Ma siamo matti? Che diavolo succede in questo Paese avvelenato da sovranismo, populismo, razzismo e ora, per sciagurata invenzione leghista, indotto a ergere un muro di confine, di respingimento, della musica senza il marchio del made in Italy. La senescenza, se avanza con disturbi della ragione diventa fonte di sbandate mentali. E passi se rimane confinata in forme di debacle personale. Il guaio è se tracima dal sé ed è il caso del celeberrimo paroliere della musica leggera italiana. Mogol, partner di Battisti per i testi di canzoni, che stanno nella storia di genere in posizioni di primato per qualità e durata del loro successo, ha colto al volo l’opportunità, di difendere se stesso e i colleghi italiani, generata dalla mente nazionalista della Lega: “Mettiamo un freno all’invasione straniera del rock” propone il Carroccio e perché sia chiaro il proposito “contingentiamo la diffusione della produzione musicale extracomunitaria”, ovvero chiudiamo parzialmente le frontiere o quanto meno imponiamo un embargo alle canzonette Usa, inglesi, spagnole, francesi, giamaicane, portoricane e di qualunque provenienza che non abbia il doc Italy. Mogol, presidente della contestatissima Siae, aderisce con convinzione al diktat trumpiano (dazi e muri di confine) firmato dal deputato leghista Morelli , che supponiamo sollecitato dal patriottismo interessato del vice premier valpadano, con l’obiettivo di acquisire benemerenze e consenso elettorale dallo star system della canzone all’italiana e in particolare da chi la frequenta in chiave rock. Mogol lo rivendica all’italiana, come creatura di Battisti e compagni/compagne, con un omissis sul marchio di fabbrica, incomprensibile per uno come lui che di musica se ne intende e conosce alla perfezione le origini della musica altra rispetto alla canzone melodica italiana.
Non c’è niente di casuale nel proposito di privilegiare Mengoni, la Berté, Ligabue o Al Bano. L’imput per chiedere che radio, televisione e altri mezzi di diffusione riservino il 30% al made in Italy è una derivazione dell’ostracismo tentato in danno di Mahmood, del suo successo a Sanremo, maldigerito dagli xenofobi nostrani.
C’è da riflettere sulla tendenza all’autarchia della proposta leghista: è lecito espropriare le radio della libertà di scelta, evidentemente tarata sul gradimento degli ascoltatori? I produttori di musica di New York, Parigi, Londra avrebbero pari diritto nel chiedere il 30% della loro musica all’emittente che trasmette solo musica italiana? Quali strumenti repressivi immagina la Lega per estendere il protezionismo a contenitori gratuiti del cosmo musicale quali sono You Tube e affini?
Escluse le significative eccezioni di Eros Ramazzotti, Laura Pausini e poche altre star mondiali, se è poca cosa la musica italiana esportabile, una ragione ci sarà: limiti della lingua imparagonabile all’inglese per diffusione nel mondo, modesta capacità di promuoverla, scarso apporto dell’industria discografica? Di tutto un po’. E’ vero e lo ricorda Mogol, “Limitazioni analoghe sono in vigore in Inghilterra, Francia e Portogallo”, ma fosse questo l’esempio da seguire, che casino se lo adottassero Cina, Giappone, Liechtenstein, Russia e Repubblica di San Marino, Città del Vaticano, Groenlandia, triangolo delle Bermuda.
Era esterofilia affiancare agli interpreti italiani, big come Ray Charles, Armstrong, Josè Feliciano, Paul Anka sul palco di Sanremo?
Ogni cosa detta con inalterata stima per Mogol e disistima per il sovranismo leghista.
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