A dieci anni esatti dall’uscita in libreria di “Ultimi – inchiesta sui confini della vita” (Tullio Pironti editore), pubblichiamo stralci dal libro della giornalista Rita Pennarola che, nella prima parte, esplora il tema dell’aborto dal punto di vista scientifico e sociologico.
«Le polemiche sul Family Day, in corso a Verona, sono alimentate da un fattore prevalente: l’ignoranza», taglia corto la giornalista. Che spiega. «Si preferisce chiudere gli occhi sulle pratiche utilizzate per eseguire gli aborti, in Italia come nel resto del mondo. La stessa censura esiste sui giornali o in tv. Nel mio libro queste tecniche sono state spiegate nel dettaglio perché credo che prim’ancora di sbandierare convinzioni assolute di carattere sociologico, religioso o politico connesse a questa pratica medica, vi sia l’assoluta necessità di conoscere, sapere cosa realmente accade quando si chiude la porta dello studio o della sala operatoria e dentro restano due vite, del tutto inconsapevoli di quello che sta loro accadendo: una madre, con tutto il peso del suo dramma, e il più indifeso degli esseri umani, quel piccolo feto che di lì a pochi minuti sarà fatto a pezzi. Piaccia o no, la realtà è questa».
Il libro di Rita Pennarola è aperto dalla appassionata prefazione di un giurista come Ferdinando Imposimato, accanto a lei nel 2010 nelle diverse città italiane che avevano chiesto di presentare questo lavoro, la cui seconda parte è dedicata all’espianto di organi.
Scriveva Imposimato:
Il libro di Rita Pennarola sui confini della vita è semplicemente sconvolgente e affascinante: esso ci introduce con la maestria di una grande investigatrice nel mondo sconosciuto della bioetica, dal quale i più sono rimasti lontani per i limiti culturali e, forse, per il timore di prendere posizione su temi così scottanti. Si tratta di materia difficile e complessa. Eppure questo libro – che tratta magistralmente i temi ardui degli aborti, dei trapianti e del fine vita – riesce a colmare, in modo semplice ed efficace, almeno in parte, le immense lacune su argomenti che tutti dovrebbero conoscere, specie coloro che hanno compiti speciali come legiferare o esercitare i mestieri del medico o del giudice, del poeta o del giornalista.
Pier Paolo Pasolini, il più laico e progressista di tutti i poeti ed artisti italiani del ’900, posto di fronte al dilemma aborto sì / aborto no e di fronte alla legge sull’aborto – voluta dalla stragrande maggioranza degli italiani – non ebbe incertezze, e scrisse: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio» (Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 19 gennaio 1975).
PEZZI VIVI
Nel primo trimestre la tecnica più usata per interrompere la gravidanza è quella dell’aspirazione conosciuta come “metodo Karman”, vale a dire il risucchio di tutto il contenuto biologico dell’utero (mucosa, placenta, embrione o feto) con una cannula introdotta attraverso la vagina e collegata ad una pompa. All’altra estremità della cannula si trova un bisturi a forma di cucchiaino. Tale sistema inevitabilmente frantuma la ancor fragile struttura che stava completando la sua formazione.
La tecnica abortiva per aspirazione, che comporta la dilatazione manuale della cervice uterina, risulta la più usata nei primi novanta giorni dal ritardo mestruale, ma può essere utilizzata fino a quindici settimane di gestazione. In molti centri è tuttavia ancora in uso il cosiddetto “raschiamento”: dopo la dilatazione della cervice, nell’utero viene introdotta una lamina affilata (definita curette) che fa piazza pulita di tutto il contenuto.
Dilatazione, svuotamento e raschiamento sono tuttora le pratiche maggiormente utilizzate anche quando l’aborto avviene nel secondo trimestre di gravidanza; in tal caso, però, il medico è tenuto a ricomporre le pari del corpo fetale smembrato, anche per accertarsi che non ne siano rimasti nell’utero pericolosi frammenti. Persistono comunque, anche nel mondo occidentale, tecniche abortive basate sulla somministrazione di farmaci che favoriscono le contrazioni dell’utero e l’espulsione, quasi come se si trattasse di un vero parto.
