EUROPEE 2 / NON SOLO GRETA – 5 STELLE SALVINIZZATI ED ALTRI DOLORI

Per una volta, forse la prima, chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ammette di aver perso. Tra i due estremi naviga con alterna fortuna la flotta delle navi d’appoggio di vincitori e vinti. L’Europa del 27 maggio 2019 è più sovranista di prima e se lo è quanto di più? L’exploit di Salvini ha un futuro di lunga durata, sarà compatibile con le trasgressioni al rigore dell’economia? Il viale del tramonto del grillismo è una via senza ritorno, il Pd troverà il collante per compattare i frammenti autonomisti della  sinistra? Sono tutti nodi che il test elettorale del 26 maggio non ha sciolto.

DI LUCIANO SCATENI

Nel segno di Greta

Nasce un fiore tra le ortiche, un giglio nel deserto, una rosa in cima a montagne coperte di nevi sempiterne, un ciclamino tra ciuffi di parietaria, una margherita sfogliata “sì”-“no”, una mammola dove la terra è spaccata dalla siccità, un fiore di loto in una torbida pozzanghera, un bocciolo di garofano rosso come il fuoco nell’occhiello di una giacca bianco latte, una stella che buca nuvole nere, un raggio di verde luna negli occhi di bambini dalla pelle ambrata, lo stesso verde del colore che ha dipinto sorprendentemente ampie aree dell’Europa: il verde dispensato al mondo da Greta Thunberg, la ragazza svedese di sedici anni che convive da quando ne aveva undici con la sindrome di Asperger, disturbo simile all’autismo, ma che per fortuna non provoca ritardi nell’apprendimento né ritardi cognitivi, ma disturbi ossessivo-compulsivi, cioè una sorta di mutismo selettivo. L’esito del morbo la porta a parlare poco e solo con le persone importanti per sostenere la sua crociata ambientalista. Chi non vorrebbe esserne affetto se questa è la conseguenza? Berlino, Parigi, la Finlandia rispondono “Presente” al manifesto ambientalista di Greta e chiede un inversione di marcia a “U” al torto dei verdi italiani, appiattiti su una serie di “no”, poco o per niente propositivi.

Un profluvio di parole in libertà ha affollato le maratone post elettorali e per sommergere  l’intero sistema dei network radiotelevisivi ha obbedito a rigidi schematismi. Sprint dei conduttori per informare all’ora ics spaccata degli exit poll, accompagnati da ipocrite auto raccomandazioni di prudenza, grafici e allestimenti scenografici in qualche caso hollywoodiani (Sky), orge di ospiti, atmosfere di suspense nell’attesa del verbo dei leader, preceduti da ‘mezze calzette’ che assurgono a notorietà, solo perché  riempiono ore di trasmissione, e da gregari tirano la volata ai capitani. Il contorno è servito con  commenti incrociati, opinioni di politologi, giornalisti, esperti di elezioni, annunci a tappe dei dati sull’affluenza, proiezioni e primi dati attendibili, accenni approssimativi al voto anticipato in alcuni Paesi.

In pillole, per non reiterare il bombardamento mediatico, quanto è accaduto in Italia, Francia, Gran Bretagna e Ungheria, che hanno assecondato gli umori antieuropei dei rispettivi Paesi, ma senza operare il sorpasso globale auspicato da Salvini. Il Parlamento di Strasburgo si prepara a confermare il governo di coalizione dei popolari con partner europeisti. In Germania, ma non solo, l’onda lunga dell’ambientalismo che la statura trainante di Greta ha fatto montare nel mondo ambientalista, è l’evento rivoluzionario di questo voto, destinato ad assumere un ruolo di protagonista, a scompaginare le rigide contrapposizioni sempre più distanti dai problemi del mondo,  del gigantismo prepotente di Stati Uniti, Cina e Russia. Le beghe che declassano il Vecchio Continente al ruolo di  comprimario e mettono in discussione il termine “Unione” della Ue, l’imperfezione di un club di diversi, hanno confermato anche nella circostanza delle elezioni appena svolte che i  membri della Comunità sono alla esposti al rischio fragilità politica ed economica per  insanabili  contrapposizioni ideologiche e interessi di bottega.

