTE 7 e mezzo – Ha governato per 14 mesi, portando avanti la barca e zigzagando tra le contraddizioni. Firme in calce a provvedimenti senza capo né coda, tentennamenti, una giravolta incomprensibile sul TAV (prima no poi sì). Ma nei giorni finali il colpo di reni, la spallata a ‘O Sceriffo Matteo Salvini, il Vaffa di palazzo Madama. Parole che riscattano i grigi mesi precedenti, suggellati anche dalle lucide parole al vertice di Biarriz. E ora in sella per guidare il nuovo esecutivo giallo rosso. Altre parole misurate e serie nei giorni bollenti della crisi, poi davanti a Sergio Mattarella (voto 6), quindi prima di iniziare il rapido viaggio di consultazioni per formare il governo. E’ oggi il numero uno dei 5 Stelle, ha surclassato Di Maio. Una nota: nell’ultimo intervento dopo aver ricevuto l’incarico, avrebbe potuto far cenno a un impegno basilare, quello antimafia. E’ una priorità.
DI BATTISTA 4 – Un tempo la lotta, la denuncia, la scatoletta di tonno da aprire. Ora batte in ritirata. Voleva il voto o la continuità del governo con la Lega. Alessandro Di Battista esce con la coda tra le gambe.
DI Maio 5 meno meno – E’ ancora in sella ma pare disarcionato. Fa la voce grossa come i ragazzini che non vogliono farsi prendere il pallone in spiaggia. Nonostante alcuni anni di politica dovrebbe andare a ripetizione dal novellino Conte. Sente il bisogno, Luigi Di Maio, di raccontare a tutti gli italiani di aver per ben due volte – spirito di servizio… – rinunciato alla premiership, l’ultima servitagli su un piatto d’argento dal nemico-amico Salvini. Vuole a tutti costi la vicepresidenza del Consiglio: senza alcun motivo plausibile, a meno di non fidarsi in pieno di Conte, al quale forse rimprovera una possibile terzietà e una eccessiva autonomia: in sostanza di pensare con la sua testa, come lui spesso dimentica di fare.
GRASSO 5 meno – Invisibile, in tutta la partita, il numero uno di Liberi e Uguali, Piero Grasso. Eppure Leu, frattaglie di sinistra e vari, daranno il voto al governo che nasce. Non avrebbero fatto male a rompere il muro di preoccupante afasia. Sorge spontanea la domanda: perché nessuno s’è mai ricordato di invitarli al tavolo 5 Stelle-Pd?
GRILLO 6 e mezzo – Dopo mesi di silenzio (però caratterizzati dall’uscita a farfalle sui vaccini con una incomprensibile retromarcia pro Vax) Beppe Grillo torna al timone del movimento nel momento delle scelte. E sceglie bene. Un Vaffa a Salvini come ai tempi belli, e l’indicazione all’indeciso e sempre titubante Di Maio di aprire la trattativa con il Pd. Sopra le righe l’endorsement per Conte (l’Elevato ha uno strano odore): ma da leggere soprattutto come un calcione negli stinchi per Di Maio, che rammenta i tempi da steward al San Paolo.
RENZI 7 più – Ha sbagliato tutto quando era al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi. Un autogol dietro l’altro, tanto per dissipare in un baleno quel magico 41 per cento guadagnato alle Europee. Poi il suicidio politico con il referendum sulla Costituzione, che gli ha aggregato contro tutti i nemici possibili e soprattutto gli italiani. Ora che sembrava morto, risorge con un autentico prodigio. Un’azione alla Maradona che gli fa saltare come birilli gli avversari, mandati a terra uno dopo l’altro. Massacra Salvini, oggi costretto ad ammettere “forse ho sottovalutato Renzi”; impacchetta Di Maio; riprende in mano il Pd e costringe Zingaretti a fare quel che non avrebbe mai voluto, ossia trattare con i 5 Stelle. Ora torna in panchina. Ma giusto per una pausa.