Il “problema” è che spesso il feto nasce vivo. E in questi casi la legge impone di rianimarlo. Un problema particolarmente “sentito” negli Stati Uniti (oltre un milione di aborti ogni anno), dove la scelta delle tecniche per l’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) è basata su un principio dettato dalla Corte Suprema: il termine “persona”, così come viene usato nel quattordicesimo emendamento della Costituzione, non si applica al bambino non nato. Pertanto, ponendo fine alla vita del piccolo prima che sia completamente fuoriuscito dal corpo materno, non si presenta il problema dei suoi diritti giuridici come persona, cosa che invece diventa una grossa complicazione nei casi di sopravvivenza del feto. È per questo che in fase di gestazione avanzata una tecnica adottata a lungo è stato il “born-alive abortion” (letteralmente, “aborto del nato vivo”), con feti-bambini nati appunto vivi e lasciati morire in una stanza dell’ospedale senza assistenza sanitaria. Si parlava, in questi casi, di “diritto all’aborto fallito”, o di “esecuzione dell’aborto dopo il parto”. Poi nel 2002 una legge del Congresso americano ha elaborato la “Federal bornalive infants protection law”, che ha posto fine a questa pratica.
Perciò oggi, anche negli Usa, il metodo abortivo più adottato nel secondo trimestre di gestazione è quello di “Dilatazione ed Evacuazione” (D&E). Questo sistema – che noi chiamiamo “raschiamento” – implica un allargamento dell’apertura dell’utero sufficiente a inserire i ferri, dilaniare il feto ed estrarlo pezzo per pezzo. Normalmente si richiedono dai dieci ai quindici passaggi per la totale evacuazione. Manovre chirurgiche lunghe e complicate.
La tecnica abortiva che infiamma il dibattito negli ultimi tempi riguarda perciò una variante del D&E, fino al 2007 praticata legalmente da duemila donne americane ogni anno. Si tratta della “partial- birth abortion” (letteralmente “aborto a nascita parziale”): è su questa tecnica abortiva che si è giocata negli Usa una decisiva partita in vista delle ultime presidenziali, con l’allora candidata democratica Hillary Clinton schierata (come aveva fatto suo marito Bill quando era stato presidente) a favore di questa metodica. La partial- birth abortion era stata introdotta dopo una decisione dell’Alta Corte Federale di Giustizia del 1973, che aveva concesso a Jane Roe il diritto di abortire. «La Roe, il cui vero nome è Norma McCorvey – scrive su La Voce delle Voci la giornalista italiana Angela Vitaliano, che lavora negli Stati Uniti – ammise in seguito di aver mentito circa la violenza sessuale denunciata, ma continuò a battersi per il diritto all’aborto, schierandosi apertamente con i gruppi “pro-choise”. Salvo poi cambiare idea e mettersi alla testa del gruppo “donne pentite di aver abortito”, spingendo anche per la revisione del processo».
Una legge del 2003, che prevedeva restrizioni in materia di “nascita parziale”, è stata confermata ad aprile 2007 dal Congresso americano. Ma l’Intact D&E, l’aborto a nascita parziale, è tuttora eseguito clandestinamente in diverse parti del mondo (oltre che negli stessi Stati Uniti). Lo praticava George Tiller, il ginecologo freddato a maggio 2009 da un fanatico killer perché nella sua clinica di Wichita, in Kansas, procurava aborti dopo la ventesima settimana.