Dal proscenio dove agiscono i primi attori, sotto la luce dell’occhio di bue, fanno tre passi del gambero due signore della politica internazionale. In lacrime esce dalla comune Theresa May, segnata dal travaglio dell’impossibile gestione della Brexit, auspicata e osteggiata, in un  clima di caos che ha scavato la fossa ai tradizionali tories e laburist, con sommo gaudio di Farage, incredibile clown della politica, paladino dell’exit. Esce dal meritato protagonismo Angela Merkel, regina indiscussa del Parlamento europeo. Nel suo futuro non ci può essere divano e tv, l’incognita è solo sul ruolo di prestigio che l’aspetta.

Sergio Chiamparino

Circola inutilmente la domanda sull’opportunità politica di accogliere nella Comunità Paesi  razzisti, xenofobi, sovranisti, ovvero di agenti inquinanatori della coesione europea. Per nulla sorprendente è il sorpasso di Marine Le Pen in danno di Macron, preceduto dalle violenze degli infiltrati della destra francese nel movimento dei gilet gialli. Fatale e pagato elettoralmente il ritardo del Presidente  nel venire a patti con il popolo di esasperati alle prese con il caro vita.

Il caso Pd è da manuale. Il dopo Renzi, stretto tra le primarie e il voto ravvicinato per l’Europa, ha fatto poco, forse niente, per andare alle elezioni con una lista di coalizione. Nel guazzabuglio dei commenti è mancata la ragioneria dei risultati e perfino l’elementare conto della massaia, per mettere in colonna le percentuali di voto di Pd, Europa, Verdi, La Sinistra, Partito Comunista, che sommate, con due milioni di voti persi, avrebbero tallonato da vicino l’exploit della Lega. Alla tenuta del Pd nella competizione delle amministrative ha giovato la consolidata affidabilità dei governi di sinistra nelle grandi  città: Firenze, Bari, Lecce, Bergamo… La debacle dell’Umbria è invece espressione del vulnus provocato dall’incredibile caso della presidente Pd della regione, implicata in reati di abuso d’ufficio, che si è dimessa e subito dopo ha ritirato le dimissioni. Un pasticciaccio brutto che ha ridotto a zero il consenso  elettorale. Un errore così grossolano non sarebbe mai stato possibile al Pci delle sezioni e delle strutture orizzontali, ma vivere di nostalgia è proibito. È  stata letale anche la vittoria alle comunali id Gela dove si è imposta la lista fifty-fifty Pd-Forza Italia, evento passato sotto silenzio dai dem. Ma conta il futuro. Se lo disegnerà  Zingaretti è la scommessa in corso.

Nicola Zingaretti

Europee alle spalle. E adesso? La patata bollente scotta nelle mani di Di Maio. Si comportasse come farebbe un corretto leader di partito, anziché commentare la disfatta con un patetico “Nessuno mi ha chiesto di dimettermi”, avrebbe lasciato a caldo, assumendosi la responsabilità della sconfitta. La volpe Salvini si prepara a spingere nell’angolo il socio di un contratto che imporrà da una posizione di evidente supremazia. I 5Stelle, se accetteranno il ruolo di comprimari  dovranno ingoiare i rospi Tav, Flat Tax, decreto sicurezza bis, autonomia, la teoria suicida dello sforamento al 3% e oltre del debito pubblico. Sulla media distanza è prevedibile un rimpasto con il licenziamento di Conte e l’auto nomina di Salvini a premier, che per la Lega è prospettiva migliore rispetto all’ipotesi di   allestire l’alternativa di un centrodestra con Berlusconi, scomodo partener e con gli appetiti della Meloni, tronfia per il suo 6% e spiccioli alle europee. Puntuale cade sul traballante governo gialloverde il macigno scagliato sul suo crinale più debole. Se prima del default grillino Salvini faceva la voce grossa, ora ringhia, ordina, minaccia, infierisce sui compagni di cordata sotto choc, compie violenti abusi sul capro espiatorio pentasetllato, il contrito Di Maio, destinato a immolarsi, a replicare la crocefissione di Renzi, finito dalle stelle alla polvere. Se ai domestici licenziati si danno i sette gironi, ai 5Stelle il focoso leghista concede trenta giorni per assoggettarsi all’“imperativo categorico” di approvare i segmenti leghisti del contratto di governi. Il piano B si propone di sfiancare la resistenza dell’avversario ferito, di  cacciarlo di ‘casa’’ per ritagliarsi il ruolo di  premier. Quando e con chi è l’incognita. Nel frattempo il ‘trionfatore’ delle europee deve sbrogliare l’intricata matassa dei provvedimenti della Ue nei confronti dell’Italia che non ha i conti a posto nei fondamentali della crescita e del debito. Il rischio è di ricevere un avviso di infrazione  che l’obbligherebbe il governo a intervenire sui due addebiti. L’anti istituzionalista Salvini risponderà alla lettera di richiamo sui conti con il solito “me ne frego”?  Costerebbe al Paese un più pericoloso isolamento e in prospettiva l’uscita dalla Comunità. Intanto lo spread s’impenna fin a quota 280 e costa alle nostre finanze già malandate non pochi miliardi.

