Bufera continua su Saipem, il nostro colosso per l’impiantistica petrolifera controllato da Eni al 70 per cento e dalla Cassa Depositi e Prestiti per il restante 30 per cento.
L’accusa è da non poco: aggiotaggio e falso in bilancio a carico della società e di 4 dirigenti apicali, in merito ad una maxi vendita pari al 2,3 per cento del suo capitale sei anni fa, nel 2013.
A risponderne sarà quindi anche Saipem, per via della legge sulla responsabilità amministrativa degli enti pubblici. Lo ha deciso il gup del tribunale di Milano Giusy Barbara, accogliendo le richieste del pm Giodano Baggio, specializzato in reati finanziari e titolare di altre grosse inchieste su Saipem, addirittura per “corruzione internazionale”.
La società petrolifera era finita sotto i riflettori anche per il bilancio 2012, ma tutto è finito in prescrizione. Il bilancio 2013, invece, non viene graziato dalla salvifica prescrizione, motivo per cui il processo comincerà il 23 maggio davanti alla seconda sezione penale del tribunale meneghino. Vanno a processo, oltre alla società stessa, anche quattro dirigenti: l’ex presidente ed ex amministratore delegato Pietro Tali; l’ex amministratore delegato Umberto Vergine; l’ex numero uno delle business unit Engineering & Construction Pietro Varone; l’ex responsabile per la redazione dei documenti contabili Stefano Goberti.
Secondo il quadro accusatorio delineato dal pm Baggio, vennero nascoste al mercato non poche criticità sul budget previsto per il 2013. In particolare, sia nel comunicato stampa del 24 ottobre 2012 e sia nella conference call dello stesso giorno, omettendo di riferire le previsioni interne che vedevano un calo nell’ebit, inferiore al 2012 per circa 1 miliardo di euro.
Per Baggio, addirittura, la società aveva programmato di “abbellire” il budget di previsione con “l’inserimento di commesse fittizie ad alta marginalità”. Una truffa in piena regola, stando alle ricostruzioni della pubblica accusa ai danni della Borsa, dei mercati, dei risparmiatori.
Come la Voce ha più volte dettagliato, sia Saipem che mamma Eni sono sotto i riflettori della procura meneghina per varie storie di maxi tangenti, dall’Africa fino al Sud America, tra inchieste in corso e processi già avviati, e sempre col capo d’imputazione da novanta di “corruzione internazionale”.
Sul primo fronte i casi bollenti di Nigeria e Algeria. Sul secondo la tangente del secolo in Brasile, quella accertata fino ad oggi da 5 miliardi di dollari e con la possibilità che tocchi il tetto dei 25. Si tratta del caso “Petrobras” che ha mandato in tilt l’intero sistema di potere brasiliano, con l’impeachment per il presidente carioca Dilma Rousseff e la galera (9 anni) per il suo mitico predecessore, Ignazio Lula da Silva.
Sono inquisite sia in Brasile che a Milano le nostre Eni e Saipem, nonché la big privata del settore, ossia la Techint del gruppo capitanato da Gianfelice Rocca. Il cui fratello Paolo è sotto inchiesta in Argentina con l’altra perla di famiglia, Tenaris, leader dell’acciaio lavorato e distribuito nel Paese di Maradona. Entrambi i fratelli, con parenti & amici, sono poi sotto indagine, sempre a Milano, per le acrobazie finanziarie del tesoro di casa, San Faustin, acquartierato prima in Lussemburgo e poi in Svizzera.
Ma ecco che una “manina” arriva per far dimenticare le bad news e gettare acqua sul fuoco, da perfetto pompiere. E’ la pagina finanziaria di Repubblica che nel box sulla “Borsa”, per la penna di Luca Pagni titola, “Saipem rialza la testa”. E argomenta: “Tra i principali titoli in evidenza Saipem (+ 4,77 per cento): il rosso per 472 milioni non inganni, perché frutto di svalutazioni. Conta più la crescita dei ricavi e dei margini, nonché l’aumento degli ordini”.
Una leccata più genuflessa di così non si può.
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