Per eseguire un partial-birth, dopo aver invertito il corpo del bambino nell’utero, ponendo la testa verso l’alto, si provoca il parto tirandolo fuori per i piedi, finché rimane nel corpo materno solo la testa. A quel punto con una manovra interna il medico gli perfora il cranio e ne aspira il cervello così da fare implodere la testa che, finalmente, viene tirata fuori anch’essa. Questa procedura, che per gli abortisti ha il “vantaggio” di evitare di fare a pezzi il bambino dentro l’utero, viene eseguita generalmente tra il quinto e il sesto mese di gestazione, ma anche oltre. Dettagli sul metodo si ottengono scorrendo alcuni punti riportati nella più recente disposizione del Congresso americano. «L’aborto a nascita parziale – si legge nel documento – diventa di dominio pubblico nel 1992, quando il dottor Martin Haskell offre una presentazione pubblica del suo modo di eseguire l’operazione come variante della D&E». Ecco la spiegazione di Haskell. «A questo punto, il chirurgo non mancino fa scivolare le dita della mano sinistra sulla schiena del feto e “aggancia” le spalle del feto con l’indice e le dita ad anello (palmo in basso). Mentre mantiene questa tensione, sollevando l’apertura dell’utero e applicando una trazione sulle spalle con le dita della mano sinistra, il chirurgo prende un paio di forbici Metzenbaum molto arrotondate con la mano destra. Avanza con cautela la punta, incurvata verso il basso, lungo la colonna vertebrale e sotto il suo dito medio finché avverte il contatto con la base del cranio sotto la punta del dito medio. Il chirurgo forza dunque le forbici dentro la base del cranio o nel foramen magnum. Dopo aver penetrato il cranio con successo, egli allarga le forbici per rendere più ampia l’apertura. Il chirurgo rimuove le forbici, introduce un catetere di aspirazione nel buco, e procede all’evacuazione del contenuto del cranio o nel foramen magnum. Dopo aver penetrato il cranio con successo, egli allarga le forbici per rendere più ampia l’apertura. Il chirurgo rimuove le forbici, introduce un catetere di aspirazione nel buco, e procede all’evacuazione del contenuto del cranio. Con il catetere ancora lì, egli applica una trazione al feto rimuovendolo completamente dal paziente».
La sentenza riporta poi la descrizione del metodo fatta da un’infermiera che ha assistito il dottor Haskell in un aborto praticato su una donna quasi al settimo mese: «Il dott. Haskell entrò con i forcipi, afferrò le gambe del bambino e le tirò fuori lungo il canale di nascita. Dunque, fece uscire il corpo e le braccia: tutto tranne la testa. Il dottore tenne la testa proprio dentro l’utero… Le piccole dita del bambino si aprivano e si chiudevano con forza, e i piedini scalciavano. A quel punto, il dottore conficcò le forbici nella nuca e le braccia del bambino si allungarono di scatto, come una reazione improvvisa, come un sussulto, come un bambino fa quando pensa di stare per cadere. Il dottore divaricò le forbici, conficcò un potente tubo di aspirazione nell’apertura e risucchiò il cervello del bambino. Il bambino si afflosciò… Egli tagliò il cordone ombelicale e tirò fuori la placenta. Poi gettò il bambino in un recipiente insieme alla placenta e agli strumenti che aveva appena usato».
Dopo il pronunciamento della Suprema Corte, le associazioni per la libertà di aborto hanno inscenato manifestazioni di protesta. «La sentenza – dicono – sfida trent’anni di precedenti decisioni di segno opposto e mette a repentaglio la salute delle donne che dovrebbe essere tutelata dai medici e non dai politici».
«In realtà – commenta il Wall Street Journal – il Partial Birth Abortion Ban Act (vale a dire il divieto di aborto parziale, previsto da una legge del 2003 e confermato nel 2007) prevede già eccezioni nel caso sia in pericolo la vita della donna. Una scappatoia invocata dai fautori della libertà d’aborto, perché autorizza di fatto ogni pratica abortiva. Un medico può considerare sufficienti per ricorrere a questa eccezione “stati di ansietà” della donna incinta e perfino “problemi finanziari”».
Le disposizioni del 2007 lasciano comunque in vigore la prassi comune della “Dilatazione ed Evacuazione” (D&E). E nell’America di Barack Obama quella sulle modalità di aborto resta una tra le sfide più incandescenti. Le statistiche dicono che negli Usa la metà delle gravidanze sono definite “non volute” e in questi casi quattro volte su dieci la donna decide di ricorrere all’aborto: il 40 per cento sono bianche, il 69 per cento di colore e il 54 per cento ispaniche. Ogni anno – secondo il resoconto aggiornato di Angela Vitaliano – circa il due per cento delle donne, in età compresa fra i quindici e i quarantaquattro anni, abortiscono, e per il 47 per cento di loro non si tratta della prima volta. Il numero totale degli aborti legali, praticati dal 1973 al 2005, è pari a circa 45 milioni.