Cosa aspettano i vertici del Vaticano a scomunicare Salvini per blasfemia. Ancora una volta, il campione dell’intolleranza, del razzismo, della disumanità, ha celebrato il successo elettorale baciando in tv il crocefisso, simbolo di accoglienza, umanità, eguaglianza.

Gli effetti immediati del voto si ripercuotono  a catena. Fazio è costretto a sloggiare da Rai1 e a traslocare nella seconda rete Rai, per il momento senza sapere  in che fascia di ascolto e con quale compenso. Non sarebbe una sorpresa se progettasse di emigrare in un altro network. Sembra sfumare anche il ritorno in Rai di Luttazzi, voluto da Freccero e chissà quante altre sterzate a destra si abbatteranno sulla televisione pubblica.

Fabio Fazio

Due sconfitte anomale della sinistra, l’una prevedibile, l’altra proprio no, richiedono riflessioni particolari. La buona amministrazione di Chiamparino è stata offuscata dall’alleanza trasversale, non esplicita, ma salda, di molteplici componenti politiche, sociali e dell’imprenditoria nordista, decise a imporre la realizzazione del Tav. La mancata elezione di Mimmo Lucano è molto probabilmente frutto di ostilità del Pd per le posizioni ‘troppo di sinistra’ dell’ex sindaco di Riace. Succede anche questo nelle stanze che contano del Nazareno.

Il pollice verso che ci liberi del salvinismo spetta ai ragazzi che hanno riempito le strade di rabbia propositiva, di antirazzismo, che hanno dichiarato guerra alla criminalità e hanno rivendicato il diritto a decidere il loro  futuro, ribadito l’impegno a non frenare la spinta antagonista nei confronti di un mondo che divora se stesso fino a rischiare la sopravvivenza. L’esempio di Greta Thunberg, candidata al Nobel per la pace, può diventare un formidabile propulsore di cambiamento. Molti dei ragazzi che hanno eletto la giovanissima Greta leader del movimento per salvare la Terra, sono gli stessi che di qui a qualche anno saranno chiamati a scegliere con il voto a chi affidare il governo dell’Italia e dell’Europa.

LUCIANO SCATENI

Nella foto di apertura Matteo Salvini con Marine Le Pen. Dall’altro lato Greta Thunberg.

 

 

 

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5 STELLE SALVINIZZATI

DI ANDREA CINQUEGRANI

Ricordate la berlusconizzazione progressiva dei Ds poi Pds andata avanti fino al Pd? E soprattutto con il finale griffato Renzi, in totale sintonia con il Cavaliere?

La conferenza stampa di Salvini

Bene. Un copione molto simile lo ha messo in scena (o in sceneggiata) un regista di grossa abilità politica, Matteo Salvini, che in appena un anno è riuscito nell’impresa di salvinizzare mezzo movimento 5 Stelle.

Praticamente cloroformizzandolo, neutralizzando, depotenziandolo. Snaturandone i connotati, l’energia che l’aveva contraddistinto prima, le battaglie in qualche modo identitarie; un movimento qualunque, privo, appunto, di quella identità di base e di quella forza propulsiva.

