Un grande toga, un autentico interprete del diritto, Francesco Saverio Borrelli. Uomo di gran cultura, perfetto fantino, amante dell’opera.
Balzato agli onori e alla ribalta delle cronache giudiziarie e non solo per aver diretto il pool di Milano negli anni strabollenti di Mani Pulite, dove si lavorava per “rivoltare l’Italia come un calzino”, soleva dire una delle punte di diamante del team, Piercamillo Davigo.
Rivoltata, non rivoltata, o cosa l’Italia di quegli anni?
A guardarla oggi, come osservano parecchie toghe d’allora, per niente, visto che la corruzione impazza più d’un tempo, s’è solo “ingegnerizzata”, e le mafie sono ancor più invasive, avendo allargato le loro metastasi su tutto il territorio nazionale.
E allora?
LA RIVOLUZIONE “GIUDIZIARIA”
Torniamo a quei primi ’90 dove si preparava la rivoluzione in toga e si affilavano le baionette giudiziarie.
Non si può che pensare al pool e le considerazioni non possono che toccare il direttore di quel pool, appunto Borrelli, uno dei massimi estimatori del Teatro alla Scala.
E’ stato, a palazzo di Giustizia, un ottimo direttore oppure no? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma val la pena di passare in rapida carrellata non pochi episodi che hanno suscitato – e suscitano ancor oggi – un forte sconcerto e una difficile interpretazione.
Caso Cagliari. Le ultime parole lasciate dall’ex vertice Eni Gabriele Cagliari destano ancora oggi una profonda angoscia. I familiari hanno denunciato più volte metodi di giustizia utilizzati e non solo. Quel cellophane nel quale è stato trovato rinchiuso il capo sembra una scena da prigione cilena ai tempi del super dittatore Augusto Pinochet.
Giallo Gardini. A quanto pare aveva deciso di parlare, di vuotare – come si dice – il sacco su un pozzo di misteri e di tangenti miliardarie. Come mai appena prima di recarsi in procura si spara una rivoltellata in testa? Come mai decise di portare con sé tutti quei segreti che avrebbero tirato in ballo nomi eccellenti? C’è mai non c’è mai stata una vera inchiesta su quel suicidio?
Ma l’orchestra di Borrelli continua a suonare.
Pochi sicuramente ricordano un caso passato subito in seconda fila. La vicenda di Valter Armanini, un ricco milanese, socialista della prima ora, craxiano convinto. La Voce lo incontrò a metà anni ’90 ad Orvieto, dove si trovava in semilibertà: dormiva in galera, durante il giorno lavorava in una piccola computisteria. Lo incrociammo in un ristorante e ci raccontò il suo calvario.
Le parole: “Mi hanno sbattuto a San Vittore, volevano sapere da me i segreti del tesoro di Craxi. Io non ne sapevo un cavolo. Mi hanno tenuto in cella di isolamento, poi c’è piombato dentro un nero in crisi di astinenza che mi ha vomitato addosso. Io non potevo raccontare quello che non sapevo”.
Non ce l’ha fatta, Armanini, a superare quello choc. Ed è morto in esilio ad Orvieto.
Storie del passato, ferite non facili da rimarginare, anche a distanza di tanti anni, per i familiari, per chi resta.
I GIALLI FIRMATI DI PIETRO
Ma passiamo ad una serie di vicende gestite direttamente dal braccio forte del pool, Antonio Di Pietro, l’ex poliziotto duro e puro arrivato dal Molise con la grinta di uno 007 a stelle e strisce. E guarda caso, il suo mito sono da sempre gli Usa, l’America, come vedremo.
Andiamo subito con i piedi nel piatto. E affrontiamo un interrogativo alto come le Torri Gemelle d’allora: come mai Borrelli ha permesso che Di Pietro letteralmente affondasse le prime, basilari inchieste sull’Alta Velocità,sulla TAV?
Come mai ha consentito che l’uomo di tutti i misteri, l’Uomo a un passo da Dio, ossia Pierfrancesco Pacini Battaglia, venisse trattato con i guanti bianchi dal sempre tosto Di Pietro?
Come mai il capo del pool, il direttore d’orchestra, non ha osato chiedere a Di Pietro conto di quei suoi quanto meno anomali comportamenti?