LA FINE DEI FETI
Tanto gli studi medici che agiscono nell’ombra, quanto le strutture pubbliche o autorizzate, devono oggi fare i conti col destino dei feti, le cui possibilità di sopravvivenza, in caso di interruzione della gravidanza oltre il quarto mese, si sono moltiplicate con il progredire delle metodiche di rianimazione.
In Italia i medici seguono generalmente il dettato della legge biologica, applicando tecniche finalizzate a mantenere in vita il piccolo nato, fin quando è possibile. Claudio Fabris, (all’epoca della pubblicazione del libro, anno 2010, ndr) presidente della Società Italiana di Neonatologia, ha proposto di abbassare i termini dell’aborto terapeutico al di sotto delle ventidue settimane, «perché oltre questo termine in moltissimi casi ci si trova nella penosa situazione di dover rianimare piccoli sopravvissuti all’aborto». A Firenze nel 2006 è stata sottoscritta una “Carta sulle cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse” (approvata tra gli altri anche dalla Società Italiana di Neonatologia): nel documento si sollecita una «riflessione deontologica intorno all’assistenza da prestare ai bambini nati tra la ventesima e la venticinquesima settimana di gestazione».
Il feto però, quasi sempre, non ce la fa a sopravvivere: la sua morte libera strutture sanitarie, genitori naturali e l’intera collettività dal peso di doversi occupare del suo futuro. Quanto al suo “presente”, anche il destino finale di quel corpicino o delle sue parti smembrate è avvolto nell’oblio dei segreti ingombranti, delle parole impronunciabili, dei fardelli di cui nemmeno la legge intende approfondire l’esistenza.
Feti e brandelli di feto eliminati entro la ventesima settimana di gestazione (cinque mesi di gravidanza) debbono infatti essere obbligatoriamente smaltiti insieme a tutti gli altri “rifiuti” ospedalieri: appendiciti marce, tumori maligni, cisti benigne, ernie, uteri, arti amputati, nonché tutto il materiale chirurgico che è stato necessario per eseguire gli interventi. Il decreto Ronchi, che nel 1997 aveva riorganizzato e disciplinato tutta la materia, fa infatti rientrare i prodotti dell’aborto nell’ambito dei «rifiuti sanitari pericolosi» che, in quanto tali, debbono essere destinati alla termodistruzione in appositi inceneritori, come prescritto anche da un decreto del ministero per l’Ambiente. Gli stessi impianti accolgono i rifiuti sanitari delle cliniche veterinarie e, in generale, le carcasse di animali passati a miglior vita. Si tratta di forni inceneritori studiati appositamente per generare temperature così elevate da disintegrare ogni possibile residuo di sostanza organica.
In base ad un decreto presidenziale del 1990, i genitori che intendano dare sepoltura a questi feti di piccola “età” (circostanza che si verifica generalmente solo in caso di aborto spontaneo), debbono avanzare esplicita richiesta in tal senso alle Asl. Ne consegue che, per i feti abortiti in età superiore, il seppellimento dovrebbe essere una prassi obbligata. Ma questo, di regola, non accade mai. Solo in poche città come Trento, Torino e Bologna, esistono reparti dei cimiteri adibiti a tale scopo ed in regioni come la Lombardia è stato necessario emanare a gennaio 2007 un apposito atto legislativo (che ha suscitato peraltro aspre polemiche intorno al presidente Roberto Formigoni) per disporre il seppellimento dei feti ad opera delle Asl quando i genitori non ne abbiamo fatto richiesta. Ecco come ha commentato, nel dare la notizia, il Tgcom di Mediaset: «Se finora, con il trattamento del feto dopo l’aborto alla stregua di un rifiuto da smaltire, l’ospedale non era tenuto a dare conto di dove era finito il feto, ora, invece, dovrà tenere un registro. Alcuni medici che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza, tuttavia, temono che questa nuova regola provochi ulteriori sensi di colpa nelle donne che già soffrono per la scelta di abortire».