Quasi il ministro degli Interni vi fosse entrato dentro – lungo il percorso governativo – per espiantarne gli organi vitali gettandoli alle ortiche.

Paradossalmente, contano molto di più le retromarce o le inversioni di marcia, i tentennamenti, le scoloriture, rispetto alle poche cose portate a segno. Eppure – si dice – i 5 stelle hanno partorito 18 leggi su 20, e la Lega solo due.

Com’è possibile un ribaltone del genere, sia a livello numerico, che nel sentire collettivo?

La conferenza stampa di Di Maio

Dei 5 Stelle restano impresse le cavolate sull’Ilva. Sul Tip. La sceneggiata “costi-benefici” a proposito del Tav, quando anche i bambini sanno che quel conteggio non serve a niente e che il NO deve essere cubitale a prescindere da 100 o 500 milioni di euro nella lista della spesa.

Dei 5 Stelle fa rumore il ribaltone sui vaccini, con il passaggio del Vate Grillo in poche ore alla linea Pro Vax di Roberto Burioni & C.

Per il resto? Fa rumore, come un tric trac, il reddito di cittadinanza, la montagna che partorisce il topolino.

Errori di sostanza. Ed errori di forma, di comunicazione.

Mentre la Lega ha fatto esattamente il contrario e ha patrimonializzato tutto quel che era possibile razzolare sul terreno di gioco.

Così hanno fatto un gigantesco baccano mediatico le quotidiane battaglie a botte di porti e di immigrati, la caccia allo straniero. La difesa tipo far west che fa troppa gola a tanti, le legittima difesa da saloon, fino al decreto bis.

Poi le parole d’ordine lanciate un giorno sì e l’altro pure. Le ‘balconate’ ducesche, le immagini. Ovvero oggi la foto col mitra, domani con il rosario. Il dialogo con lo Madonna e chi c’è lassù. Insomma tutto quello che la gente vuol sentirsi dire, sussurrare all’orecchio o urlare in faccia.

Purtroppo Salvini è un comunicatore nato, mentre a sinistra nessuno sa dire neanche una sillaba

Purtroppo oggi c’è un campo di destra preciso e articolato, Salvini e Meloni sfondano il 40 per cento e la ciliegina di Berlusconi può essere un optional.

Il timone è tutto nelle mani dello Sceriffo. Come il governo.

Con un Di Maio all’angolo. Al pari di un pugile suonato e dimezzato. Costretto a gettare la spugna o ingoiare tanti rospi da scoppiare.

Non resta che una via d’uscita, difficile, quasi impossibile, viste le prime avvisaglie di un Pd che vuol cercare consensi al centro.

E invece si dovrebbe pensare a cosa fare, ad un programma vero, autentico, di cose, iniziative per i cittadini. E’ una bestemmia ormai dire “di sinistra’: ma è per intendersi, su quei terreni che distano mille miglia dalla Lega di Salvini ed esisteranno finchè c’è il mondo.

Altro che flat tax, ma equità sociale e fiscale, altro che decreti di polizia, ma giustizia nelle aule di tribunale, altro che Tav ma ferrovie per i pendolari.

E per far squadra, non c’è che un modo. Contarsi intorno a idee guida, un programma base, principi cardine.

5 Stelle, Pd, arcipelago vario di “sinistra” (dai Verdi a tutte le isolette dell’arcipelago).

Anche lacerarsi, ma per dar vita ad un soggetto unitario: altro che partito di sinistra (sic) ‘allargato’ al centro.

Perché quando c’è il precipizio davanti, oppure si è sul Titanic, è lezioso parlare ancora della marca di champagne.

ANDREA CINQUEGRANI

 

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NIENTE SARA’ PIU’ COME PRIMA

DI GIULIETTO CHIESA

Sia l’esultante Matteo Salvini, sia il frastornato Luigi Di Maio, appena letti i risultati del voto europeo, hanno comunicato che il governo continuerà a lavorare. Il che è probabile. Ma non sarà come prima.

