Per quanti anni ha potuto impunemente continuare svolgere quel ruolo strategico di intermediario fra clan camorristici e magistratura deviata, quell’Antonio Di Dio che oggi, solo oggi, la magistratura romana inchioda alle sue responsabilità nell’ambito dell’inchiesta sul giudice del Tribunale di Napoli Alberto Capuano?
Semplice: almeno dal 2004. Quindici anni nei quali l’uomo ha potuto muoversi e tramare liberamente, benché già a quell’epoca fosse fino al collo nel mirino della DDA.
E’ il 6 maggio del 2004 quando gli allora pubblici ministeri anticamorra Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice, impegnati in un’indagine incandescente sul clan Cavalcanti, arrivano ad Antonio Di Dio, implicato nelle interferenze illecite del boss dell’area flegrea sul calcioscommesse. L’episodio viene messo nero su bianco sei anni dopo dai tre commissari prefettizi che nel febbraio 2010, al termine del ruolo svolto presso l’amministrazione comunale di Pozzuoli, sciolta per camorra, descrivono Di Dio come un «dipendente del Banco di Napoli, impegnato in politica quale consigliere circoscrizionale di Bagnoli, prima tra le fila di Forza Italia e attualmente nel raggruppamento facente capo all’on. Mario Segni».
IL GRAND COMMIS DI CAVALCANTI
Una relazione al vetriolo, quella dei tre commissari, che su Di Dio e su quello che viene definito il suo «ruolo centrale», si soffermano più volte. «Per l’Antimafia – si legge più avanti – Di Dio era il collegamento che Cavalcanti aveva in Napoli e mediante il quale controllava molti dei suoi affari personali; un “gran commis” dall’attività complessa e poliedrica, sia in relazione alle vicende in cui era coinvolto che ai soggetti frequentati». Ma non basta, perché «l’inchiesta dei pm Narducci e Beatrice consentiva di far emergere il ruolo di altri personaggi in costante contatto con Di Dio e dallo stesso, si potrebbe benissimo definire, organicamente dipendenti», fra cui – annotano i commissari – Annamaria Cavalcanti, sorella del boss Giacomo, con la quale intrattiene lunghe conversazioni telefoniche, non mancando di farle da accompagnatore in ogni occasione e di elargire favori, quali l’ottenimento di una pensione d’invalidità civile.
Su Antonio Di Dio si era dilungata nel 2010 anche la Voce, che in un’inchiesta sui comuni sciolti per mafia ne rendeva l’impietoso ritratto, basato sulle carte giudiziarie dell’epoca. Tutte finite, evidentemente, lettera morta, se è vero che è stato necessario l’intervento del gip della capitale Costantino De Robbio per porre fine – se fine sarà – alla connection che lo vedeva in prima fila, secondo l’accusa, a pilotare sentenze, processi, sequestri ed altre esecuzioni forzate, in cambio di grosse mazzette, favori e benefit dispensati di volta in volta ai magistrati di turno, suoi abituali referenti.
«Questo modello mafioso – scriveva sulla Voce con lungimirante maestria il sociologo Amato Lamberti a commento di quell’inchiesta del 2010 – meriterebbe una attenzione ben diversa da parte della magistratura, che finora si è concentrata sul livello criminale dell’organizzazione ed ha trascurato proprio quella rete di complicità, di connivenza, di corruttela, che coinvolge Enti pubblici e Pubbliche Amministrazioni, oltre a ceti professionali e apparati di controllo dello Stato, e che finisce per governare interi territori utilizzando gli strumenti della democrazia, ma piegandoli ad interessi particolaristici, quando non direttamente malavitosi».
Il risultato – o meglio, il motivo – di quella «scarsa attenzione», che ci ha condotti fino al putridume scoperchiato oggi ai diversi livelli del potere giudiziario, era probabilmente che il primo settore ad essere stato pesantemente infiltrato era già allora proprio quello degli organismi di controllo, in primis gli apparati giudiziari, come lo stesso Lamberti aveva osservato in più di una occasione pubblica.
Nulla di strano, quindi, se tre anni fa Di Dio, per tornare come consigliere in sella alla Municipalità Bagnoli, bussa alle porte Luigi de Magistris. Il quale accoglie a braccia aperte e riporta nel parlamentino locale il personaggio oggi descritto nell’ordinanza del Gip De Robbio come «soggetto aduso a stabilire plurimi contatti con pubblici ufficiali, disposti a vendere la funzione; per quindi porsi egli stesso, quale intermediario necessario tra costoro ed i privati interessati a comprarne i favori illeciti».
Così come, analogamente, c’è poco da meravigliarsi se fra gli arrestati dalla Procura di Roma nell’Operazione San Gennaro, insieme a Di Dio e al giudice Capuano, spunta anche l’avvocato Elio Buonaiuto, rimasto a piede libero grazie ad una lunga catena di assoluzioni, benché nel 2011 fosse finito in manette a Padova nell’ambito dell’Operazione Polvere, che aveva portato alla sbarra il gruppo criminale capitanato da Giuseppe Catapano. Sentite cosa scriveva sul conto di questa organizzazione e dello stesso Buonaiuto il Comando Carabinieri Padova, capitanato all’epoca dal colonnello Renato Chicoli, che sarebbe poi diventato capocentro nazionale della Direzione Investigativa Antimafia.
«L’indagine ha avuto origine nel febbraio 2010 a seguito di un intervento dei Carabinieri di Este (PD) presso un capannone di una società dichiarata in fallimento: la ARES S.r.l. di Este (PD). L’accesso consentiva di documentare il tentativo di sottrarre i beni della società ai creditori grazie all’intervento di mediazione condotto dal Gruppo Catapano di Napoli».
Quanto al modus operandi, «Il Gruppo Catapano, attraverso dei referenti locali, propone ad aziende in difficoltà dei progetti di salvataggio – rivelatisi fraudolenti – ottenendo dei significativi compensi. (…) I pesanti riscontri investigativi ottenuti circa le condotte criminose di vertici e gregari del gruppo criminale, hanno consentito alla Dott.ssa Paola De Franceschi, Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Padova titolare dell’inchiesta, di richiedere al G.I.P., Dott.ssa Paola Cameran, l’emissione di 15 ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere finalizzata ai reati di procurata bancarotta fraudolenta – patrimoniale e documentale – truffa e falso in atto pubblico».
Fra gli arrestati, «Elio Buonaiuto, 63enne di Ottaviano (NA), noto alle FFPP: L’AVVOCATO. Socio fondatore dell’O.P.E. (fantomatico organismo fondato da Catapano al Centro Direzionale di Napoli) presta la sua assistenza legale per difendere i componenti del “gruppo” e, qualora necessario, per rassicurare i clienti ed assistere i prestanome nei loro incontri con i curatori fallimentari».
Da notare che nel 2011, quando la Benemerita padovana ne traccia l’identikit, viene specificato che Buonaiuto era “già noto alle forze di polizia”. Eppure, anche qui, si è dovuto attendere che si svegliasse la Procura di Roma per gettare un fascio di luce su un verminaio – quale quello descritto dal Gip romano – che a Napoli ogni giorno, da almeno quindici anni, falcidia innocenti, imprese, vite umane, comprate e vendute a suon di mazzette.
L’INCHIESTA DELLA VOCE DI MARZO 2010
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