I dubbi e le perplessità avanzati sulla nuova normativa hanno gettato un primo barlume sul fenomeno sommerso, sottaciuto, dell’incenerimento. Uno studente milanese di Scienze delle comunicazioni ha lanciato un post nel forum online della sua facoltà: «Lavoro presso la direzione sanitaria di un ospedale e recentemente ho appreso che da quest’anno vige una nuova legge sullo smaltimento dei feti. Se prima venivano smaltiti insieme a tutti i rifiuti organici, adesso le direzioni sanitarie dei presidi ospedalieri devono occuparsi dello smaltimento dei feti, indipendentemente se essi siano frutto di aborti spontanei o volontari terapeutici. Il problema delle direzioni sanitarie è quello di comunicare questa nuova normativa alle pazienti: sono obbligate a farlo ma non riescono a trovare il modo e il tono giusto. In poche parole “sono in crisi”. Mi è stato riferito che la direzione sanitaria di uno degli ospedali di Milano aveva deciso di produrre un dépliant informativo molto “nudo e crudo” su questa normativa, ma si è sollevato il disappunto più totale da parte non solo delle pazienti ma anche delle organizzazioni del malato. Adesso, voi, come lo comunichereste?».
Bella domanda: in Lombardia i feti da “smaltire” in qualche modo sono venticinquemila (dati 2006 sul “prodotto del concepimento”), di cui settemila nella sola Milano. Il punto sta proprio qui: mancando quasi ovunque un registro, in tutte le regioni italiane (esclusa ora la Lombardia), la struttura sanitaria che pratica l’aborto non fa altro che avviare il feto al ciclo dei rifiuti tossici e pericolosi. Del resto, se fosse stato seguito alla lettera quanto prescritto dal decreto del 1990 (seppellimento in caso di età intrauterina superiore alle venti settimane), oggi i cimiteri del nostro Paese sarebbero costellati di minuscole bare bianche. Invece sappiamo che non è così. E che a fare notizia sono piuttosto i casi come quello di Agrigento, dove è stato aperto un reparto speciale del cimitero per accogliere i “bambini mai nati”.
In Campania, dove i rifiuti sembrano rappresentare da sempre una maledizione biblica, il traffico di “scorie” ospedaliere non fa eccezione. Le cronache segnalano da più parti il ritrovamento di sostanze radioattive, provenienti da laboratori clinici o sale operatorie, all’interno degli ammassi di rifiuti solidi urbani, mentre in alcune discariche autorizzate, come quella di Pianura, sarebbero stati ritrovati frammenti di feti umani. La Campania produce ogni anno oltre settemila tonnellate di rifiuti sanitari, buona parte dei quali derivano dall’Azienda Ospedaliera Cardarelli: un milione di chili l’anno. Il costo per lo smaltimento – dichiarano i vertici – è di un euro al chilo. Il 36 per cento di questi rifiuti proviene dalle sale operatorie e comprende perciò anche i prodotti dell’aborto. La ditta alla quale il Cardarelli (ma anche l’ospedale pediatrico Santobono, sempre a Napoli) affidano l’incarico dello smaltimento è la Ecologica Sud con sede a Marano, che li avvia agli inceneritori di Melfi, Taranto e Cerignola. Al Cardarelli i feti abortiti entro il quarto mese vengono smaltiti insieme agli altri residui della sala operatoria e rientrano nella categoria dei rifiuti speciali. «Dopo le venti settimane per legge debbono essere tenuti in una cella mortuaria e poi portati al cimitero», precisano le assistenti sociali.
Ma chi tiene il conto? Quali sono le verifiche, quante le trasgressioni?
Ad agosto 2008 nel cimitero di Massa Carrara i carabinieri che indagavano sullo scandalo delle false cremazioni hanno rinvenuto quindici feti tra i quattro e i cinque mesi, provenienti da operazioni di aborto avvenute all’ospedale di Massa tra il 2005 e il 2007. Insieme ai feti, i Nas hanno scoperto anche una decina di arti amputati, tra gambe e piedi, anche questi frutto di operazioni chirurgiche eseguite tra il 2004 e il 2007 su pazienti diabetici o vasculopatici. La Procura ha precisato che si tratta di rifiuti ospedalieri che avrebbero dovuto essere cremati o smaltiti in altro modo.