SALVINI 2 – E’ riuscito in un’impresa titanica, ai limiti del possibile. Becca un fenomenale 34 per cento alle Europee, raddoppia i consensi, doppia i 5 Stelle che crollano della metà ma poi che fa? Ti aspetti caso mai che chieda di andare alle urne, oppure invochi la premiership e un rimpastone. Invece no. Per qualche giorno sta quieto, si gode la vittoria poi comincia a martellare quotidianamente gli italiani con la questione immigrati, rompe le scatole, sbraita, va in spiaggia a fare proclami, si scatena come un ossesso da manicomio, e poi – dopo tre mesi e in piena calura ferragostana – dice basta. Stacca la spina e manda tutti affanculo. Il motivo? Ancora oggi, a venti giorni di distanza, nessuno lo sa, nemmeno fra i leghisti, di vertice o di base. Un colpo di sole? Una questione da neuro? Un delirio di onnipotenza irrefrenabile? Una sbornia bis, come quella renziana dopo il botto europeo? Un mistero. E dall’8 agosto, giorno dell’Immacolata, mette a segno autogol a raffica. Sfiducia Conte, ma non ritira i ministri. Poi ritira la sfiducia. Quindi Conte lo manda a quel paese. Vuole riaprire il suo forno, propone a Di Maio di riprendere a governare d’amore e d’accordo offrendogli addirittura la premiership (e quindi la testa del comunemente odiato Conte), tiene la porta aperta per tutti i giorni seguenti e invia quotidiani tweet amorosi al segretario 5 Stelle. In pochi giorni è capace di perdere il 5-6 per cento dei consensi. Nelle storie politiche mai si rammentano spiaggiamenti così fragorosi: come una balena impazzita (senza voler minimamente mancar di rispetto a quegli stupendi cetacei). Grazie a Dio, toglie il disturbo.
ZINGARETTI 5 meno – Renzi lo disintegra, costringendolo alla trattativa con i 5 Stelle. Lui aveva in testa ben altro, come dimostrano i contatti telefonici con Salvini ai primi di agosto. ‘O Sceriffo, infatti, gli comunicava la volontà di rompere, quasi ad ottenerne un ok. Tutti e due pronti per giocarsi la partita alle urne. Il blitz dell’ex segretario e premier lo mette spalle al muro. In fumo i precedenti mesi di finta guida del Pd, una figuraccia colossale davanti agli italiani e ai suoi militanti. Costretto a trattare, lo fa come uno scolaretto, impara il compitino che la direzione del partito all’unanimità (meno il mancato sindaco di Roma Richetti) gli detta, va a trattare. Senza infamia e senza lode.
Senza voto Emma Bonino e la sua + Europa. Non sanno che pesci prendere, a quanto pare lei e l’unico superstite Della Vedova aspettano nomi e programma. O forse un imput da George Soros?
LOTTA AGLI EVASORI E PATRIMONIALE
Adesso via con la caccia ai nomi e al programma. Fino ad ora generici fumi per tutti i gusti. Obiettivi scontati che nessuno se la sentirebbe di non sottoscrivere.
Ma ci sarà il coraggio di idee forti? Di scelte davvero coraggiose? E non di azioncelle tanto per far vedere e guadagnare tempo?
Da sempre si parla di lotta all’evasione fiscale. Non sarebbe il caso di farne un punto cardine del programma? Ora che possiamo saper tutto o quasi – incrociando dati e controdati – sui Paperoni, i loro prestanome e i loro imperi, non è venuto finalmente il momento di scatenare una guerra senza quartiere? Di mandare in galera i grandi evasori, di riempire le carceri di colletti bianchi liberandole da drogati e povericristi?
Basterebbe questo per qualificare un governo. E quei soldi investirli per il welfare, per la vita, per diminuire le diseguaglianze, per una autentica giustizia sociale. Stesso discorso, of course, per la lotta alle mafie, ai riciclaggi, ai patrimoni sporchi.
Perché mai, poi, è inconcepibile pensare ad una patrimoniale in grado realmente di colpire le ricchezze paperoniche e alleviare le esistenze di chi non arriva a fine mese o per i pensionati che non sbarcano il lunario?
Questa è equità fiscale, non una flat tax che taglia a tutti in modo follemente identico.
La redistribuzione dei redditi è sempre stata un’utopia – mai neanche lontanamente realizzata – di sinistra. Non è il caso di pensarci, ora che la crisi rischia di spazzarci via? Chi ha malloppi in cassaforte (non si sa neanche in che modo guadagnati) perché dev’essere sempre un intoccabile? Che i soldi, poi, vengano con equità redistribuiti a chi non ha perché anziano, perché malato, perché ha perso il lavoro e via di questo passo. Non si tratta di favorire – la solita litania leghista – i meridionali sfaticati ai danni del nord che lavora. Ma di togliere a ladri, evasori, speculatori, parassiti, faccendieri per dare ha chi ha bisogno.
Perché tutti gli esseri umani hanno uguali diritti e uguale dignità.
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