I numeri, e i toni, dicono chiaro che il governo giallo verde è diventato molto più verde che giallo, cioè che la prosecuzione del percorso non sarà più paritaria.

Insomma sarà un governo a guida Lega. E questo porrà altri problemi al Movimento 5 Stelle, oltre a quelli che il voto ha evidenziato con assoluta crudezza. Perché, come ha detto chiaramente Salvini, le priorità del governo, saranno dettate da lui, e saranno molto dure da digerire per il Movimento. Ne basti una: la TAV, ovvero la cosiddetta Alta Velocità in Val di Susa, tema su cui le posizioni della Lega sono diametralmente opposte. I 5 Stelle non vogliono fare il famoso traforo sotto il Monte Bianco. Salvini è di opinione opposta prima del 26 maggio e l’ha ribadito nei suoi primi discorsi dopo il voto.

Non cambierà di certo opinione. Il nuovo governatore leghista del Piemonte, che ha sconfito il DC Chiamparino, ha già annunciato la ripresa dei lavori. E allora che cosa potrà fare Di Maio? Cedere di nuovo? Oppure impuntarsi e andare allo scontro? Ma cedere significa perdere ogni credibilità residua presso gli elettori che gli hanno concesso uno striminzito 17% di voti. Andare allo scontro comporterebbe il rischio di una crisi di governo, che lascerebbe il Movimento all’opposizione, cioè senza potere, in condizioni minoritarie, in discesa.Inoltre il risultato elettorale ha detto un’altra cosa molto importante, anzi decisiva: che non c’è alternativa alla destra. L’idea di una coalizione tra Partito democratico e 5 stelle, alternativa al governo giallo-verde — idea coltivata da molti settori del mainstream, a cominciare da Repubblica, che l’ha suggerita insistentemente nelle ultime settimane della campagna elettorale — è impraticabile. Non ci sono i numeri. Il PD ha frenato la sua rovinosa caduta, ma lo ha fatto a spese proprio dell’elettorato dei 5 Stelle. Dunque la somma dei loro voti, cui aggiungere quelli della Sinistra di Fratoianni, anch’essa sparita nella catastrofe, non sarebbe sufficiente per formare un altro governo. Bisognerebbe aggiungere le frattaglie di altri sconfitti, come il “Più Europa” di Emma Bonino. Ma nemmeno quello basterebbe a rovesciare la frittata.

E, anche in questo caso del tutto ipotetico, il prestigio “storico” del M5S, consistente nell’ergersi come forza moralizzatrice contro la politica corrotta (che lo portò l’anno scorso alle vette del 32% del corpo elettorale), ne sarebbe lesionato. Come potrebbe spiegare, Di Maio, ai suoi residui elettori, l’abbandono delle proprie bandiere per un abbraccio con quello che fu il suo nemico principale, il Partito Democratico? In conclusione i 5 Stelle non possono neanche fungere da ago della bilancia per una soluzione alternativa. Ma non potranno neppure fare gesti di rottura, aprendo la strada a una crisi dalla quale non potrebbero che risultare perdenti . Un bel guaio!Ma non è il solo. Luigi di Maio, in uno dei primi commenti, ha detto che il suo movimento è nato per affrontare “una lunga maratona e non una corsa di cento metri”. Non è una dichiarazione di resa, dunque. Resta da vedere se i suoi elettori residui sono disponibili a correre sulla distanza. Anche per il primo ministro Giuseppe Conte la corsa minaccia di diventare difficile. Fu presentato a Salvini quando la Lega, all’inizio della maratona, aveva il 17% dei voti e un gruppo parlamentare molto più esiguo di quello dei 5 Stelle. Ora il premier deve gestire una situazione da leader dimezzato. Il suo “decisionismo” nelle ultime settimane — segnatamente quello che lo portò a licenziare in tronco un sottosegretario leghista messo sotto inchiesta dalla magistratura — non è stato dimenticato. E, soprattutto, non sarà tollerato. Salvini ha assicurato che si andrà avanti come prima, ma c’è una cosa che non potrà essere “come prima”: i rapporti di forza.

GIULIETTO CHIESA

 

 


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