Per avere un’idea di come si regolino in materia gli altri Paesi, andiamo a vedere cosa dispone la legge nella civilissima e vicinissima Svizzera. «Nei forni crematori possono essere incenerite soltanto le placente e le parti umane qui di seguito indicate: parti anatomiche, parti amputate, organi asportati e feti. Per motivi etici le placente e le parti umane incenerite nei forni crematori non sono considerate rifiuti speciali. Pertanto i forni crematori che inceneriscono tali parti non hanno bisogno dell’autorizzazione di ricezione per lo smaltimento di rifiuti speciali». Tradotto: li si incenerisce insieme agli scarti ospedalieri, ma non bisogna chiamarli così. La normativa impone inoltre un «controllo autonomo del produttore di rifiuti che attesti che alle parti umane da incenerire non sono stati mescolati altri rifiuti (ad es. guanti)» ed un «controllo autonomo da parte del forno crematorio che attesti che vengano incenerite soltanto parti umane come sopra descritto». Fermo restando che «per motivi etici, le parti umane (parti anatomiche, parti amputate, organi asportati e feti) e le placente non possono essere incenerite negli impianti d’incenerimento dei rifiuti solidi urbani». Sia ben chiaro.
Occhio infine al «rispetto delle disposizioni rilevanti dell’ordinanza contro l’inquinamento atmosferico relativa ai forni crematori».
Dimmi cosa mangi…
Ma perché incenerire tanto ben di dio, quando se ne potrebbero facilmente ricavare miliardi di euro, di rubli o di dollari? La domanda se la sono posta – e non da ora – le più agguerrite organizzazioni di quei numerosi Paesi che, a vario titolo, utilizzano le straordinarie risorse biologiche del feto senza farsi troppi scrupoli. Un campionario da brividi.
A marzo 2006 il giornalista Maurizio Blondet rilancia tutto l’orrore di un’inchiesta pubblicata nel 1995 dal Telegraph e condotta in Cina, nella provincia di Shenzen. «Un reporter cinese di Hong Kong bussò all’ospedale di maternità e chiese a una dottoressa se poteva avere un feto da mangiare. Il giorno dopo, la dottoressa gli consegnava “un flaconcino pieno di feti della grandezza di un pollice”. “Ce ne sono dieci qui dentro, tutti abortiti stamattina”, disse la dottoressa. Freschi freschi. E quanto costano? “Può prenderli gratis. Siamo un ospedale di stato, non facciamo pagare. Di solito noi medici li portiamo a casa per mangiarli. Lei non ha l’aria di stare molto bene, perciò li mangi”. Lo stesso giornalista del Telegraph intervistò una dottoressa della clinica Luo Hu nello Shenzen, tale Zou Qin, che ammise senza esitare di aver mangiato un centinaio di feti nei sei mesi precedenti. “Sono nutrienti, fanno bene alla pelle e ai reni”. Aggiunse che era un peccato “sprecarli”».
Poi un po’ di numeri. «La fornitura di questo cibo – scriveva il Telegraph – è abbondante: nello Shenzen si fanno almeno settemila aborti forzati l’anno, milioni in tutta la Cina. Sicché, nel privato, un feto da consumare costa meno di due euro. Il dottor Warren Lee, della Hong Kong nutrition association, conferma: “Mangiare i feti è una tradizione della medicina cinese, profondamente inserita nel folklore”. In Cina si vendono e consumano comunemente le placente umane, anch’esse ritenute curative: c’è un attivo contrabbando attorno agli ospedali, ogni placenta costa sui 2-3 euro».
«Il Telegraph – conclude Blondet – parlò con un altro dottore dello Shenzen, Cao Shilin, che negò il commercio. I feti abortiti, disse, li mandiamo alle fabbriche che li usano per produrre medicinali. Ovviamente, in fabbrica, la “lavorazione del prodotto” comincia con una bollitura per estrarne le sostanze ritenute curative. Come si bolle la pelle dei giustiziati per estrarne collagene, che le signore bene occidentali poi si fanno iniettare dal chirurgo plastico per ingrossarsi le labbra. La Cina fornisce collagene a prezzi stracciati». Ma questa è ancora un’altra storia.
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