La Voce ha più volte scritto di quelle storie, che suonano come un’autentica vergogna per il nostro Paese, ormai sommerso da fanghi e ingiustizie d’ogni sorta. Ma chissenefrega, il “pianeta giustizia” è del tutto intoccabile, come del resto le fresche vicende targate Csm-Palamara stanno a dimostrare.
Torniamo a tomba. Le inchieste TAV.
Il primissimo filone nasce in Sicilia, grazie all’impegno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sulla scorta del maxi dossier (890 pagine) del Ros di Palermo lavorano per mesi e mesi sui rapporti tra mafie e imprese, sia locali che nazionali. Sotto i riflettori ci sono pezzi da novanta come la Calcestruzzi di Ravenna: sarà quando Falcone esclama “la mafia è entrata in Borsa”. Anche altre sigle entrano nel mirino delle indagini, come Saiseb, De Eccher e Icla-Fondedile nelle grazie di ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino. Ma quel filone morirà sotto il tritolo di Capaci e di via D’Amelio.
Passiamo al filone romano sul TAV. Che è radicato sul versante politico-amministrativo dell’affaire. Affidata al giudice Giorgio Castellucci, l’inchiesta verrà presto avocata dalla procura di Milano, che sta indagando sui profili affaristici, perchè a quanto pare “sta parlando” una gola profonda su quei maxi business, Pacini Battaglia, finanziere italo-elvetico, titolare di uno scrigno chiamato Karfinco.
A questo punto Di Pietro non si lascia sfuggire la ghiotta occasione: chiede a Castellucci il fascicolo Tav romano e riunisce tutto all’ombra della Madunina.
QUELL’IMPUTATO NON SI TOCCA
A questo punto, vista la tenacia investigativa del mastino Di Pietro, si immagina la grande svolta, il pentolone dal quale eruttano segreti d’ogni sorta, la vera Tangentopoli mai partorita: invece, neanche un tric trac. Pacini Battaglia non parla e lui, il grande 007, abbassa la guardia e libera subito il suo super inquisito, non facendogli trascorrere neanche 48 ore in gattabuia.
Se ne racconteranno tante: Di Pietro per questa e altre vicende simili (inquisiti che avevano elargito cadeau al pm) passerà indenne alla procura di Brescia, che giudicherà i suoi comportamenti condannabili sotto il profilo morale, etico e professionale, ma non sotto quello penale.
“Sbiancato” o “sbancato”, Pacini Battaglia? E resta – tra i tanti interrogativi – mai risolto quello circa la sua difesa: come mai, fra i tanti principi del foro milanese, sceglie uno sconosciuto avvocato che arriva con la valigia in mano dal Cilento, Giuseppe Lucibello? Forse perché è un grande amico dell’inflessibile pm Di Pietro?
Sull’inchiesta bresciana e le tante Di Pietro stories, potete leggere l’illuminante volume scritto esattamente 20 anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, “Corruzione ad Alta Velocità”.
Come mai il perfetto direttore d’orchestra Francesco Saverio Borrelli ha consentito che Di Pietro affossasse le prime inchieste TAV? Come mai ha permesso che l’imputato-teste più importante d’Italia, Pacini Battaglia, non solo la facesse franca ma se la svignasse con il suo gigantesco bottino di segreti?
Eccoci agli interrogativi finali. E siamo sempre alla toga coraggio che improvvisamente la scaraventa via senza lo straccio di una motivazione.
Come mai, nei mesi che hanno preceduto lo scoppio di Mani Pulite con l’arresto di Mario Chiesa, Di Pietro si è più volte incontrato con il console degli Stati Uniti di stanza a Milano? Per informare o per essere informato? Per ricevere istruzioni o cosa?
E come mai, qualche giorno prima di essere arrestato, l’allora superpoliziotto Bruno Contrada si trovava in una cena prenatalizia, tra gli altri, proprio con Di Pietro e con un agente della Cia?
Sicuramente Borrelli, prima di dirigere il pool, è stato un ottimo pm e poi un eccellente giudice. Perché allora, sicuramente essendo a conoscenza di tali fatti, non ne ha chiesto conto a Di Pietro?
E soprattutto. Come mai ha fatto in modo che su tutta l’operazione Mani pulite potesse aleggiare il sospetto di una super ‘regia’, di una eterodirezione da parte degli Stati Uniti? Un copione alla Moro, per intendersi?
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